Siamo giunti alla V domenica del Tempo Ordinario quinta tappa del cammino che ha preso avvio dallo stupore provato alla grotta di Betlemme, dove Dio si è fatto Uomo per noi, Bambino. Come i pastori e magi, anche noi siamo partiti da quella grotta per narrare la gioia di quell’Avvenimento. Una gioia che non può restare “lettera morta” ma deve tradursi in vita vissuta, condivisa, mostrata. Per assolvere al nostro essere missione, di domenica in domenica attraverso la liturgia Gesù c’incontra e ci educa affinché il nostro cuore vibri d’amore.
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Domenica scorsa siamo stati invitati a riconoscere che nelle Beatitudini troviamo la nostra carta d’identità. Oggi il Si gnore c’invita a capire come manifestare tale caratteristica, perché in fondo viviamo un tempo in cui si vuole far credere che sei beato quando pensi ai fatti tuoi; sei beato quando sei ricco; sei beato quando te ne stai in santa pace anziché portare pace. Invece Gesù ci ricorda che sei beato nella misura che sai “sporcarti” per gli altri; nella misura in cui sai scioglierti per gli altri, come il sale citato nel vangelo.
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Prima di addentrarci nel testo evangelico, siamo invitati a soffermarci sul testo scelto dalla liturgia come prima lettura, perché qui troviamo la chiave con la quale poi introdurci e capire il vangelo. Il brano è tratto dal profeta Isaia: “Il digiuno che voglio non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo…” (cfr Mt 6,16ss: “Quando digiunate non assumete un’aria malinconica…”). La beatitudine della vita non sta tanto nello starsene in santa pace, ma nel portare pace, armonia dentro le nostre relazioni. Non sta nello starsene in santa pace, ma nello scomodarsi per gli altri. È proprio l’opposto della logica del mondo: non si dice forse che pregare, aiutare gli altri… spesso è tempo perso? E invece no: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore produce molto frutto”, ricorda Gesù (Gv 12,24). Solo amando, solo scomodandosi per gli altri, conclude il profeta, “bril lerà fra le tenebre la tua luce”. L’amore è un raggio di luce per chi lo riceve e, di riflesso, per chi lo dona.
La luce di Betlemme – Gesù, nostro Signore – non può essere spenta o nascosta perché sono finite le feste! Quella Luce della notte di Natale che ci ha avvolti e illuminati (cfr Gv 1,4; 8,12) dando avvio al nuovo corso della storia, è ormai accesa in noi e nessuno può spegnerla. Tenteranno ogni modo per soffocarla, ma la Luce ha già vinto sulle tenebre. Ebbene, a partire da questo big bang dell’amore, siamo entrati in una nuova galassia e dobbiamo vivere di conseguenza. Anche noi, ci ricorda oggi Gesù, siamo invitati, chiamati a divenire “luce” per gli altri, e l’unica via – così pregheremo nel salmo – è amare, come Gesù: “Il giusto risplende come luce: spunta nelle tenebre, luce per gli uomini retti…”. Con questa “chiave” entriamo nel testo del vangelo.
“Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente”.
Il sale serve per dare sapore, ma anche per preservare il cibo affinché non vada a male e infine per disinfettare una ferita. Utilizzando questo termine, Gesù fa capire ai suoi interlocutori e oggi a ciascuno di noi, che siamo chiamati a divenire “sale”, a dare cioè “sapore” alla vita con una fede vissuta nell’amore, affinché i germi dell’egoismo, dell’invidia, della maldicenza… il germe del peccato non prevalga in noi! Un secondo aspetto che vorrei evidenziare, è il fatto che il sale da una parte è immangiabile da solo, e dall’altra il sale permette di dare sapore, di valorizzare-esaltare il gusto del cibo. E questo può avvenire solo se il sale perde la propria visibilità, mescolandosi con i cibi. Insomma, il sale raggiungerà il suo effetto, sarà quello deve essere solo perdendosi, proprio come il chicco di grano caduto in terra. A partire da questa immagine, Gesù invita ciascuno di noi a imparare a dare sapore alle cose. Solo una vita saporita di vangelo sarà capace di affascinare, attrarre… la vita altrui. E la gente si lascerà attrarre solo se chi propone è saporito dell’amicizia con il Signore Gesù. Diversamente, la gente ignora e calpesta, perché intuisce che non diciamo nulla di nuovo alla loro vita che già il mondo non dica. E in questo Gesù è lapidario: “Se il sale perdesse il sapore… nulla altro serve che ad essere gettato via”.
“Voi siete la luce del mondo: non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro… Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”.
Non ci è chiesto solo di essere sale ma anche di essere luce. Potremmo dire che questa vita chiede di essere “mostrata” nell’agire quotidiano, evitando fughe o chiusure: “C’è un popolo numeroso nelle nostre città, molto più di quanto misu riamo con categorie spesso vecchie, giudicando con indicatori ormai superati che non ci fanno accorgere di tanti segni im portanti” (Card. Zuppi, prolusione al Consiglio permanente CEI, gennaio 2023). Siamo chiamati a divenire popolo in uscita, chiesa in uscita, come papa Francesco ci sta ricordando fin dal suo inizio di Pontificato. Ogni incontro, ogni luogo, ogni occasione è il momento giusto per mostrare questa vita saporita di vangelo. Un mostrare che passa certamente attraverso le “nostre opere”, purché queste aiutino a rendere lode a Dio: gli “uomini vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre”. C’è sempre il rischio di voler risplendere di luce propria, di voler essere ammirati dagli uomini dimenticando che in questo modo “Hai già ricevuto la tua ricompensa” (cfr Mt 6,6). Mentre Gesù insegna ad agire con distacco, con sana indifferenza, in modo in-utile (cfr Lc 17,7ss), cioè senza interessi altri se non quelli di mostrare la Luce di Gesù. In poche parole: a gloria di Dio!
Sia il sale che la luce in sé non servono a nulla. Come dicevamo, il sale da solo è immangiabile e la luce non si vede, ma serve per vedere. Il sale è sale della terra, la luce è luce del mondo: come a dire che sale e luce hanno bisogno della terra, del mondo per essere se stessi, e viceversa. Così vale per noi. Dirci cristiani senza esserlo, senza mostrarlo nelle nostre opere non serve a nulla, anzi può essere uno scandalo. E questo è una grande responsabilità, perché se non sappiamo dare un sapore nuovo alle cose e non sappiamo offrire una luce nuova sulle vicende della vita, a cosa serviamo?, dice Gesù. Questo dare sapore e dare luce sarà possibile nella misura in cui impariamo a restare afferrati da Cristo, innestati nel suo amore (cfr Gv 15,1-8). Senza questa appartenenza, questo essere e stare in Lui e con Lui, perdiamo, siamo insi gnificanti. Se ci pensiamo bene, ogni nostra opera può suscitare ammirazione o delusione: tutto cioè lascia un segno. E questo fa capire la grande responsabilità che ci è stata affidata dal Signore, per essere noi oggi, qui ed ora, segno del suo amore misericordioso. E non è questione di efficienza ma di efficacia, cioè di amore. Se nelle nostre opere non c’è convinzione, passione… è inevitabile che saremo ignorati o calpestati. Senza passione, senza convinzione ed entusia smo… non si arriva da nessuna parte.
In secondo luogo, se restiamo chiusi nelle nostre “sacre stanze” per paura di “contaminarci” andando incontro al lon tano, sarà inevitabile diventare marginali. Perché come il sale deve perdersi nel cibo, contaminarsi appunto, così la nostra vita troverà valore e significato solo perdendosi, uscendo da sé, amando. È illusione pensare che restare chiusi serva per proteggersi e custodirsi: è proprio il contrario, significa diventare un nulla! Gesù è chiaro in questo: quando il sale non serve più a niente, viene gettato via e calpestato dalla gente: quella stessa gente alla cui vita il sale avrebbe dovuto dare sapore, ne sancisce con disprezzo l’inutilità.
Per assolvere al meglio il nostro compito di essere sale e luce, è dunque importante restare ancorati al Signore, e da Lui lasciarsi guidare. In quest’ottica, si comprende il Giorno del Signore, la Domenica. E’ il giorno in cui siamo invitati da Gesù a gustare la sua compagnia e apprezzare il vincolo che ci lega nella fede, il nostro essere cristiani. Ancora: la Do menica è il giorno in cui ricordiamo che il Signore si è riposato per contemplare quanto da Lui fatto (cfr Gn 2,2-3); e come Lui, anche noi siamo invitati a entrare nel “suo riposo” staccandoci dalle “nostre opere” (cfr Eb 4,10). Questo distacco dalle “nostre opere” è salutare per noi, perché ci permette di tornare da Colui grazie al quale tutto è reso pos sibile; un distacco che ci educa a distogliere lo sguardo dall’onnipresente, dal quotidiano talvolta affannoso (cfr Lc, 10,41-42, Marta Marta… perché ti affanni…) e volgerlo verso l’Onnipotente (Maria ha scelto la parte migliore). Solo se impareremo a lasciarci stupire, meravigliare dall’opera che Dio compie per noi – amarci fino alla fine – impareremo a compiere opere d’amore per gli altri, perché Gesù è il nostro sale, la nostra luce, il senso più vero, più bello, più giusto della nostra vita. Gesù è il solo che sa dare un sapore diverso alle opere dei miei giorni e mi aiuta a mostrare attraverso le mie opere questa novità; Gesù è la sola Luce gentile capace di illuminarmi senza abbagliarmi d’inganni, perché io impari a portare un po’ di luce e di speranza in chi non ha speranza; luce di conforto in chi vive nello sconforto; luce di amicizia, a chi si sente solo. E tutto perché prima Gesù ha fatto questo per me. Per ciascuno di noi.
Il Natale, Luce del mondo, o si fa vita nella nostra vita, o dà sapore agli attimi del nostro vivere, o non è servito a nulla. Ma a quanti hanno accolto Gesù, Luce del mondo, è dato di essere figli di Dio! (Gv 1,12-13).
Leggi qui la preghiera per questa domenica.
Il commento al Vangelo di domenica 5 febbraio 2023 curato da don Andrea Vena. Canale YouTube.