GRATITUDINE
In “dieci” si fanno incontro a Gesù, il numero minimo di adulti necessari per il servizio della sinagoga, immagine di ogni comunità cristiana. Tutti “gridano” a una sola voce riconoscendo in Gesù un “maestro”, un “epistatès” – “colui che sta in alto” – nella speranza che si chini su di loro per guarirli. Avendo in comune la stessa lebbra parlano la stessa lingua e desiderano la stessa cosa, perché la comunione nella Chiesa si radica innanzitutto nel riconoscersi tutti deboli, afflitti dalla medesima malattia, bisognosi dello stesso medico. E’ il primo passo, molti non fanno neppure questo, ma non basta.
La lebbra è un’infermità evidente che non si può nascondere, marca un’impurità che “fermava a distanza” segregando i lebbrosi dal resto del popolo; altrettanto evidente era la fama di Gesù, che si estendeva in tutto Israele. L’incontro tra il desiderio dei lebbrosi e l’amore e il potere di Gesù era dunque quasi naturale, l’evidenza rivelava che erano fatti gli uni per l’Altro. E’ la nostra stessa esperienza.
Così anche noi, quando sono apparse le pustole sulla pelle del matrimonio, dell’amicizia, del lavoro, abbiamo cominciato a frequentare con più assiduità la Chiesa, implorando Gesù di “avere pietà di noi” e di guarirci. E Lui, prontamente, ci ha accolti, senza distinzioni e preferenze. Ma a modo suo, senza guarirci immediatamente; come con i dieci lebbrosi, ci ha messo in cammino con un annuncio che è insieme profezia e compimento: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. Il Levitico, infatti, prescriveva che se il lebbroso fosse stato sanato, doveva andare a mostrarsi ai sacerdoti perché ne certificassero la guarigione riammettendolo così alla vita e al culto del popolo.
Pieni di speranza, abbiamo obbedito alla Buona Notizia che ci annunciava la guarigione, e ci siamo incamminati verso Gerusalemme. Conoscendo l’estrema vulnerabilità e incostanza del cuore dell’uomo, il Signore ha preparato per noi un lungo e serio percorso di conversione, immagine del catecumenato della Chiesa primitiva, l’iniziazione cristiana senza la quale il battesimo resta allo stato infantile: “un cammino di purificazione e di guarigione del desiderio” (Benedetto XVI). In esso possiamo incontrarlo al di là dell’evidenza superficiale, scoprendo nel profondo del cuore la radice delle nostre malattie e lì sperimentarvi il suo potere, per fondare la nostra vita in Lui.
E, come i dieci lebbrosi “furono purificati mentre andavano”, anche noi, proprio durante il cammino di conversione, siamo stati risanati. Il matrimonio ha cominciato a funzionare, ci sono stati donati dei figli, abbiamo imparato ad accettare la suocera e il genero. Anche il rapporto con i soldi è cambiato. Insomma, quelle pustole sono scomparse. Ma può non bastare. Anzi, per nove su dieci – una percentuale altissima – non è bastato. Sicuramente si sono accorti di essere guariti, ma è mancata loro una cosa, fondamentale e decisiva.
Tanti “vanno incontro a Gesù”, tutti lebbrosi. Tanti lo pregano e gli obbediscono, nella speranza di essere guariti. Ma non è ancora la “fede che salva”. Non basta essere “guariti”, perché una vita “senza malattie” non è ancora quella che Dio ha pensato per noi! Occorre “vedere” i propri peccati con gli occhi nuovi della “fede”; e scoprire di essere stati “graziati” e sanati all’origine, dove è nato e si è sviluppato il bacillo maligno; solo così si potrà essere “salvati”, che significa essere perdonati e strappati alle conseguenze mortali dei peccati e colmati della vita divina.
“Guarigione” e “salvezza”, infatti, non coincidono automaticamente. I nove lebbrosi non hanno compreso l’amore che li aveva raggiunti; come moltissimi di noi, erano così presi da se stessi e dall’ingiustizia che avevano sofferto, da non essere capaci di stupirsi “vedendosi risanati”. Paradossalmente non si sono accorti di essere guariti! non perché non avessero visto scomparire le pustole dalla pelle, ma perché, per loro, non era necessaria la “salvezza” dalla morte causata dal peccato! Come molti di noi, che crediamo di aver bisogno solo di una ritoccatina di chirurgia plastica, più o meno profonda, ma certo non un trapianto di cuore… Non si accorgono di essere stati guariti perché scambiano la misericordia crocifissa con una pomatina. Non credevano di essere morti davvero, dentro, nel cuore corrotto e marcio; erano le situazioni e le persone al loro esterno che gli avevano fatto contrarre la lebbra. Le cause erano fuori di loro. Non si erano mai accettati peccatori; anzi, si sentivano in credito con Dio e gli uomini. Per questo tutto era loro dovuto, anche il miracolo, vissuto probabilmente come un risarcimento che Dio era obbligato a pagare.
La “fede” autentica e adulta, invece, si manifesta nella “gratitudine” dell’unico lebbroso illuminato dalla Grazia. Che cos’aveva di diverso dagli altri? Perché proprio e solo lui? Perché è l’unico che non ha nulla da difendere, neanche lo status di ebreo; era uno “straniero”, un “samaritano”, un eretico. Era doppiamente escluso dalla comunità, come lebbroso e come “samaritano”, non aveva alcuna speranza, non poteva bastargli neanche la “guarigione”: una volta risanato, infatti, sarebbe comunque rimasto emarginato, odiato e giudicato da tutti. Per questo l’esperienza della “pietà” suscita in lui, naturalmente, il bisogno di “ringraziare” Gesù: è come incapace di trattenere la conversione (“ritorno” in ebraico); “torna indietro lodando Dio a gran voce” per incontrare Gesù, l’unico che non l’aveva escluso per essere eretico, oltre che lebbroso. D0altronde, lui, samaritano, che sarebbe andato fare a Gerusalemme? Non era quello che vi si trovava il Tempio nel quale egli credeva si dovesse adorare Dio. Per gli altri nove, al contrario, la “purificazione” era addirittura una possibilità codificata dalla Legge, un passaggio obbligato perché tutto tornasse come prima. Una volta ottenuta non dovevano far altro che quello che aveva detto loro Gesù.
Ecco dunque rivelato che cosa sia la conversione! E’ la traduzione gioiosa della gratitudine per l’amore con il quale il Signore ci ha guardati senza giudicarci, con un amore infinito. Non nasce da noi, ma dalla misericordia sperimentata senza alcun merito. Un uomo che si converte loda Dio con tutto se stesso. Diversamente, si tratterebbe di volgari imitazioni, occhi smorti e pieni di malcelata mormorazione, quella di chi cerca, con sforzi e impegno, di strappare da Dio quanto la carne desidera. La conversione ipocrita dei farisei, che non pensano minimamente di averne bisogno…
La “fede” autentica e adulta, invece, accoglie la “salvezza” che si manifesta nella “gratitudine”, l’ “eucarestia” che fa del lebbroso e Gesù un’unica carne, capace di donarsi senza riserve. Ad essa approda l’unico tra i dieci che, dopo aver “veduto” e sperimentato l’amore di Gesù che lo ha “guarito”, “torna indietro”, si converte, e passa dalla schiavitù alla libertà, dalla supplica alla “lode”. E’ l’incontro decisivo: non si vergogna di “prostrarsi” davanti a Gesù mostrandosi nella consapevolezza di essere un peccatore che non aveva alcun diritto; riconosce in Lui non solo il Maestro ma anche l’unico Sacerdote che, dopo averlo “guarito”, può certificare la “salvezza” del suo cuore.
Può celebrare con Cristo l’ “eucarestia” (rendimento di grazie) perché vive quello che essa significa e realizza, il sacrificio e la Pasqua di Gesù. E’ ormai passato dalla schiavitù alla libertà, dal dover “restare a distanza” al poter giungere sino “piedi di Gesù”, dalla supplica alla “lode”. Per caso, sono così le nostre assemblee domenicali? Sono esplosioni di gioia e gratitudine che sgorgano da cuori contriti e stupiti? Si sentono nei quartieri e nei paesi le grida di gioia che innalzano al cielo le benedizioni che contestano, con amore e verità, le maledizioni vomitate da chi non conosce il perdono? Forse no, forse sono riunioni di insoddisfatti, che, mentre cantano il “sanctus” mormorano per l’affitto rincarato e il carattere della suocera… Quanti riti vuoti anche se affollati di impegnatissimi volontari. Quante liturgie di cristiani che si sforzano a rimettere a posto quanto Dio non è stato capace di salvare…
In quest’unico lebbroso, invece, risplende la novità della Chiesa; nel peggiore di tutti, indegno anche di stare tra quei dieci… La Chiesa misericordiosa oltre ogni legge si rivela in chi non ti aspetteresti mai, il peccatore che non osa venire avanti e si ferma sempre nella penombra dell’ultimo banco. O in quello che, forse, neanche viene a messa perché si sente indegno, e si infila in chiesa di nascosto, quando nessuno lo vede, ad accendere un cero alla Vergine Maria, sperando in un miracolo vero, qualcosa di soprannaturale perché la sua natura proprio non ce la fa a “salvare” il suo matrimonio. Molti si scandalizzano di Papa Francesco, dei suoi gesti e delle sue parole. Le ritengono sovversive, eretiche e indegne di un pontefice, un eretico per alcuni… Un “samaritano”, proprio come dicevano a Gesù per tacciarlo di bestemmiatore, accusa che lo ha condotto alla Croce… Purtroppo, come i nove lebbrosi che pure avevano incontrato Gesù, da Lui erano stati risanati e a Lui avevano obbedito, molti anche oggi nella Chiesa non hanno occhi “mistici” capaci di riconoscere l’essenziale che trasfigura la guarigione in salvezza.
“E gli altri nove dove sono? ” si chiede anche oggi Gesù. In chiesa, sono a messa, in parrocchia a fare attività e catechismo, nelle nostre comunità. Siamo noi, incapaci di arrenderci alla misericordia perché, forse, non ne abbiamo mai sperimentato la dolcezza infinita e immeritata. I “nove” non vanno a peccare, a rubare o a ubriacarsi, a evadere le tasse o a prostitute. No, certamente saranno arrivati al Tempio, alla messa delle 12; e, tra i sacrifici e gli incensi, adempiono la Legge, fanno anche l’elemosina, ma non possono passare alla Grazia. Resta in loro il lievito dell’uomo vecchio che cerca nella Legge la “salvezza”; una volta guariti non hanno bisogno d’altro, la Legge lo prevedeva, nessuno stupore dunque… Per loro anche la gratitudine si realizzava nel rispetto esteriore delle regole, disattese poi mille volte nell’intimo. Erano ciechi sulla propria totale debolezza, non pensavano neanche lontanamente di non essere diversi da quel “samaritano” che, non a caso, era con loro… Non si sentono i peggiori di tutti. Non hanno ancora compreso che, se non hanno ucciso la moglie, è solo per la Grazia di Dio che li ha protetti. E’ scandaloso, ma è così… Per questo non si accorgono della vita nuova che Dio ha deposto in loro, e rendono così vana la Croce di Cristo: non cambia il loro cuore, anche se spariscono dalla pelle i segni della lebbra. Neanche si chiedono chi fosse quel Maestro che li aveva guariti, non ne avevano bisogno; così, anche se riammessi nella società dai sacerdoti, la “guarigione” non gli sarebbe servita a nulla. Sarebbero tornati prima o poi alla loro lebbra, perché il cuore si era chiuso alla “salvezza”.
Per lo “straniero”, invece, il Tempio era lì, nuovo e inaspettato, diverso anche da quello del Monte Garizim nel quale era abituato ad adorare Dio. Il tempio era il corpo di Gesù che avvicinava Dio alla sua lebbra; non occorreva più andare a Gerusalemme o al Garizim, perché il Cielo s’era fatto misericordia viva in Cristo. In quel pezzo di mondo aperto sul Cielo, uno solo riconosce in Gesù non solo il “Maestro” ma anche l’unico Sacerdote che, dopo averlo “guarito”, può certificare la “salvezza” del suo cuore. La Chiesa, dunque, è proprio l’ ”ospedale da campo” issato “lungo il cammino verso Gerusalemme”, dove la misericordia incontra il peccato; i veri adoratori di Dio nascono, infatti, laddove “Gesù passa” e si fa “straniero” sino a morire da eretico e bestemmiatore per loro.
Gesù e quel lebbroso e straniero risanato – tu e Cristo – costituiscono la più bella cattedrale mai costruita: Gesù è il lebbroso e il lebbroso è Cristo, questo è il mistero della Chiesa, inaudito e scandaloso. Incarnazione e Mistero Pasquale costituiscono l’incontro tra Dio e ciascun uomo, tra la santità e il peccato, per fare di ogni peccatore un santo. Ora, “oggi”, come accadde al ladrone crocifisso accanto a Gesù, e a questo lebbroso, malato accanto a chi era fatto peccato per lui. Insieme, nelle liturgie e nella vita, annunciano nella Chiesa che Dio è sceso a toccare i peccatori e che questi, perdonati e rigenerati, possono davvero “alzarsi”, risuscitare e salire al Cielo “rendendo Gloria a Dio”. Chi “si vede purificato” nelle membra ritornate alla vita – la moglie che ha potuto perdonare il marito che l’ha tradita, sapendo di che rancore era stata capace – ha la certezza che il Signore si è fatto “straniero” per lei: in Lui ha conosciuto la “salvezza” del suo cuore. Questo sguardo di gratitudine e misericordia è la “fede che “salva” e invia in missione!
Ogni vocazione, al presbiterato come alla vita religiosa o alla famiglia, nasce dalla gratitudine cantata sui passi della conversione. Non basta far parte della Chiesa per essere cristiano, un segno di Lui nel mondo. Solo chi ha sperimentato la salvezza è per natura un suo annunciatore e missionario. Per questo le vocazioni autentiche perché umili sono così poche, in media una su nove… Tutti vivono nella stessa comunità, tutti sono amati da Dio, ma non tutti sanno amare, che è la vocazione di tutti. Dio ci chiama oggi ad aprire gli occhi sulla nostra vita e sul suo amore; a prendere sul serio i segni di un’esistenza che, passo dopo passo, sta ritornando ad essere la liturgia di amore e di lode che il peccato aveva soffocato. In questa esperienza profonda potremo “tornare” a Cristo, con gratitudine e lode, perché ci invii nella missione che ha preparato per noi. E “prostrarci ai suoi piedi”, che non sono – solo – quelli dipinti in un’icona… Ma sono – soprattutto – quelli della moglie e del marito, dei figli e dei colleghi, dei nemici, icone vive di Cristo. E’ nell’amore gratuito che sgorga in noi che la “salvezza” si rivela come un miracolo, non spiegabile scientificamente ma inconfutabile perché accaduto realmente in una carne conosciuta da tutti come debole e impotente. Il resto sono chiacchiere…. Sarà proprio il fratello, immagine di Gesù, a certificare che siamo stati guariti e salvati dal peccato. L’amore per lui testimonierà l’opera di Dio in noi. Coraggio dunque, perché siamo stati “salvati” davvero: possiamo perdonare chi ci ha fatto del male ed essere riammessi al “culto”.
Solo chi ha scoperto di essere stato un “samaritano”, eretico, malato e lontano, ma amato gratuitamente da Gesù, che per salvarlo si è fatto “straniero” sulla Croce, non si accontenta della guarigione ma, nel vagito della “fede” che “salva”, desidera solo di essere con Lui: “quando nel desiderio si apre la finestra verso Dio, questo è già segno della presenza della fede nell’animo” (Benedetto XVI).
E noi, “dove siamo” oggi? Il Signore ci cerca come ha cercato gli altri “nove” lebbrosi. Siamo andati via sazi dei miracoli con i quali ha sistemato le nostre cose? Ci sentiamo, in fondo, in diritto d’essere guariti, perché abbiamo vissuto i problemi e le difficoltà come un’ingiustizia a cui il Signore doveva porre rimedio? In questo caso, come per gli altri nove lebbrosi, anche se riammessi nella società dai sacerdoti, la “guarigione” non ci servirà a nulla. Per questo il Signore ci invita ad accogliere la “fede” nella quale “vedere” i segni che ha deposto nella nostra vita come una chiamata per consegnarci a Lui, perché ci salvi alzandoci dal peccato e ci faccia “andare” in una vita nuova.
AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE