don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 2 Febbraio 2022

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SPOSATI DA CRISTO SULLA CROCE, SIAMO “PRESENTATI” CON LUI AL PADRE PER SVELARE IL SUO AMORE A OGNI UOMO


AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE

Siamo figli della Pasqua, e per questo primogeniti. La Festa di oggi ci svela la nostra identità, e in essa è illuminata la nostra vita, il senso di tutto quanto ci accade: “Quando tuo figlio domani ti chiederà: Che significa ciò?, tu gli risponderai: Con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto, dalla condizione servile. Poiché il Faraone si ostinava a non lasciarci partire, il Signore ha ucciso ogni primogenito nel paese d’Egitto, i primogeniti degli uomini e i primogeniti del bestiame. Per questo io sacrifico al Signore ogni primo frutto del seno materno, se di sesso maschile e riscatto ogni primogenito dei miei figli. Questo sarà un segno sulla tua mano, sarà un ornamento tra i tuoi occhi, per ricordare che con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto” (Es, 13). Queste parole consegnate dal Signore a Mosè sono la risposta ad ogni “domani” sorto nella storia di Israele prima e della Chiesa poi; il “domani” sorto dalla notte di Pasqua, il seno benedetto di Israele, il fonte battesimale dal quale ciascuno di noi è rinato ad una vita nuova. I primogeniti sono laprimizia dell’opera di Dio, il segno di contraddizione per il mondo, perchè siano svelati i pensieri dei cuori, e risplenda sulla terra la Verità che il demonio tenta di occultare tenendo in schiavitù l’umanità, come Il faraone ostinato non voleva lasciar partire il Popolo di Israele. Sui primogeniti riverbera la luce che brilla sul volto di Cristo: “E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuoriper far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulse sul volto di Cristo” (2 Cor. 4, 6). Le nostre storie nel susseguirsi di ogni secondo ci sono date perchè possa rifulgere in esse la luce di Pasqua, la risposta divina al mistero del dolore dell’uomo. 

Ecco, ciascuno di noi è la risposta che Dio rivela all’umanità, il segno del suo amore nascosto tra le lacrime che bagnano la storia. Quanti “che significa ciò?” intorno e dentro di noi! “Che significa tutto questo?”: questa mia storia senza capo né coda; questa malattia che s’è portata via mia madre a soli quarant’anni; questo incidente che mi ha strappato mio figlio mentre si affacciava alla vita; questa crisi economica che dissangua la mia famiglia; il tradimento di mio marito; il terremoto che ha azzerato la vita di migliaia di persone lasciandole senza più passato né futuro, gettate in un presente vuoto, e neanche una tomba dove piangere padri e figli; questa depressione che mi inchioda in casa; la bulimia di mia figlia, impazzita dietro a facebook e alle diete; e le ingiustizie patite, il dolore innocente, le guerre, il male. “Che significa ciò?”, non comprendo… E la tristezza soffoca i giorni nella delusione e nel disincanto, l’ira strattona lingua e mani, e la violenza sgorga indomita a macchiare indelebilmente relazioni e sentimenti. 

Tu gli risponderai: Con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto, dalla condizione servile”: Dio ha fatto uscire dalla tomba suo Figlio, ha vinto il male, il peccato e la morte. Tu gli risponderai con la tua vita, crocifissa con Cristo e con Lui risuscitata. La Chiesa è il segno del braccio potente del Signore, capace di liberare dalla condizione servile nei confronti del demonio, dalla schiavitù alla paura della morte. La nostra vita è stata riscatta da Cristo, come una primizia per ogni uomo. In Lui, ciascuno di noi è primogenito della libertà e siamo chiamati a vivere in ogni evento il suo stesso mistero pasquale: “Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortaleDi modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita” (2 Cor. 4,8 ss). Ecco la risposta di Dio, i primogeniti offerti in sacrificio perchè nel mondo operi la vita

Quel “tu gli risponderai” giunge oggi diritto al cuore di ciascuno di noi; quel “tu” si fa “io” nel mistero che oggi celebriamo. Gesù, un bambino di appena quaranta giorni, è condotto al Tempio per essere offerto al Signore. Il Figlio di Dio, apparso per pura grazia nel seno della Vergine Maria, è ufficialmente e pubblicamente consegnato a suo Padre. Dio gioca a carte scoperte, sin dall’inizio. Alla luce di quanto Maria e Giuseppe compiono nel brano odierno, si comprendono le parole di Gesù dodicenne ritrovato tra i dottori nel Tempio: “Devo occuparmi delle cose del Padre mio”. Gesù è il primogenito perfetto sacro al Signore, tutta la sua vita sarà un cammino verso il compimento della missione affidatagli. Non si lascerà attirare dalle sirene della carne e non temerà di dire più volte a sua Madre: “Donna, che ho a che fare con te?”; scapperà dalle lusinghe del successo perchè incamminato “decisamente” sulla via del Calvario; Gesù è il primogenito sacro al Signore, in Lui deve risplendere la Luce della Vita nelle tenebre della morte: nulla lo può distogliere, neanche sua Madre, neanche Pietro e gli altri apostoli. 

Così è per ciascuno di noi. Per un’insondabile condiscendenza del cuore di Dio siamo stati eletti ad essere primogeniti della nuova creazione, apostoli del Cielo, missionari dell’amore infinito di Dio. Siamo stati presentati al Tempio, la vita non ci appartiene. Essa è la risposta di Dio a chi ci è vicino, a chi soffre senza essere capace di dare un senso al suo dolore. Per questo è necessario tutto quello che ci accade, ogni istante della nostra vita è prezioso, un candelabro acceso posto sull’altare della storia. Nulla è a caso, tutto è per mostrare al mondo il braccio potente del Signore, il suo amore infinito che ha ragione di ogni male. Per questo il male deve raggiungerci, ghermirci, portarci in Egitto. Secondo i rabbini, la schiavitù in Egitto è stata causata dalla malvagità dei fratelli di Giuseppe che lo hanno venduto per invidia. Il midràsh ci spiega che il prezzo del riscatto dei primogeniti fu fissato dalla Torà in base al denaro ricevuto dai fratelli per la vendita di Giuseppe: “E vendettero Giuseppe per 20 denari (Gen. 37, 28)

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Disse il Santo Benedetto Egli Sia: voi vendete il figlio di Rachele per 20 pezzi d’argento, che corrisponde al prezzo di cinque Selaìm; perciò ciascuno di voi dovrà dare per il riscatto di suo figlio cinque Selaìm” (Ber. Rabbà 84, 18). La sapienza di Israele vede dunque nell’offerta dei primogeniti un legame stretto con il peccato compiuto dai figli di Giacobbe nei confronti del loro fratello. I primogeniti divengono così il segno del riscatto di Giuseppe: il braccio potente del Signore rivela la sua misericordia che perdona riscattando i discendenti di Giacobbe caduti in schiavitù. Gesù, come Giuseppe, è stato venduto per poche monete, e così crocifisso, ucciso e sepolto nella tomba. Ma Dio lo ha riscattato dalla morte, primogenito di molti fratelli, il segno checontraddice per sempre il peccato e la morte. In Lui risplende la misericordia di Dio che non ha lasciato che i suoi figli rimanessero a marcire nel dolore e nella morte eternamente e senza risposta. Scrive Benedetto XVI che “l’ingiustizia, il male come realtà non può semplicemente essere ignorato, lasciato stare. Deve essere smaltito, vinto. Questa è la vera misericordia. E che ora, poiché gli uomini non ne sono in grado, lo faccia Dio stesso – questa è la bontà incondizionata di Dio” (J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II Parte, pp. 151).

Così l’offerta della nostra vita che segna la nostra primogenitura è il sigillo della sua misericordia che Dio pone in questa generazione. Siamo la prova e la memoria del suo amore, perchè ogni uomo che giace in Egitto possa ricominciare a sperare e la sua speranza non sia delusa. La parola ebraica che definisce il “primogenito”, o  “bekhor” deriva dal radicalebkr che significa “portare frutti primaticci, conferire il diritto di primogenitura, essere nato come primogenito, partorire un primogenito”. Siamo chiamati a portare i frutti primaticci dello Spirito Santo, l’amore capace di lasciarsi crocifiggere, i segni della fede adulta operante in noi. In un’omelia per il Venerdì Santo, per spiegare la missione dei cristiani, il Padre Cantalamessa esponeva un esempio eloquente: “Cosa si fa per assicurare qualcuno che una certa bevanda non contiene veleno? La si beve prima di lui, davanti a lui! Così ha fatto Dio con gli uomini. Egli ha bevuto il calice amaro della passione. Non può essere dunque avvelenato il dolore umano, non può essere solo negatività, perdita, assurdo, se Dio stesso ha scelto di assaporarlo. In fondo al calice ci deve essere una perla. E questa perla è la risurrezione!”.

Ciascuno di noi ha conosciuto questa perla nell’esperienza della sua vita. E’ la perla che dà sostanza alla primogenitura. E’ Cristo stesso, e con Lui possiamo bere ogni giorno il calice amaro della passione che siamo chiamati a vivere. E mostrare al mondo che si può bere anche il veleno, perchè in Cristo, nulla può danneggiare! Secondo il midrash il compito più importante assegnato al primogenito fin dai tempi di Abramo fu di certo quello di esercitare il culto sacerdotale (Ber. Rabbà 63, 18). La nostra vita di primogeniti è dunque una liturgia da servire come sacerdoti santi: “L’unzione nel Battesimo e nella Confermazione è un’unzione che introduce in questo ministero sacerdotale per l’umanità. I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarlo e condurre a lui. Quando parliamo di questo nostro comune incarico, in quanto siamo battezzati, ciò non è una ragione per farne un vanto. È una domanda che, insieme, ci dà gioia e ci inquieta: siamo veramente il santuario di Dio nel mondo e per il mondo? Apriamo agli uomini l’accesso a Dio o piuttosto lo nascondiamo? Non siamo forse noi – popolo di Dio – diventati in gran parte un popolo dell’incredulità e della lontananza da Dio? Non è forse vero che l’Occidente, i Paesi centrali del cristianesimo sono stanchi della loro fede e, annoiati della propria storia e cultura, non vogliono più conoscere la fede in Gesù Cristo? Abbiamo motivo di gridare in quest’ora a Dio: Non permettere che diventiamo un non-popolo! Fa’ che ti riconosciamo di nuovo! Infatti, ci hai unti con il tuo amore, hai posto il tuo Spirito Santo su di noi. Fa’ che la forza del tuo Spirito diventi nuovamente efficace in noi, affinché con gioia testimoniamo il tuo messaggio!” (Benedetto XVI).

Oggi questa forza dello Spirito viene ancora una volta in aiuto alla nostra debolezza. E’ vero, abbiamo questo tesoro in vasi di creta, ma è bene che sia così perchè appaia chiaramente l’opera di Dio che può compiersi in chiunque. Come si è compiuta in Shahbaz Bhatti, l’uomo politico indiano ucciso recentemente per la sua fede. Nel suo testamento scriveva: “Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora, in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del mio paese, Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire”.