don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 1 Maggio 2022

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 AMATI SINO ALLA FINE PER AMARE SENZA RISERVE

«Ipse est Petrus cui dixit: “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam”. Ubi ergo Petrus, ibi Ecclesia; ubi Ecclesia, ibi nulla mors, sed vita aeterna» (Enarrationes in XII Psalmos davidicos; PL 14, 1082). «Dove c’è Pietro, lì c’è la Chiesa; dove c’è la Chiesa, lì non c’è affatto morte ma vita eterna». Dov’è Pietro c’è la Chiesa, e con essa il compimento del desiderio di ogni uomo, il più profondo, il più intenso: la vita e mai più nessuna morte.


AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE

Perché Pietro, la roccia, è stato il primo ad essere perdonato. Il primato del perdono e la roccia della Chiesa è infatti la misericordia. La beatitudine di Pietro è tutta in questa esperienza: Pietro, il papa, perdonato da Colui che, con la sua carne schiava della paura, è tornato dal sepolcro per consegnargli un amore ha attraversato l’inferno facendosi dono gratuito e immeritato.

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Solo uno sguardo perdonato può riconoscere Dio e annunciarlo vivo a ogni creatura. Sin da quella sera nel Cenacolo, quando il Signore risorto era apparso loro con queste parole: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”, effondendo con il suo alito lo Spirito Santo per mezzo del quale rimettere i peccati.

Per questo, Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli sono partiti per la Galilea, dove “si trovavano insieme” quando “Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade”. Sono state fatte molte ipotesi sulla presenza in Galilea degli apostoli, ma io sono persuaso che essi vi si trovassero in obbedienza all’invio del Signore.

Avevano sperimentato lo “scandalo” di Gesù e la “dispersione del gregge”, ma, proprio per averlo visto risuscitato e aver ricevuto lo Spirito Santo, erano certi che li avrebbe preceduti in Galilea, il luogo della missione. Non a caso Giovanni presenta sette apostoli insieme a Pietro: “è il simbolo della Chiesa che viene mandata alle Nazioni, mentre i Dodici era il simbolo della Chiesa che veniva mandata alle dodici tribù di Israele. Nelle città pagane c’era sempre un consiglio, la “bulé”, il “Buletérion”, il consiglio dei sette saggi della città che prendevano le decisioni, e adesso abbiamo sette discepoli che sono quelli mandati ai pagani” (Frederic Manns).

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E cosa fanno? “Vanno a pescare” con Pietro, in obbedienza alle parole con le quali Gesù, proprio dopo la pesca miracolosa sulle stesse rive del Mare di Tiberiade, aveva profetizzato a Pietro e agli altri apostoli la missione di pescatori di uomini. Eccoli dunque agli albori della missione nata dalla Pasqua, gettando le reti per pescare i pagani.

Ma dovevano impararla come opera di Gesù, scoprendo attraverso la propria debolezza che essa suppone un combattimento quotidiano: anche se “il Battesimo, donando la vita della Grazia in Cristo, cancella il peccato originale e volge di nuovo l’uomo verso Dio… le conseguenze di tale peccato sulla natura indebolita e incline al male rimangono nell’uomo e lo provocano al combattimento spirituale” (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 405). Con Pietro dobbiamo imparare a passare ogni giorno da “io vado a pescare” a “getto il mio io nell’Io sono di Gesù”. Per questo ci attendono notti di fallimenti dove sperimentare la sconfitta della superbia, l’unico impedimento alla missione.

Comprendi allora perché, nonostante la Pasqua, non riesci ancora a perdonare quella persona: la vuoi pescare con gli strumenti e la perizia del pescatore secondo la carne, incapace di pescare le persone…

Sei triste nonostante la Chiesa stia celebrando la gioia? Perfetto, è il passaggio fondamentale, il segno che il Vangelo si sta compiendo, non il contrario! Coraggio, perché anche oggi la luce dell’alba ci viene incontro per strapparci alla menzogna. Non importa se, in quel fratello che non accettiamo, ancora non riconosciamo Gesù: importa la sua presenza e la domanda che essa ci impone: “Hai qualcosa da mangiare?”. Come dire: “Com’è andata la pesca? Hai amato sino a gettarti in mare per pescare dalla morte chi ti è accanto?”. L’ostilità e il giudizio che ancora coviamo risponde per noi, vero? No, non abbiamo nulla da offrire. Abbiamo tentato di amare, ma i pesci sono scappati sentendo odore di egoismo e superbia. Davvero puoi rispondere “no” a Gesù? Davvero accetti il fallimento e dici “no” al tuo uomo vecchio? Sarebbe l’indizio che stai risorgendo con Cristo. Non a caso Gesù chiede ai discepoli se hanno del “Prosphagion” – “companatico”, cioè qualcosa che accompagni il pane, che è il cibo sostanziale. Per compiere la missione occorre accettare di non esserne gli artefici, ma solo dei servi che non sono più grandi di Colui che li ha mandati. Ciò significa consegnare a Lui i fallimenti del nostro io “ferito” nella sua “natura indebolita e incline al male”; per scoprire che proprio la nostra debolezza costituisce “il companatico” di cui ha bisogno il Signore per accompagnare la sua missione di Pane della vita.

E come si fa? Ascoltando la predicazione che ci illumina e per obbedire e gettare la nostra vita in Lui, proprio laddove non abbiamo pescato nulla. Che significa, ad esempio, tornare dal fratello che non abbiamo perdonato nell’umiltà di chi conosce la propria debolezza, gettando per questo la rete dalla parte destra della barca, il lato del tribunale dove anticamente sedeva l’avvocato. Occorre cioè lasciarci ispirare e accompagnare dallo Spirito Santo che fa nuove tutte le cose e compie in noi l’amore sino alla fine di Cristo.

Come il discepolo amato sperimenteremo allora che “è il Signore” ad agire misteriosamente per mezzo della nostra debolezza nelle persone e negli eventi che incontriamo nella missione. Scopriremo anzi che ha operato ancor prima che uscissimo in mare per pescare; i centocinquantatré grossi pesci presi nel mare della missione, infatti, sono anch’essi il companatico , ovvero il pesce arrostito nell’amore che Gesù ha già preparato per noi sulla riva della Pasqua perché accompagni la sua carne fatta pane che non si corrompe.

Non a caso in ebraico “Kaal Aawa”, che significa “la comunità dell’amore”, ha, secondo la Ghematria (tecnica rabbinica che assegnava ad ogni lettera un valore numerico), ha il valore numerico di centocinquantatré (Copyright F. Manns). La comunità cristiana unita a Lui nell’Eucarestia è il companatico che Gesù ha pensato e scelto per accompagnarlo nella sua missione attraverso le generazioni. Siamo cioè come la rete gettata in mare: è Lui che sa dove, come e quando.
Ci è chiesto solo di restare sulla barca dove, pescati anche noi nella rete della comunione che non si spezza perché donata dallo Spirito Santo, obbedire alla Parola del Maestro, il luogo dove tutto appare chiaro, e “nessuno dei discepoli osa domandargli: «Chi sei?», poiché”, per esperienza, i cristiani “sanno bene che era il Signore”.

Quel cibo donato da Gesù sulla riva del lago dove un giorno li aveva chiamati, era la sua stessa vita tratta dal mare della morte; ma ora gli Apostoli sapevano che non era solo la sua ma anche la loro morte vinta nel perdono. Per questo quel pesce ardeva sul fuoco della misericordia che cancellava i loro tradimenti e i loro peccati.

Non a caso Giovanni registra che “questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti”. La “terza volta”, come le “tre volte” che Pietro ha tradito Gesù, come i “tre giorni” passati da Gesù nel sepolcro. Come “tre volte” Gesù chiede a Pietro se lo “ama più” degli altri. Pietro lo aveva riconosciuto come “il Signore” vittorioso sulla morte, il Kyrios della vita. Aveva “mangiato”, cioè sperimentato, l’amore “sino alla fine” del suo Maestro. Ora poteva inoltrarsi con Lui nella verità. E’ sempre così: mentre nel mondo si cercano i traditori per fucilarli, Gesù prende per mano Pietro che lo aveva tradito, per accompagnarlo sino al fondo dei propri peccati per consegnargli, invece della condanna, il perdono.

Carissimi, anche noi in questo Tempo Pasquale abbiamo “mangiato” con Gesù sperimentando la forza della sua risurrezione. Come i “neofiti” (“nuove piante”) della Chiesa primitiva, abbiamo ci siamo nutriti al “banchetto degli insegnamenti più perfetti” (Cirillo di Gerusalemme), alla “mistagogia”, per cogliere “sempre meglio la profondità del mistero pasquale e traducendolo sempre più nella pratica della vita” (“Rica”, Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti).

Per questo Gesù ci chiede: “Mi ami tu? Mi ami più di costoro?”. Dopo che nella Chiesa si è manifestato “tre volte” anche a te per annunciarti che è risuscitato con te dal sepolcro dove è stato “tre giorni” per te, Gesù ti chiede oggi per “tre volte” se lo ami. Che innanzitutto significa: “hai “mangiato” il mio amore fatto pane per te? Hai sperimentato nella tua famiglia, nella tua comunità, nella tua vita “quanto è buono il Signore”? Ricordando i tanti memoriali dell’amore con il quale Gesù ti ha chiamato e plasmato risponderai certamente di “sì”.

Scendi con Pietro nella realtà della tua vita, e con lui toccherai la Roccia, quella cosiddetta “del Primato” che ancora possiamo contemplare sulle rive del Lago di Galilea. Toccherai Cristo come lui, che in quel luogo ha potuto rinascere e fondare su quella Roccia la propria vita e il proprio ministero di pastore. Non temere di scoprire chi sei; non restare chiuso nell’orgoglio ferito dai tuoi tradimenti. Rispondi “sì” al Signore. “Sì, tu sai che ti voglio bene, perché tu sai tutto di me” e non ho nulla più da nascondere.
Coraggio allora, nonostante i tuoi tanti “no” oggi puoi dire a Gesù che “lo ami più di coloro” che non hanno avuto ancora la tua esperienza. Libero puoi dire un “sì” che desidera e spera di amare totalmente Colui che ha già detto il suo “sì” a te, quando eri un malvagio e un peccatore. Come Pietro ora lo puoi fare, perché il “sì” di Gesù, certificato dalla sua resurrezione che garantisce il tuo perdono, giunge a te come un dono da accogliere umilmente per crescere sino alla fede adulta.

Quando “eravamo giovani” nel cammino di fede, infatti, “ci cingevamo la veste sa soli e andavamo dove volevamo”. Ci illudevamo cioè di essere liberi, e seguivamo le nostre concupiscenze, che magari scambiavamo per amore o per ispirazioni divine, come Pietro che non si conosceva. Ma quando “saremo vecchi”, quando cioè risuonerà nel nostro cuore umiliato e contrito il canto del gallo come in lui e le lacrime di pentimento ci apriranno per accogliere il suo perdono; quando avremo radicata in noi l’esperienza dell’amore di Dio e la vita di Cristo, “tenderemo” come agnellini “le nostre mani” a Cristo incarnato nelle persone e nei fatti, anche quelli dolorosi, che ci “cingerà la veste”.

Essa è immagine dei pensieri e dei gesti dei quali appunto ci “vestiamo”, per farci discernere in ogni “altro” il “tu” di Cristo al quale donarci. Ogni giorno Lui ci attende per farci “andare dove tu ed io non vogliamo”, sulla Croce dove il Signore ci chiama a “seguirlo” perché, “pascendo i suoi agnellini e le sue pecorelle” sui pascoli del perdono che il mondo non conosce, anche in questa generazione sia “glorificato Dio”.