don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 10 Novembre 2020

RICREATI NELL’AMORE GRATUITO DI DIO POSSIAMO SERVIRE IL PROSSIMO SENZA ALTRO GUADAGNO E INTERESSE CHE LA SUA SALVEZZA 

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Siamo stati comprati a caro prezzo. Il Sangue di Cristo ci ha strappato da una vita inutile e meschina per trasferirci nel suo Regno. Già ora, già oggi. Ci ha riscattati perché gli appartenessimo come il suo tesoro più prezioso. Per questo la nostra vita può donarsi gratuitamente. Senza “utili”, senza altro guadagno che Lui. E ci pare poco? E’ Lui la nostra ricompensa: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice, nelle tue mani è la mia vita. Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi, la mia eredità è magnifica” (Sal. 16). Così ogni cosa è trasfigurata, liberata dai pesi del possesso e dei compromessi; ogni uomo diviene oggetto delle nostre attenzioni, dell’oblazione gratuita della nostra vita, perchè in lui non si cerca più un utile, sparisce dall’orizzonte l’interesse. Chi, come i leviti, non ha una terra è libero per dedicarsi al servizio del santuario: giorno e notte la sua vita è presa dal servizio, perché il Signore è la sua ricompensa, la sua terra, non deve preoccuparsi di null’altro; serve senza cercare nulla, come Marta ai piedi di Gesù ha scelto la parte buona, che nessuno potrà mai sottrarle. 

Il Signore è colui che dà senso e sostanza alla sua vita, ed ogni istante è un luogo delizioso colmo della sua presenza dove offrirsi a Lui incontrato nelle persone e negli eventi. Così il levita è un segno per Israele, come, a loro volta, Israele e la Chiesa lo sono per le Nazioni: una profezia del Cielo che si rivela e si compie nel servizio “inutile”senza utile, gratuito, perché la vera ricompensa è nei Cieli. Poveri, senza patria, i cristiani servono ogni uomo nella precarietà che spera nella provvidenza, primizia della ricompensa celeste. E’ questo il senso delle Parole del Signore secondo il testo greco. Inutili è proprio senza “utile”, e non senza utilità come normalmente comprendiamo seguendo l’interpretazione della traduzione latina della “Vulgata”. E’ pur certo che siamo nulla, e che senza di Lui non possiamo fare niente. “Puro impedimento” come diceva S. Ignazio di Loyola. Ma anche la consapevolezza della nostra povertà, dell’estrema debolezza che caratterizza ogni nostra azione è una porta che dischiude sull’abbandono totale alla sua potenza. E’ Lui che opera tutto in noi, e per questo qualsiasi pensiero, azione, in famiglia come nella Chiesa, al lavoro come a scuola, è naturalmente gratuito: non ci appartiene, è suo! 

La castità ad esempio, è il segno della gratuità, dell’amore autentico, il dono che non ricerca utili per se stesso. La castità pre-matrimoniale e poi matrimoniale è la cifra di un amore che guarda al bene dell’altro, purificato dalla soddisfazione di se stesso, e non rende l’altro un oggetto da utilizzare. E’ casto chi ha il Signore come sua eredità, ed ogni atto che concerne la sessualità diviene un servizio del santuario di Dio che è l’altro, un’apertura costante alla vita che in esso è custodita, la presenza stessa di Dio nel Santo dei Santi che il partner custodisce nel suo intimo. 

La castità è la realizzazione di un amore autentico che rispetta e serve il bene e la libertà dell’altro; è l’amore che fa quello che deve fare, ciò che risponde autenticamente alla natura dell’uomo, persona creata ad immagine e somiglianza di Dio, che è puro amore e dono senza riserve: “Uomo e donna, nel mistero della creazione, sono un reciproco dono… E l’uomo vi riscoprirà continuamente se stesso come custode del mistero del soggetto, cioè della libertà del dono, così da difenderla da qualsiasi riduzione a posizioni di puro oggetto. Il corpo, infatti, e soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero nascosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno. L’uomo appare nel mondo visibile come la più alta espressione del dono divino, perché porta in sé l’interiore dimensione del dono” (Giovanni Paolo II, Catechesi del 20 febbraio 1980). 

Quanto scritto dal Beato Giovanni Paolo II è valido per ogni relazione umana, chiamata ad essere casta perché a servizio del bene dell’altro, orientata al dono, alla gratuità. Per questo in un altro momento il Signore ci ammonisce a non invitare a pranzo quanti hanno di che ricambiare, accogliere parenti, amici, colleghi come poveri, per amore, senza doppi fini, gratuitamente. Siamo chiamati a fare quanto Dio ha preparato per noi, ad essere sua immagine, perfetti come il Padre nostro. Un figlio fa quello che deve fare non per obbligo ma per la natura che lo rende somigliante ai genitori: ha gli occhi di suo padre o di sua madre, il modo di camminare, spesso proprio il loro stesso carattere e il loro modo di fare; ha assorbito ciò che ha visto dalla nascita, custodisce il Dna inconfondibile. 

Così, se siamo figli di Dio gli assomiglieremo: a poco a poco, nel cammino di fede che dura tutta la vita, saremo conformati alla sua immagine che è stata seminata in noi: in Lui ameremo come Lui, anche il nemico, dal quale non solo non ci aspettiamo gratitudine, ma, al contrario, attendiamo insulti, rancore, odio e gelosia, e forse anche la morte: “amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste… Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt, 5, 33 ss.). Gesù deve andare a Gerusalemme, per offrire se stesso è giunto all’ora della Passione. Gesù deve fare quello che che gli è stato ordinato, deve compiere l’opera per la quale è stato inviato. E’ proprio questo il senso ultimo delle parole di Gesù: il servo non fa altro che quello che deve fare, servire, sino al sacrificio della vita.   

Siamo dunque figli nel Figlio, servi nel Servo: apparteniamo interamente al nostro Signore. Ogni istante ed ogni opera sono da Lui, per Lui e in Lui. Servi che vivono in una specialissima intimità con Cristo. Scriveva Elisabetta della Trinità: “Vorrei dire a tutte le anime quali sorgenti di forza, di pace e anche di felicità troverebbero se provassero a vivere in questa intimità con Dio. Egli è l’Amore, e vuole che noi viviamo in sua compagnia”. Eseguire gli ordini di un Signore che ha donato tutto se stesso per i suoi servi vuol dire pace, gioia, libertà, vita piena. E Lui i suoi servi li chiama amici, attratti nella sua intimità, oggetto delle sue più intime confidenze. Amici ai quali consegna, come perle preziose, le parole udite dal Padre. Parole come gocce di Grazia a suscitare in noi il volere e l’operare secondo la volontà di Dio. Gli ordini del Signore che danno luce agli occhi e pace al cuore, sono le stesse parole del Padre che ci fanno liberi di donarci. Servi nel Servo per vivere nell’obbedienza imparata, con il Signore, attraverso la Croce e le sofferenze di ogni giorno. L’obbedienza che, istante dopo istante, ci salva,e ci fa essere quello che Dio ha pensato per noi. Senza aspettare o sperare ricompense in questo mondo. 

Sulla terra si tratta di perdere la vita, seguire il Signore per servirlo, per essere eternamente laddove Lui è. Il Vangelo di oggi ci invita a guardare al Cielo, alla corona che ci aspetta dopo aver lottato e combattuto la buona battaglia che dà morte a ciò che appartiene alla terra: “impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria» (Col. 3,5-6)Fare tutto pensando alle cose di lassù ci fa gustare la libertà dell’uomo nuovo ricreato in Cristo, rivestiti della carità; la libertà che, sola, può farci vivere intensamente le cose della terra. Intensamente perché autenticamente, come occasioni per donare e servire, sperando solo il riscatto di ogni uomo. “E’ vero che noi siamo cittadini di un’altra «città», dove si trova la nostra vera patria, ma il cammino verso questa meta dobbiamo percorrerlo quotidianamente su questa terra. Partecipando fin d’ora alla vita del Cristo risorto dobbiamo vivere da uomini nuovi in questo mondo, nel cuore della città terrena” (Benedetto XVI,Udienza del 27 aprile 2011).

In questo contesto si comprende anche la missione della Chiesa, chiamata a servire l’umanità, senza nulla sperare se non lo stesso destino del suo Signore: persecuzione, croce e morte. Tutto il resto è pura menzogna: al di fuori della Croce non abbiamo su questa terra dove reclinare il capo; consolazioni, successi, prestigio, ricompense non si coniugano con l’amare. La Chiesa è mossa dalla carità di Cristo che urge e spinge sino ai confini della terra, senza sperare alcun utile. La Chiesa è la serva inutile come Cristo, l’unico servo realmente disinteressato, che lava i piedi di coloro che – e lo sapeva – lo avrebbero tradito e abbandonato. Laddove la Chiesa è libera di chinarsi e lavare i piedi gratuitamente, quando fissa il Cielo ove riportare i figli dispersi, può annunciare la Verità, perché questa sarà sempre intrisa di misericordia, senza i compromessi che le servano quale salvacondotto per le coscienze e passaporto per essere accolta e legittimata nel mondo. 

Nella Chiesa siamo tutti chiamati ad essere servi che fanno quello che devono fare, la parte assegnata dalla provvidenza, secondo l’azione dello Spirito Santo. Chi pastore, chi madre, chi padre, chi sul letto del dolore, chi nella vedovanza, chi nella verginità o nei mille altri modi escogitati dalla fantasia di Dio colma di zelo per ogni anima. Ciascuno servo libero e autentico, che vive controcorrente, segno di contraddizione e per questo di salvezza, incarnazione dell’agape riversata nel suo cuore. I discepoli che lavano i piedi ai nemici muoiono ogni giorno “per cause di servizio“. Costellano la storia di “morti bianche” per le quali nessuno si indigna, il martirio che semina, silenziosamente e nascostamente, la salvezza nella storia. Per questo, ogni giorno, di fronte al loro sacrificio, si rinnova quanto descritto dal Libro della sapienza: “Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza resta piena d’immortalità” (Sap. 2, 24 ss.). 

Una madre è madre, si sveglia presto, prepara la colazione, riassetta la casa, prepara da mangiare, rammenda i pantaloni, soffre accanto a suo marito e ai suoi figli: è madre nelle sue stesse viscere, solo l’inganno del demonio può spingerla a ribellarsi e ad esigere gratitudine, accampando diritti che avvelenano la natura stessa del suo essere sposa e madre, puro dono che imprime il carattere dell’amore a tutta la famiglia. Così ciascuno di noi è servo nella forma nella quale Dio lo ha scelto per vivere, in virtù della vocazione celeste, ogni giorno senza alcuna bramosia di utili, abbandonati alla fedeltà di Dio, nella certezza che Lui opera anche laddove sembra il contrario, nel fallimento umano, nella totale inutilità.

E’ infatti nella notte oscura della fede, dei sentimenti, di qualsiasi utile per la carne e per lo spirito che il servo vive il culmine della sua chiamata, la perfezione della sua vita. E’ ancora una volta il paradosso della sapienza crocifissa che il mondo non può comprendere. Santa Teresa d’Avila, San Giovanni della Croce, Santa Teresa di Lisieux, Padre Pio e la Beata Teresa di Calcutta, per citarne alcuni, hanno vissuto lunghi anni nell’aridità totale. Innescati da una fiamma d’amore che ne ha sconvolto l’esistenza, hanno poi trascorso il resto della vita nel servizio autentico, purificato da ogni passione, da ogni sensibilità, da qualunque desiderio. “C’è tanta contraddizione nella mia anima, un profondo anelito a Dio, così profondo da far male, una sofferenza continua – e con ciò il sentimento di non essere voluta da Dio, respinta, vuota, senza fede, senza amore, senza zelo… Il cielo non significa niente per me, mi appare un luogo vuoto” (Beata M. Teresa di Calcutta, Lettere al suo direttore spirituale). 

Nell’abisso di questa esperienza lo scalpello di Dio dà compimento alla sua opera plasmando il servo perfetto; quando tutto ci sembra assurdo, quando anche il servizio più puro – quello di una madre, di un missionario, di una suora di clausura – invece di pace reca sofferenza, perché incompreso e rifiutato, è il momento privilegiato dove essere, sino in fondo, servi autentici. Quando sperimentiamo l’abbandono di tutti, e nulla ci consola e dà senso alla nostra vita, siamo crocifissi nel servizio di Cristo, che ha sperimentato, lancinante, anche l’abbandono del Padre. Lì sulla Croce ha servito pienamente ogni uomo; inchiodato al Legno ha compiuto l’opera affidatagli dal Padre. Non aveva che la sua carne, la sua vita di quel momento, quel dolore acuto a percuotergli le membra e a spaccargli l’anima. Lui solo, senza poter fare nulla se non restare inchiodato resistendo alle lusinghe del demonio, spogliato di tutto, inutile e peggio, morente come un fallito e bestemmiatore. 

Dopo aver arato e pascolato il gregge dalla Galilea a Gerusalemme, era Lì, su quella Croce: con le vesti strappate serviva al Padre il banchetto più buono, la vita perdonata e riscattata di ogni uomo. Crocifisso, era il servo diletto nel quale il Padre si compiaceva perché traboccante dell’unico amore capace di salvare, quello gratuito che, nell’ora del martirio, fa dire: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”. Così anche noi, sulla croce di ogni giorno, specialmente quella che azzera la nostra vita, quando, come scriveva Taulero, “veniamo abbandonati in tal modo da non aver più nessuna conoscenza di Dio e cadiamo in tale angoscia da non sapere più se siamo mai stati sulla via giusta, né più sappiamo se Dio esiste o no, o se noi stessi siamo vivi o morti”; quando “su di noi cade un dolore così strano che ci pare che tutto quanto il mondo nella sua estensione ci opprima”; nel tempo in cui “non abbiamo più nessuna esperienza né conoscenza di Dio, ma anche tutto il resto ci appare ripugnante, sicché ci pare di essere prigionieri tra due mura”, siamo pronti per servire davvero. Non ci resta che la nostra vita, le cose fatte senza alcun gusto divengono i sacrifici perfetti e di soave odore, la quotidianità intrisa di aridità e dubbi e angosce è trasfigurata nel servizio puro e innocente che profuma di Paradiso. E’ questa vita inutile, che sembra non recare alcun guadagno né a noi né al prossimo, che appare gettata via stoltamente come spazzatura, magari derisa e sottoposta alla tentazione di essere cambiata, è proprio questa vita di oggi il servizio per il quale ci siamo affacciati su questo mondo.

Prigionieri tra due mura diveniamo i servi che, come aveva scoperto il Card. Van Thuan nel carcere dove nulla ormai poteva fare, servono Dio e non le sue opere: “Una notte, dal profondo del mio cuore ho sentito una voce che mi suggeriva: «Perché ti tormenti così? Tu devi distinguere tra Dio e le opere di Dio. Tutto ciò che tu hai compiuto e desideri continuare a fare, visite pastorali, formazione dei seminaristi, religiosi, religiose, laici, giovani, costruzione di scuole, di foyer per studenti, missioni per l’evangelizzazione dei non cristiani… tutto questo è un’ opera eccellente, sono opere di Dio, ma non sono Dio! Se Dio vuole che tu abbandoni tutte queste opere, mettendole nelle sue mani, fallo subito, e abbi fiducia in lui. Dio lo farà infinitamente meglio di te; lui affiderà le sue opere ad altri che sono molto più capaci di te. Tu hai scelto Dio solo, non le sue opere!».


AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE

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