OGNI LACRIMA NASCONDE IL DESIDERIO DELLO SPOSO
Esiste per tutti un luogo dove siamo soliti nasconderci dal mondo per accarezzare il nostro dolore. E’ quello dove piangerci addosso, seduti nell’unica identità che ci sembra conveniente e adeguata per noi: quella di una persona contro la quale il destino ha puntato il dito sino a schiacciarla nell’ineluttabile fallimento.
Una tomba sigillata che, come una sirena, ci chiama per sedurci e gettarci nelle braccia della depressione, spirituale prima e patologica poi. Se guardata con gli occhi della carne, la tomba di Gesù diventa spesso l’altare subdolo che erigiamo al nostro uomo vecchio che ci spinge a piantarci al centro dell’universo come fossimo gli unici sofferenti, incompresi, rifiutati, traditi, anche in ciò che pensavamo santo, retto, puro. E’ Pasqua, e può sembrare paradossale, ma nel fondo del nostro cuore resiste ancora una parte di noi che vorrebbe riportare il Signore laddove lo abbiamo visto deporre, per decretare a noi stessi e al mondo l’esito fallimentare di un amore, di un lavoro, di un’amicizia, della missione.
E sdoganare finalmente la tristezza per legittimare lo sconforto e quel sentimento di ingiustizia che ci rende torvi e incapaci di vera gioia. Ma Gesù ci viene incontro anche oggi attraverso i suoi angeli vestiti di risurrezione, immagine degli apostoli che con la predicazione raggiungono il fondo più oscuro dei nostri cuori. Essi si trovano infatti nel luogo esatto dove era stato deposto il Signore, quasi a descrivere il perimetro della sua esistenza terrena ormai trasformata; seduti laddove erano la testa e i piedi di quel corpo non più preda della morte, sulla soglia dell’abisso che ci sta per risucchiare nella disperazione, gli angeli ci scuotono per ridestarci: “donna, perché piangi?”. Donna, che è come dire anima, “prendi in mano la tua vita di oggi, così com’è, e guardala bene e cerca la sorgente delle tue lacrime!”.
Ella amava il Signore, eccome, ma il suo amore, come ogni amore umano, era destinato a divenire lacrime, dolore struggente di un cuore che non può andare oltre quella pietra. La resurrezione che strappa alla corruzione ciò che appartiene all’uomo è impensabile perché non è nel Dna della carne. L’esperienza che portiamo dentro è quella del limite invalicabile che segna la morte, quella che segue, ineluttabile, un tradimento ad esempio. La domanda degli angeli risveglia il quesito più profondo, il bisogno di sapere perché oggi siamo quel che siamo, soffrendo quello che soffriamo. Come uno scrutinio, fondamentale in ogni percorso di iniziazione alla fede, risuscita in noi innanzi tutto la verità, ovvero la forza e la prepotenza del bisogno di senso e pienezza per la nostra vita. Per questo è necessario scontrarsi con una tomba vuota.
E’ decisivo sentirsi soli, quasi traditi dall’Amato, così come accade alla sposa del Cantico dei Cantici. Ma coraggio, perché lo Sposo appare proprio dove pensavamo non fosse più, e ci parla aggiungendo alla domanda degli angeli quel “Chi cerchi?” con cui ci svela la fonte originaria delle nostre lacrime. Quel “chi” ci dice che le nostre lacrime sono per Lui, ed è il primo passo per uscire da noi stessi, dall’egocentrismo che ci schiaccia. Sono lacrime d’amore, nonostante tutto ci dica il contrario; nonostante i peccati svelati e la carne che vorrebbe afferrare tutto.
No, le lacrime con le quali ci accostiamo alla tomba, anche se rivestite di pura carne, celano un amore invincibile, quello deposto dal Padre nel nostro cuore. Ecco, così comincia il cammino che ci fa spose dell’unico Sposo! Abbiamo ancora nel cuore il “mio Signore”! Piangiamo di dolore ripiegati su noi stessi senza sapere che quelle lacrime sono i distillati della gioia più pura, sono l’amore che attende di incontrare il suo Amore, celeste, più forte della carne e del peccato. Tutte le lacrime di ogni uomo nascondono il desiderio dello Sposo! Ma per scoprirlo è necessario un parametro nuovo che non ci appartiene; per riconoscere Cristo che ha oltrepassato i vincoli della carne occorre un segno che ci sospinga al di là dei nostri limiti; un anello che congiunga la nostra realtà alla sua realtà; una chiave che apra in noi la porta per entrare, esattamente come siamo, poveri, deboli, precari e limitati, laddove ora Egli è, il Regno celeste. Occorre un indizio che parli al cuore e dischiuda gli occhi perché riconoscano lo stesso Gesù visto e ascoltato in quella presenza nuova e sorprendente, al punto d’essere scambiata per il “custode del giardino”.
Occorre che Lui ci chiami a sé, in quel nuovo sé che è diventato. Un cammino attraverso la carne per superare la carne, senza dimenticare la carne. L’esperienza di Maria e dei discepoli sarà quella di essere attirati da Cristo risuscitato nel suo Mistero Pasquale, nella dinamica che lo ha fatto passare dal Venerdì, attraverso il Sabato, sino all’aurora della Domenica. E’ il momento decisivo: “Maria!”. La voce di Gesù che la chiamava per nome era unica, perché nessun giardiniere avrebbe potuto chiamarla così. E’ Lui, è il Maestro del mio cuore! E’ Lui, mi ha spiegato l’amore, e ora mi insegna che è eterno! Ecco il parametro che ci fa accogliere l’impossibile: E’ risorto! Solo Lui mi può chiamare così, solo Lui mi conosce così: Maria! Quel nome in quella voce era tutta la sua storia, il suo intimo, ogni centimetro, ogni secondo.
Il perdono si faceva di nuovo cosa viva: in quel nome il Signore le consegnava la certezza che nessuno le aveva portato via quell’amore; e che non era più la tomba il luogo dove andarlo a cercare per riviverlo nel ricordo e nel dolore. Maria può riconoscere il Maestro risorto in se stessa, in “Maria!” chiamata alla stessa vita dell’Amato. Ella stessa era divenuta una nuova creazione che la univa indissolubilmente allo Sposo. E oggi il Signore appare anche a noi chiamandoci per nome attraverso la sua Chiesa, nella quale possiamo sperimentare la nascita a una vita nuova nell’amore che oltrepassa le barriere della morte. Anche se la carne si fa viva e vorrebbe “trattenere” Gesù perché continui ad essere il “mio Signore”, non è più come prima. Nella nuova creazione dei figli di Dio infatti, nessuno vive più per se stesso. Neanche l’amore di Cristo! Ma vive per lo Sposo che è morto ed è risorto per loro, e che li spinge nell’urgenza di annunciare ai suoi fratelli la sua resurrezione. La Pasqua delle nozze con Cristo è l’esodo che afferra la nostra vita, e ci libera dall’egoismo di cui si nutre l’amore carnale dell’uomo vecchio. Non è più il “mio” Signore, ma il Signore dei “fratelli”, figli tutti del “Padre suo” e “Padre nostro”.
La Chiesa sposa di Cristo, infatti, si consegna nello Sposo a ogni uomo per la salvezza del mondo. E’ libera davvero, non teme la morte perché nulla potrà mai separarla da Cristo e dal suo amore. Un verso di una poesia di Antonio Machado, poeta straordinario, dice: «Si un grano del pensar arder pudiera, no en el amante, en el amor, sería la mas honda verdad la que se viera». Che, tradotto alla lettera, significa: “se un seme del pensare potesse ardere, non nell’amante, ma nell’amore, si potrebbe vedere la verità più profonda”. E’ l’esperienza a cui siamo chiamati, la stessa di Maria: se un seme, un piccolissimo seme dei nostri pensieri, circa la storia, noi stessi, il matrimonio, il lavoro, un seme di quello che ora stiamo pensando ardesse in Lui, nel suo Amore, e non nella nostra povera carne, amante sì ma inesorabilmente limitata; se un seme del nostro intimo, sofferente o felice che sia, potesse ardere in Colui che pronuncia il nostro nome, potremmo vedere la verità più profonda, il fondamento eterno della nostra vita, la risurrezione che assorbe ogni istante della nostra storia, facendone un frammento di eternità.
Allora scopriremmo che la verità più profonda è l’amore infinito che vince la morte e ci fa vivere donando noi stessi, senza riserve.