LE NOSTRE FERITE SONO LA PORTA DISCHIUSA SULLA SALVEZZA, STIGMATE LUMINOSE TESTIMONI DELLA VITTORIA DI CRISTO
“E’ lecito in giorno di sabato salvare una vita o toglierla, fare il bene o il male?”: la domanda di Gesù, ormai sotto processo per aver attentato alle prescrizioni sul Sabato, colloca il bene per la vita al centro della questione. Di più, mettendo “in mezzo” l’uomo con la mano inaridita, rovescia il processo e, da imputato si fa giudice. “In mezzo”, come imputato, è ora il “cuore indurito” dei farisei e degli erodiani, inaridito come la mano di quell’uomo. In giorno di sabato, pur rispettando ogni prescrizione, si può fare il bene come il male: loro, con la malizia con cui “osservavano” Gesù per vedere se amava anche in quel giorno santo e “per accusarlo e farlo morire”, avevano fatto il male. Dunque, se per loro, in giorno di sabato, era lecito “tenere consiglio” per “togliere una vita”, come poteva non essere lecito guarire e salvare una vita? Con questo paradosso Gesù svela l’ipocrisia malvagia di chi, nel nome di una Legge spogliata dello Spirito, stava decidendo nel cuore di uccidere chi stava facendo del bene. In quella sinagoga si trattava di salvare o togliere la vita ad “un uomo”, anthrōpos, immagine di ogni uomo. Per lui, infatti, Dio ha “fatto il sabato”, il riposo preparato per chi ha sperimentato, durante la settimana, la durezza della vita, la conseguenza del peccato di Adamo.
Ma esso può essere sporcato dall’ipocrisia, e trasformarsi in luogo di male e di morte. Scoccando la domanda, Gesù penetra sino al fondo del cuore, e non ci si può più nascondere, si può solo “tacere”. Ai suoi occhi che, come un periscopio, secondo l’originale greco “periblepsamenos”, scrutano e abbracciano ogni pensiero a 360 gradi, non sfugge il cuore indurito di chi gli era accanto. E non può trattenere l”ira” divina con la quale il Padre aveva corretto “gelosamente” il suo Popolo; esplode in Lui lo “zelo” mosso dalla “tristezza” per ogni anima arida ed arsa, senz’acqua e fecondità, dei farisei e degli erodiani come dell’infermo. Per questo, Gesù colma il silenzio calato nella sinagoga con la parola creatrice, offrendo a tutti la possibilità di salvarsi. Attraverso quella mano incapace di stendersi per accogliere e donare, mostra cosa significhi dare al sabato pieno compimento. Anche un cuore indurito può alzarsi e risuscitare, ed è il giudizio di misericordia di Gesù, offerto a tutti in quell’oggi nel quale stava compiendo la Parole profetiche sul Messia.
Proprio la debolezza che ci costituisce è la prova che “scagiona” Gesù, giustificando con la necessità e l’urgenza dell’amore, la liceità di fare il bene e salvare una vita, non solo anche di sabato, ma proprio e in maniera definitiva di sabato: il cuore e la mano, infatti, sono induriti anche di sabato, come ogni altro giorno. E proprio nel sabato della tomba, nella sepoltura e nella discesa agli inferi, Gesù avrebbe mostrato la liceità di amare perché, compiendo in esso il precetto di non fare niente – non vi è nulla di più inattivo di un morto – ha sanato e salvato la vita dal peccato e dalla morte; per questo dice “Alzati e mettiti in mezzo!”, “destati” dall’aridità, come recita, non a caso, il termine originale greco usato anche per la “risurrezione” di Gesù. Questo pover’uomo è incapace di tutto, come quando si dice “sono senza una mano”: prendere, scrivere, guidare, mangiare, qualunque relazione è compromessa. Per lui ogni giorno è sabato, ma, invece d’essere di festa e riposo, è un sabato di condanna e di morte che si spalma su tutta l’esistenza. In quest’uomo si scorge l’esito di una religione vestita d’ipocrisia: in quel sabato, infatti, si trova nella sinagoga e non fa nulla, compiendo così la Legge.
Ma vi è costretto dall’infermità, immagine dei legalismi che obbligano a compiere i precetti dall’esterno, lasciando sudicio l’interno. C’è una bella differenza tra il non poter e il non voler fare nulla, come quella che passa tra l’amore e il timore. Ma a quell’uomo una cosa non è impedita, l’obbedienza, l’unica che apre il cammino alla risurrezione. Anche a noi non è preclusa, per quanto deboli, aridi, insensibili e incapaci siamo, e i peccati, le sofferenze, le difficoltà, ci ostacolino e ci blocchino. Gesù ha obbedito, ha “steso” le sue mani sulla Croce e “disteso” il corpo nel sepolcro, è entrato nella morte, l’ha vinta e ci consegna gratuitamente l’obbedienza per risorgere. “Alzati e mettiti nel mezzo!”, “stendi la mano”: anche noi siamo chiamati dal Signore ad alzarci dall’egoismo e a metterci in mezzo, affinché si veda bene la mano sterile che guarisce per opera di Dio, la ferita sanata dalla misericordia. Come Gesù, che tutti hanno potuto vedere crocifisso, perc
Così Dio sceglie la sterilità, la piccolezza, la debolezza, i peccatori, come Giacobbe, Davide, Sansone, e Pietro, il traditore. Dio sceglie “il nulla” per mostrare che cosa significhi il sabato, il giorno in cui “nulla” si fa perché è Dio che fa “tutto”. Le nostre ferite “stese” davanti al mondo, infatti, sono il luogo della misericordia di Dio che “ristabilisce” la vita laddove era la morte; il suo amore la fa ritornare ad essere, secondo il significato del termine greco tradotto con “risanata”, com’era al principio, nel progetto del Padre: “aperta” per donare, come la mano guarita, come il cuore inondato d’amore. La nostra debolezza, che il mondo, “tenendo consiglio” nelle aule parlamentari o nei circoli culturali, come nelle nostre riunioni familiari o anche parrocchiali, vorrebbe “togliere di mezzo”, è la porta spalancata sul Signore, il preludio alla sua opera. Come fu per Gesù dopo la risurrezione, quando, proprio attraverso le sue ferite, provava agli apostoli la risurrezione della sua carne: quelle ferite erano la memoria della sua carne crocifissa per amore, e la prova che proprio con quella carne lì aveva vinto il peccato. Come le nostre ferite poste in mezzo facendoci arrossire, perché chi ci è accanto possa vedervi l’opera soprannaturale che le guarisce e trasfigura, l’amore infinito di Dio che vi ha preso dimora.
Commento a cura di don Antonello Iapicca
Qui l’intervista Rai a don Antonello
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