Domenica scorsa Gesù ci aveva coinvolti nella sua missione – a tal punto da divenire noi tutti «popolo sacerdotale» – e altresì invitati a lasciarci coinvolgere di fronte alle folle smarrite e affamate; a lasciarci scomodare dalla nostra tranquillità pur di sentirci parte delle gioie e delle fatiche, della speranza e delle sofferenze di quanti incontriamo lungo il cammino. Di fatto, Gesù ci chiese di fare come Lui ha fatto con noi: avere compassione. Un compito, una missione che non è al di sopra delle nostre possibilità, perché essa è incisa nei nostri cuori (cfr Dt 30,10ss); e neppure dobbiamo lasciarci frenare dal peso delle nostre fragilità, perché come a san Paolo, così a noi il Signore ripete: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta nella debolezza» (cfr 2Cor 12,9).
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Oggi la liturgia ci fa fare un passo in più. Aver paura di fronte al compito affidatoci è normale, umano. La paura è lo stato d’animo che attraversa i cuori di tutti, perché siamo di natura siamo fragili (cfr Gn 3), e il povero che c’è in noi/la miseria che caratterizza la nostra vita, ci accompagnerà sempre (cfr Mc 14,7).
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Se ci pensiamo, anche Gesù nel Getzemani ha avuto paura, tanto da chiedere al Padre che gli fosse evitato quel «calice» (Mt 26,39). E così è stato per i profeti prima di Gesù. Motivi per cui avere paura ci sono e ci saranno sempre: paure che possono nascere dall’esterno, causate dall’avversione di coloro che non condividono il nostro stile di vita e il messaggio che portiamo, come capitato al profeta Geremia, nell’esperienza descritta nella I lettura: «Sentivo la calunnia di molti: Tutti i miei nemici aspettavano la mia caduta: “Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo…”». Altre volte, in
vece, la paura può nascere dal sentirsi inadeguati, pressati dal peso delle proprie fragilità: pensiamo, per fare un esempio, ancora al profeta Geremia: «Non so parlare, Signore, perché sono giovane» (Ger 1). Altre volte la paura può essere dovuta dall’aridità interiore, dal sentire Dio lontano; è un’esperienza di oscurità di cui, ai nostri giorni, si è fatta eco santa Teresa di Calcutta nel suo diario, situazione che san Giovanni della Croce (santo e dottore della Chiesa, 1542-1592) definì in una sua opera «La notte oscura».
Preso quindi atto che la «paura» è parte di noi, non è un incidente di percorso… dobbiamo guardare come è stata affrontata. In fondo Gesù nell’invitarci a seguirLo non ci ha promesso una vita facile o senza ostacoli («Chi vuole venire dietro a me prenda la sua croce», Lc 9,22ss): ci ha però garantito di essere il «Dio con noi» (Is 7,14, Natale) e il suo aiuto per affrontare ogni tornante della vita, fino alla fine del mondo (cfr Mt 28,20).
I Profeti, ma così sarà anche per il Signore Gesù, hanno saputo su Chi appoggiarsi: «Il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno (Geremia, I lettura). Concetto che Gesù riprenderà nell’odierno testo del vangelo: «Non abbiate paura», perché nulla sfugge dallo sguardo di Dio. Questa è la forza e la speranza del credente che la liturgia ci aiuta a trasformare in preghiera nel canto del salmo: «Per Te io sopporto l’insulto… perché mi divora lo zelo per la tua causa… Io rivolgo a te la mia preghiera… Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore…». Entriamo così nel dettaglio di questo testo evangelico per cercare di capire cosa dice la Parola e cosa essa vuole dire a noi oggi.
vv. 26-27: «In quel tempo Gesù disse ai suoi apostoli: “Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio, voi annunciatelo nelle terrazze».
Gesù invita a non avere paura, perché il messaggio non è di chi lo porta, ma di manda, di Dio. Il profeta Geremia «sentiva la calunnia di molti», sentiva il fiato sul collo dei suoi persecutori, ma non ha rinunciato ad annunciare la Parola, non ha rinunciato ad essere ciò per cui era stato chiamato: essere messaggero di Dio. Un coraggio, il suo, non costruito a tavolino, ma emerso dalla certezza che il Signore era al suo fianco. Riprendendo un testo di san Paolo, possiamo dire che i profeti di ieri e di oggi sanno in quali mani hanno posto la loro vita: «So infatti in chi ho posto la mia fede e sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato» (2Tm 1,12). Dio sa prendersi cura di ciascuno di noi, in ogni situazione della vita, sia essa attraversata dalle gioie o dalle sofferenze, dalla serenità o dalle fragilità. La vita tutta è presa in seria considerazione da Dio e nulla sfugge a Lui.
vv. 28-31: «E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima…Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete molto più di molti passeri!»
La serenità alla quale il Signore invita non è dunque mancanza di difficoltà, fatiche e persecuzioni, come dichiarerà Gesù stesso ai suoi discepoli: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (cfr Gv 15,20), ma sta nella certezza che Dio si prenderà cura di ciascuno in ogni frangente della sua vita: «Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati»! Potranno anche toglierci i beni, la salute… anche la vita, ma nessuno potrà toglierci la fiduciosa certezza che Dio è e rimane con noi. Questa amicizia, dolce e fedele, nessuno potrà cancellarla, come ricorda Gesù: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo ma non hanno il potere di uccidere l’anima», ossia di uccidere quel legame indicibile e divino che il Signore assicura quaggiù in terra quale premessa della condivisione eterna in cielo: la sua Amicizia. Ormai il suo
amore per noi, la sua amicizia per noi è «inchiodata sulla croce» e nessuno la schioderà più! vv. 32-33: Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli». La fedeltà a Dio, dunque, è salda perché non appiattita quaggiù, ma perché proiettata verso il cielo. Tutto diventa così relativo perché solo Dio è assoluto, è Tutto.
La testimonianza del discepolo, quindi, sarà tanto più efficace quanto più il suo cuore sarà libero dalla paura perché saldo nella fiducia/abbandono nel suo Dio e Signore Gesù. La perseveranza più vera e più bella, infatti, non è quando tutto va bene, quando non ci sono difficoltà o si sente Dio particolarmente vicino… quasi che tutto questo sia frutto di uno sforzo umano o di una conquista personale, ma la vera perseveranza si fonda sulla sicurezza che il legame d’amore di Dio non viene mai meno. Neppure nella dubbio della fatica o nella vergogna della fragilità. Dio c’è.
Il commento al Vangelo di domenica 25 giugno 2023 curato da don Andrea Vena. Canale YouTube.