Continua il nostro cammino alla scuola della liturgia. Domenica scorsa siamo stati rassicurati che il Signore è costantemente presente nella “barca della nostra vita” e anche quando sembra che lui “dorma”, in realtà si prende cura di noi, non mancando di rimproverarci se non lo abbiamo ancora capito, perché significa non aver capito che Lui si è fatto Uomo (Natale), è morto in croce ed è risorto (Pasqua) pur di salvarci e restare per sempre con noi (Pentecoste).
Spetta a noi imparare a ri-conoscerlo quale nostro Signore, confidando in Lui, unico nostro Salvatore. È proprio questo il tema di questa domenica. Lui solo può salvarci dal male. Tutto il male. Tale realtà non è stata creata da Dio, ricorda il libro della Sapienza nella I lettura: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi” (v.13).
E proprio per questo possiamo rivolgerci al Signore Gesù, perché non è Lui che vuole il dolore, la sofferenza. Lui è amante della vita e fa di tutto pur di sottrarsi all’abbraccio del male e aiutarci a vivere una vita bella, positiva, autentica.
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v. 21: “In quel tempo, Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare”.
Domenica scorsa abbiamo incontrato Gesù che si dirigeva verso l’altra riva con i suoi discepoli; dopo aver guarito un indemoniato in terra pagana (5,1ss), viene cacciato e così torna indietro. Qui “molta folla” lo attende e lo accoglie.
v. 22: “Venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: “La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”. Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno”.
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Tra la folla si fa avanti Giairo, capo della Sinagoga. Non si tratta di un ascoltatore qualunque, ma di colui che custodisce e spiega la Torah/Legge. Il fatto che proprio lui si rivolga a Gesù, suggerisce la considerazione che il suo ruolo e tutto ciò che insegnava, non riuscivano a dare un significato e un senso al suo dramma; nel rivolgersi a Gesù Giairo è consapevole che sta mettendo in discus sione non solo il suo ruolo, ma pure il suo insegnamento, che paradossalmente si rivela ingombrante. La bimba, dice il testo nel finale del vangelo, aveva circa 12 anni: a quel tempo e in quelle terre, era dell’età della fertilità e quindi del matrimonio. Questo spiega ancor di più il dramma del padre e il coraggio nell’esporsi per il bene della figlia, incurante del fatto che per la “legge” da lui predicata la malattia della figlia era segno del peccato. La “legge” in questo caso si rivela “sterile”, incapace di donare vita. L’atto del benedire – richiesta che il padre ha rivolto a Gesù – era compito del padre di famiglia: chiedere quindi a Gesù di “benedire” la figlia significava lasciare che lui ne assuma la paternità (cfr Gn 27: la benedizione di Isacco a Giacobbe ed Esaù).
v. 25: “Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il mantello. Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”. E subito le si fermò il flusso di sangue…”.
Alla vicenda della ragazza dodicenne s’intreccia la storia di una donna malata da dodici anni, la quale ha molto sofferto non tanto a causa della malattia, dice il testo, ma a causa dei medici! Non è un giudizio verso l’operato dei medici in sé, quanto lo sgretolarsi della fiducia riposta unicamente sull’azione “umana”, come fosse l’unica possibilità di salvezza. Questa illusione porta a grande dispersione: “spendendo tutti i suoi averi e peggiorando”. Come il capo della Sinagoga, anche questa donna emerge dalla folla, infrangendo la legge che proibiva alla donna in quelle condizioni, di toccare e farsi toccare perché era considerata “immonda” e perché rendeva “immondo” ciò che toccava (cfr Lv 15,25-27).
Era una regola nata per corretta precauzione, che anche in questo caso si tra sforma in sterile legalismo. Un errato modo in cui viene vissuta la religiosità ha portato a escludere una persona dalla società, a farla sentire in colpa per quanto naturalmente vive, a farla sentire “impura” davanti agli occhi della comunità. In questo modo una religiosità vissuta in modo errato, anziché liberare, rende ancor più oppressi. La grandezza di questa donna sta nel seguire il suo desiderio, e “toccare” comunque Gesù, pur di essere salvata.
v. 30: “Subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi ha toccato le mie vesti?”… Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante… venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.
Gesù percepisce che qualcuno l’ha toccato. Un “toccare” non dettato dalla curiosità ma da un “desiderio di salvezza”. È questo che lo spinge prima a chiedere “chi mi ha toccato” e poi a guardarsi attorno. Sarà proprio questo sguardo che porterà la donna, “impaurita e tremante”, ad avvicinarsi a Lui. In base alla reazione della donna, si può immaginare come lo sguardo di Gesù sia stato sereno e rassicurante, invitante e attraente a tal punto da farla venire allo scoperto. E il suo narrare l’avvenuta guarigione grazie a quel “tocco” animato dalla fede, le ha portato salute e salvezza. Così, da una folla anonima, emerge un volto concreto di donna, guarita dal male. Una donna che ha recuperato in Gesù la sua dignità di persona. La sua femminilità.
v. 35: “Stava ancora parlando quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: “Tua figlia è morta”… Gesù disse: “Non temere, soltanto abbi fede!”… Giunsero alla casa… vide trambusto e gente che piangeva… disse loro: “La bambina non è morta, ma dorme”. E lo deridevano. Ma egli cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina, quelli che erano con lui (cfr Pietro, Giacomo e Giovanni) ed entrò… Prese la mano della bambina e le disse: “Talità kum”, che significa “Fanciulla, io ti dico alzati!”. E subito si alzò… e furono presi da grande stupore”.
Dopo aver guarito-salvato la donna malata, ora è il momento della ragazza. Gesù entra nella sua stanza lasciando fuori i “cantori del lamento”. E in un contesto di familiarità e di amore – ci sono infatti solo i genitori e i suoi tre discepoli (Pietro, Giacomo e Giovanni) – tocca la ragazza e la invita ad alzarsi. Gesù non spiega il male, ma lo vince con il gesto e la parola: Talità kum, bambina alzati! Azione e parola che richiamano la risurrezione stessa di Gesù.
La folla. Accanto alle protagoniste di queste due scene, c’è una terza categoria che merita di essere segnalata, ed è la “folla”. Dalla folla emerge prima Giairo e poi la donna malata; troviamo la folla che “tocca Gesù” ma se la confrontiamo al tocco della donna, intuiamo che “tocca” senza desiderio di salvezza. La folla è quella che deride Gesù quando dice che la bambina dorme, e che tenta di ostacolare l’azione salvifica di Gesù (cfr l’esperienza del cieco Bartimeo, il quale nel mentre gridava “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me”, veniva tacciato dalla folla (cfr Mc 10,46ss), da quanti credono o si illudono di essere a posto perché rispettosi esteriormente della legge).
Da una parte l’appiattimento della folla, omologata dalla sua “certezza legalistica”, dalla sua stupida sapienza, e dall’altra il coraggio del padre e della donna capaci di uscire dalla folla, di reagire, di mostrarsi per quello che sono. È questa esperienza di libertà che porterà a rendere grazie al Signore, trasformando l’esperienza in preghiera di lode, così come troviamo nel salmo scelto dalla liturgia per questa domenica: “Ti esalterò Signore perché mi hai risollevato e mi ha fatto risalire dagli inferi… Cantate al Signore inni, e celebrate il suo ricordo”.
La prima cosa che questa Parola mi fa ricordare è il rimprovero di Gesù ai discepoli nel vangelo di domenica scorsa: “Non avete ancora fede?” (Mc 4,40). Mi colpisce questo perché oggi, una donna considerata “impura” dalla legge, mossa dal legittimo desiderio di essere sanata, “tocca” Gesù e viene salvata e guarita; un capo della Sinagoga che fino a quel momento ha posto tutta la sua fiducia nella “legge”, sperimenta la sterilità della pura legge, da lui predicata e difesa in Sinagoga, e si apre alla legge dell’amore predicata da Gesù lungo le strade: un atto di fiducia che porterà a ritrovare salva la figlia.
Un secondo aspetto che incontriamo in entrambe le esperienze è, paradossalmente, la disobbedienza. La donna “impura” che per la legge di Mosè non poteva toccare nulla e nessuno può toccarla, sfida la legge e tocca il mantello di Gesù; in secondo luogo il padre che disobbedisce alla Torah/Legge chiedendo a Gesù “salvezza e vita” per la figlia. A dimostrazione che non è in virtù della legge che siamo salvati, ma in virtù dell’amore, in virtù della fede (cfr Rm 3,20-25, Ef 2,8-10), e Dio non guarda alla fedeltà della legge senza anima, ma guarda alle buoni intenzioni del cuore (cfr 1Sam 16,7, la scelta di Davide; “Non chi dice Signore Signore… ma chi fa la volontà del Padre mio” Mt 7,21-29). Infine, in entrambe le situazioni un uomo e una donna hanno il coraggio di rischiare, di uscire dalla folla, dall’anonimato, incuranti di eventuali giudizi e derisioni. Si espongono perché riconoscono in Gesù il Signore e Salvatore, quanto i discepoli sulla barca non erano riusciti a riconoscerlo, chiamando Gesù solo con il titolo di Maestro.
Alla luce di questa Parola, ripenso alla mia e nostra vita, di fronte agli imprevisti, alle tribolazioni, al male, alle “perdite di vita” (perdita di sangue – come per la donna – è comunque perdita di vita) e mi domando verso chi indirizzo la mia preghiera, il mio grido d’aiuto. Forse anch’io rischio talvolta di rivolgerlo verso gli idoli del momento, di cedere alla superstizione, al “santone” di turno capace solo di sperperare i miei beni. Realtà che si sta diffondendo sempre di più, perché nel momento in cui non si crede più in Dio, si fa di ogni idolo il proprio dio!
Oggi mi sento e ci sentiamo interpellati dal Signore che ci domanda quanto maturi/adulti siamo nella fede. Un essere adulti che non si qualifica come un fare di testa propria, agendo contro il vangelo e la chiesa, come va di moda oggi! L’adulto è proprio colui che impara a rivolgersi a Dio riconoscendolo Signore e Salvatore; è colui che sa leggere il vangelo interpretandolo tra le braccia di Madre Chiesa, custodendone tutta la freschezza e vivacità, a costo di infrangere la “normalità” lì dove, con un cuore puro, coglie che la legge dell’amore misericordioso viene intrappolata dai cavilli della legge umana, quando capisce che la legge si è trasformata in barriera (cfr Mc 7,11-13: “Voi annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte”).
L’adulto nella fede è colui che si mette in ascolto di ciò che dice lo Spirito, è capace di dare ragione di quanto ascoltato, è colui che, se serve, emerge dalla folla anonima per far sentire la sua voce pur di restare fedele alla freschezza del vangelo. Si pensi a san Benedetto, a san Francesco, a santa Teresa d’Avila, a san Giovanni Bosco… Se si fossero rassegnati adeguandosi alla “folla anonima” del tempo, non sarebbero mai diventati quello che sono, e non avrebbero mai arricchito la Chiesa di quanto lo Spirito aveva suggerito nei loro cuori. E quante “leggi” hanno infranto!
Gesù smonta la fedeltà alla “lettera” per recuperare lo spirito della legge (cfr Gal 3,1-5), ossia l’amore: e si lascia toccare, come si lascerà toccare dal lebbroso (Mc 1,41), come toccherà orecchio e lingua del sordomuto (Mc 7,33), gli occhi del cieco (Mc 8,23), come toccherà i bambini (Mc 10,13), il morto per risuscitarlo (Lc 7,14)… e si lascia toccare dalla folla, dai peccatori, dalla prostituta… Il toccare si rivela un gesto di vicinanza, di reciprocità, di relazione: azioni tutte vietate dalla Legge che si trasformano in esperienze di liberazione, di amore, capaci di dire “sono con te”. Non un “toccare” di giudizio, ma di speranza: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Vai in pace e sii guarita dal tuo male”.
Parola e gesto che, come i sacramenti, sono azioni di salvezza. Ecco Gesù, colui che libera, che salva, che porta gli ultimi, gli scartati, gli intrusi, i non aventi diritto, gli etichettati, gli irregolari ai primi posti (Mt 20,16). Come un tempo,Gesù continua a volgere il suo sguardo verso la folla anonima, alla ricerca di quanti lo “toccano” con cuore puro, di quanti sono schiacciati dal giudizio dei benpensanti; cerca, per ri dare speranza, per risollevare da sofferenze e umiliazioni, e rimettere tutti in cammino verso la Meta. Questo sguardo e questa parola sono rivolti a tutti: “Io ti dico, coraggio, alzati!”.
Per gentile concessione di don Andrea Vena. Canale YouTube.