PRESA IN MANO DA CRISTO, LA NOSTRA VITA INFECONDA PERCHE’ FERITA DAL PECCATO, E’ MOLTIPLICATA DALLA SOVRABBONDANZA DEL SUO AMORE PER ESSERE DONATA AL MONDO
AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE
La compassione di Gesù ci sfama. Seguire Gesù senza l’esperienza di essere realmente sfamati significa sicuramente venir meno per via. Essere con Lui, seguirlo sin nel deserto, attirati dalle Sue Parole, dai Suoi miracoli può non essere sufficiente. Anzi. Come giungere in ritardo anche di un solo minuto alla consegna di un premio. Risuonano le parole di Gesù a coloro che protestano l’essere stati con Lui, l’aver predicato nel Suo nome: “Non vi conosco!”. La prossimità non è sufficiente. Non sazia. Decisivo è l’incontro personale con la Sua compassione. La Sua passione con la nostra. Il Suo dolore con il nostro. La Sua vita con la nostra. Lui in noi. Gesù conosce il nostro cuore, i suoi vuoti, i suoi smarrimenti. La nostra fame d’amore. E ha compassione. Le sue viscere si commuovono dinanzi a ciascuno di noi. Lui sa che veniamo da lontano, perduti e spauriti. Conosce i nostri peccati. E anche il deserto dove Lui stesso ci ha condotto.
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Non c’è pane nel deserto, non c’è vita. “E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perchè i deserti interiori sono diventati così ampi” (Benedetto XVI, Omelia nella Messa di inizio Pontificato, 24 Aprile 2005). Si, seguire il Signore significa innanzi tutto scendere con Lui sino al vero che ci riguarda più profondamente. Scendere sino a dove siamo esattamente quel che siamo, per essere amati e sfamati così come siamo.
Siamo impotenti, incapaci, poveri, mendicanti. “Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte m’inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?” (Henrik Ibsen, Brand). Ci ha cercati, ci ha trovati al fondo delle nostre tombe. Tre giorni dietro a Lui a mendicare. Tre giorni, inconsapevoli, seguendolo nel Suo tempo disteso nella tomba, la Sua, le nostre. Conoscere il Signore è dunque innanzi tutto conoscere il buio che ci copre, la morte che ci paralizza. E scoprire che sino a quel fondo è giunta la Sua compassione. E lì, nella stessa tomba, “nell’ora in cui la morte ci inghiotte” lasciarci sfamare. Alzare le mani, arrenderci dinanzi all’evidenza dei fallimenti d’ogni pretesa autonomia, obbedire alla Sua voce e sederci. Smettere di agitarci, di stringere i pugni.
Obbedire al più comodo degli ordini: sederci. Abbandonarci. Riposare. Lasciare che il Suo pane, il Suo stesso corpo, il Suo amore fatto carne, la Sua misericordia fatta alimento, che Lui stesso ci sazi. E che riempia la nostra vita, che vi faccia sovrabbondare la Sua Vita. “L’esistenza si esprime, come ultimo ideale, nella mendicanza. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo” (Don Luigi Giussani, Testimonianza durante l’incontro del Santo Padre Giovanni Paolo II con i movimenti ecclesiali e le nuove comunità, Roma, 30 maggio 1998).
Lui ci sferza con la sua mendicanza – “quanti pani avete?” – ci chiede in prestito la nostra povertà, quella su cui, ormai, sappiamo di non poter fare affidamento. L’indigenza che ci spinge sull’orlo del cinismo, quel vuoto di energie e speranze che forse non è neanche umiltà, ma solo amara sfiducia. Ci guarda e ci chiede proprio quello che per noi è ormai incapace di sfamare, ci assedia mentre siamo prigionieri del dubbio – “E come si potrebbe sfamarli di pane qui, in un deserto?” – ci invita a raccogliere quel poco che ci portiamo dietro e a prestarglielo. Per rendercelo trasfigurato, moltiplicato, colmato.
Per questo ci ha cercati, incontrati e attirati a sé, per saziarci. Per fare con la nostra povertà, con la nostra indigenza, perfino con la nostra sfiducia e il nostro freddo e disincantato cinismo, per fare della nostra vita mendicata dalla sua compassione, una vita piena, bella, gioiosa. Il miracolo comincia qui, nel suo sguardo di compassione che cerca la nostra povertà per farne la pienezza con cui sfamare il mondo. Il cuore del miracolo è racchiuso nel suo bisogno della nostra indigenza, nella sua compassione che mendica i nostri fallimenti per poter moltiplicare la vita. Il miracolo si compie prima in Lui, per poter compiersi in ciascuno poi. E’ il mistero della nostra dignità, del valore di ogni nostra vita, di ogni briciola in cui è frantumata, di ogni frammento che ai nostri occhi sembra non aver senso, ormai incapace “di conseguire una sola parte di salvezza”.
Il suo prendere in mano quel che oggi siamo – il matrimonio, il fidanzamento o la solitudine, la vecchiaia e la malattia, il lavoro e le amicizie, i tradimenti e le incomprensioni, il carattere che ci rende indigesti a noi stessi e agli altri, il fisico che non ci piace, la storia così come si è dipanata – il suo raccogliere il pane e il pesce che abbiamo e umanamente insufficiente, ci trasforma in pane buono perchè Lui lo possa moltiplicare, trasformando l’indigenza in pienezza capace di sfamare e di abbondare, la Vita che Lui ha promesso ad ogni uomo. Quello che noi oggi siamo, esattamente così com’è, preso e trasformato da Lui, è il miracolo di salvezza per il mondo, per chi ci è vicino, chiunque sia, amato o forse sconosciuto.
Il miracolo che si rinnova in noi, nella Chiesa, in ogni evento, ogni giorno. Saziati del Suo amore e inviati, come queste sporte avanzate, ad ogni uomo, a tutte le Nazioni, a chiunque ancora non conosce il Suo amore, l’unico capace di saziare i desideri di tutti. Perché tutti ricevano la Vita, e Vita in abbondanza.