Domenica scorsa abbiamo incontrato i Dodici nel momento in cui Gesù li inviava in missione; oggi assistiamo al loro rientro e alla condivisione della loro esperienza con Gesù stesso, momento che culminerà nella “compassione” di Gesù per tutte le persone che hanno raggiunto il loro gruppo e che ora si ritrovano senza cibo. Con questa premessa si aprirà – da domenica prossima – un lungo discorso dedicato al “pane di vita” (Marco esaurisce la riflessione/annuncio nell’arco di pochi versetti (Mc 6,34-44); la liturgia ha scelto invece di svilupparlo attraverso le straordinarie pagine del capitolo sesto del vangelo di Giovanni (dalla XVII alla XXI domenica).
Il vangelo viene preceduto dalla lettura tratta dal libro del profeta Geremia, dove il Signore esprime la sua amarezza per la mancanza di veri pastori: “Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge…Radunerò io stesso – dice il Signore – il resto delle mie pecore…le farò tornare ai loro pascoli… costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare… Susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio… lo chiameranno con questo nome: Signore-nostra-giustizia”. Quel pastore è Gesù, figlio di Davide (cfr Is 43,10ss; Lc 2,6ss), il buon pastore che sa prendersi cura delle pecore: prima, si accorge della stanchezza dei discepoli, anch’essi comunque “pecore” del suo gregge, e li porta in disparte; poi, col suo fare, educa li a coltivare, da buoni pastori loro stessi, la compassione per le folle. Pastori che quando fan bene, si fanno subito riconoscere, come testimonia anche il canto del salmo odierno: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla…”.
v. 30: “Gli Apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato…”. La breve relazione sul ritorno dei Dodici si collega al racconto della missione (6,12ss).
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v. 31-33: “Ed egli disse loro: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero”.
Si tratta di “stare con Gesù” (cf. Mc 3,14), di vivere con lui momenti di comunione gratuita, senza alcuno scopo che non sia quello di dimorare con il Signore della propria vita. Ma anche di permettere al Signore di svelare nuove cose ai discepoli. Quando Gesù desidera spiegare ai discepoli il significato delle parabole (4,34), o quando porta con sé Pietro, Giacomo e Giovanni sul Tabor (9,2)…. li porta in disparte.“L’andare in disparte”, quindi, non è fuga, ma maggiore intimità, un lasciarsi ricaricare/rimotivare da Colui che ha affidato loro il compito della missione: “La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 3,26). Senza dimenticare che il “deserto” ricorda anche il luogo della lotta, della sete e della fame, della tentazione: è luogo dove si è chiamati a scegliere da quale parte stare (cfr Es 17: la protesta di Massa e Meriba; Mt 4,4ss: Gesù tentato nel deserto).“Stare con Gesù” è un recuperare con chiarezza il principio e il fondamento della vita, della missione, è fare il primo bilancio se e come si sta continuando a dimorare in Lui: “Io sono la vite voi i tralci. Chi rimane in me io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla…” (Gv 15,1ss). Un ritornare a Lui, dunque, un appartarsi con Lui per non disperdersi negli affanni della vita apostolica (Lc 10,38ss: Marta Marta, ti affanni per troppe cose).
v. 34: “Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose”. La compassione non è tanto una caratteristica di Dio, ma è Dio stesso, è la sua stessa identità: Dio è compassione, Dio è misericordia, Dio è amore. Di fronte alla folla smarrita, Gesù si presenta come quel pastore che si lascia commuovere, che si prende cura delle pecore. Si rivela il pastore annunciato e atteso dal profeta Geremia: “Susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio” (prima lettura). Egli è il pastore (cfr Ez 34,1ss) che darà la vita per le pecore (cfr Gv 10,11).
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E la prima attenzione che offre, è nutrire il gregge con il cibo della parola: “Si mise a insegnare loro molte cose” (cfr Mt 4,3…Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”). Innanzitutto colpisce questo ritorno dei Dodici da Gesù, il quale con “materna” umanità, s’accorge della loro stanchezza e li porta in disparte a riposarsi un po’. Già questo è un messaggio per me, per noi: sapersi accorgere della propria fatica ma anche della fatica dell’altro. Accorgersi significa imparare a dare attenzione a se stessi e a chi si ha di fronte. In un tempo in cui si è presi dal vortice delle cose da fare, il tempo del riposo, del lasciarsi portare in disparte dal Signore non è fuga dalle responsabilità, quanto tempo di grazia durante il quale recuperare forze, ma ancor più tempo durante il quale permettere al Signore di rivelarsi meglio a noi. Un rivelarsi che è anche un lasciarsi “svegliare” da Lui, perché talvolta o spesso, forti della nostra apparente autosufficienza, rischiamo di agire senza di Lui (cfr Gesù nella barca).
In questo rivelarsi emerge subito l’apertura agli altri: il tempo della tranquillità con Dio non è mai chiusura, ma chiede sempre di compiersi facendo spazio agli altri, imparando ad ascoltare la fame e la sete degli altri, perché non esiste incontro vero con il Signore che non faccia ancora più posto al bisogno del fratello (cfr basti pensare all’importanza dell’ospite in san Benedetto). Questa è forse la lotta più impegnativa che possiamo vivere nei deserti della nostra vita. Eppure, ci ha ricordato il profeta Geremia nella prima lettura, qui sta l’essenza del buon pastore: quella di prendersi cura, di lasciarsi commuovere, potremmo dire, di lasciarsi disturbare dalla folla, per evitare di sentire rivolte a sé le parole del profeta: “Guai ai pastori che fanno perire e disperdere il gregge del mio pascolo”. Gesù si lascia commuovere perché vede che sono come pecore che non hanno pastore: Lui sa che di pastori ce ne sono tanti, ma non servono il gregge, al massimo si servono del gregge per i loro interessi (cfr don Lorenzo Milani: “Fai strada ai poveri, senza farti strada”).
Andare in disparte è anche un segno di fiducia nella Parola di Gesù, il quale invita i discepoli, e oggi ciascuno di noi, a fidarsi del fatto che il granello seminato, quando e come non si sa, cresce da sé anche quando l’agricoltore riposa (cfr Mc 4,26-27, testo incontrato nell’XI domenica). Un portarsi in disparte, un trovare riposo che è accompagnato da inevitabili contrattempi: quasi che Gesù lo abbia messo in conto fin dall’inizio, per educarci alla paziente arte dell’imprevisto. E sappiamo che Gesù, forse proprio per evitare questo, spesso ha scelto la notte e il monte per il suo ritirarsi a tu per tu con il Padre (Lc 5,15-16; Mt 14,23). È proprio questa intimità di comunione con il Padre che permette a Gesù di “sentire” con il Padre, tanto da assumere i suoi sentimenti, facendosi misericordiosamente prossimo a chi è nel bisogno (cf. Lc 10,33), commuovendosi di fronte al male che impedisce di vivere in pienezza (cf. Mt 20,34; Mc 1,41; Lc 7,13). Qui, in particolare, il motivo della sua compassione consiste nel vedere le folle “come pecore senza pastore” (cf. Nm 27,17; 1Re 22,17): la sua è la compassione del Messia, atteso come pastore capace di guidare e nutrire il gregge di Israele (cf. Ger 23,1-6; Ez 34); di più, Gesù è “il pastore bello e buono” di ogni uomo (cf. Gv 10,11.16)…
Stile e compassione che oggi vengono chiesti a noi. Siamo capaci e disposti di lasciarci portare in disparte da Gesù, per non perdere di vista ciò che è essenziale nel nostro ministero, nella nostra vita? E ciò che è essenziale prima di tutto è “stare con Lui”, come ricorda anche sant’Ambrogio: “Se vuoi fare bene tutte le cose, ogni tanto smetti di farle”, o, come era solito ripetere san Vincenzo de Paoli, “Le cose di Dio si fanno da sole!”.
In fondo si tratta di un sano atto di umiltà, certi che non siamo noi a salvare il mondo, che le nostre vite sono comunque fragili, talvolta come barche sbattute dal vento in tempesta (Mc 4,35-41, XII domenica). Allora, come ricorda sant’Ignazio di Loyola, “Prega come se tutto dipendesse da Dio, lavora come se tutto dipendesse da te”. Dunque oggi sono e siamo invitati a sentirci “pecore”, ossia a riconoscere che non possiamo agire da soli, che dobbiamo imparare ad accettare i nostri limiti. Che abbiamo bisogno di essere curati, accolti, custoditi con amore dall’Amore. Che abbiamo bisogno di misericordia, di compassione. In secondo luogo, ciascuno è chiamato a divenire “pastore”
di qualcun altro. Ciò significa capire che la vera gioia non sta nel fare quello che voglio, ma sta nel rendere felice chi ho accanto. Questa è la vera gioia. Iniziando il tempo della missione, Gesù ci aiuta a comprendere che questa resterà autentica nella misura in cui impareremo a sentirci “pecore” e nello stesso tempo “pastori inviati” a portare l’annuncio del Vangelo con la testimonianza della vita e, se serve, con qualche parola, come diceva san Francesco d’Assisi ai suoi frati.
Per gentile concessione di don Andrea Vena. Canale YouTube.