Domenica scorsa, con la solennità della Pentecoste, abbiamo concluso il tempo liturgico di Pasqua e ripreso il cammino del Tempo Ordinario. È il tempo dell’attesa e della speranza del ritorno del Signore; è il tempo della Chiesa, della testimonianza, del portare a tutti l’annuncio che Gesù, il Figlio di Dio che si è fatto Uomo (Natale), è morto ed è risorto (Pasqua), è salito al cielo (Ascensione) e ha donato lo Spirito Santo (Pentecoste) per renderci capaci del compito di prolungare nel tempo la missione di portare a tutti la lieta notizia del vangelo.
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Lungo questo cammino abbiamo in qualche modo sfogliato la storia della salvezza e fatto esperienza della bontà del Padre che dona il Figlio Gesù, il quale – morto, risorto e asceso al Cielo accanto al Padre – dona lo Spirito Santo: ecco spiegato il perché della solennità odierna, la santissima Trinità. Potremmo quasi dire che la solennità odierna fa da sintesi al cammino fin qui compiuto.
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Le letture ci presentano le tre Persone della santissima Trinità. Nella prima, tratta dal libro dell’Esodo, troviamo il dialogo tra Mosè e il Dio Misericordioso: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà». Le parole conclusive di Paolo, nella II lettura, ci suggeriscono che la prima comunità cristiana aveva chiara l’identità di Dio; sono per noi parole conosciute perché divenute saluto liturgico: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito siano con tutti voi». Infine, il Vangelo ci ricorda che è Dio Padre ad aver mandato a noi il suo Figlio Gesù affinché nessuno sia perduto.
Ciò che emerge è che Dio Padre, nella sua infinita misericordia, è sempre all’opera pur di recuperare l’uomo.
v. 16-17: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia… Ha mandato il Figlio nel mondo non per condannare il mondo, ma perché il mondo si salvato per mezzo di lui».
Possiamo commentare questo testo con le parole stesse di Gesù: «Colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato…» (Gv 6,38-39). Anche se a prima vista non compare l’azione dello Spirito santo, in realtà è più presente che mai, perché lo Spirito è l’amore. Lo Spirito è «amore di Dio» (Dio ha tanto amato…) e nello stesso tempo è «compagno inseparabile del Figlio» (san Basilio di Cesarea). Potremmo allora dire che Dio è Amore: Amore Padre, Amore Figlio, Amore Spirito Santo.
Anche se Gesù è stato abbandonato e tradito, Dio non viene meno al suo amore e alla volontà di salvare gli uomini: anzi, proprio la venuta di Gesù tra gli uomini è quel mezzo di contrasto necessario per portare allo scoperto e rendere evidente la malattia degli uomini, il peccato, la disobbedienza e quindi la necessità della medicina della divina Misericordia. Dio Padre raggiunge così l’uomo smarrito lì dove si trova e lo salva nel suo amore. E in questo suo agire, Dio c’invita a imparare a fare altrettanto: solo attraverso lo sguardo d’amore possiamo comprendere e accettare la nostra vita e la vita di quanti incontriamo. Il vangelo, la lieta notizia è proprio questa: in Gesù, Dio mi ha liberato dal peccato e dalla morte, mi ha salvato e ora spetta a me, guidato dallo Spirito Santo, custodire e alimentare questa gioia.
La solennità della santissima Trinità che chiude il tempo pasquale e nello stesso tempo apre al tempo ordinario, ci ricorda che Dio non è un semplice pezzo da museo da contemplare, ma è relazione d’amore. Dopo la gioiosa emozione del santo Natale, la commozione di fronte a Gesù che muore in croce, e l’entusiasmo per il dono dello Spirito santo nella solennità di Pentecoste, sembra che questa solennità spenga ogni barlume di gioia. Ma se accogliamo con libertà interiore questo messaggio, comprendiamo invece che il Signore ci spinge a immergersi sempre più in questo mistero d’Amore per poter amare come Lui; ci spinge a fissare lo sguardo in Lui per imparare a guardare alla nostra e altrui vita con lo stesso sguardo di speranza e di amore con il quale Dio ha guardato ciascuno di noi. Credere in Dio quindi non è estraniarsi dalla realtà, ma è proprio il contrario: è trovare coraggio e gioia per immergersi dentro la vita quotidiana sapendo portare sempre e ovunque uno sguardo di serenità, di pace, di speranza. Uno sguardo di amore misericordioso, perché è proprio l’amore il segno che contraddistingue il credente: «Da questo sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Ecco perché, con le parole del salmo, possiamo dire a Dio-Amore: «A te la lode e la gloria nei secoli, Signore».
Il commento al Vangelo di domenica 4 giugno 2023 curato da don Andrea Vena. Canale YouTube.