Siamo quasi giunti al traguardo di questo anno liturgico; domenica prossima, infatti, celebreremo la solennità di Cristo, Re dell’Universo. In queste ultime domeniche siamo stati educati, direi quasi forgiati dal fuoco della Parola (cfr Sir 2, 1Pt 1).
Allenati a fissare lo sguardo su ciò che è «giusto, nobile, puro amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode…» (Fil 4,4ss). E questo ha chiesto di rinunciare a quanto ostacola il risultato: è la battaglia della fede (cfr 1Tm 6,12). Il combattimento che chiede di coltivare sogni grandi e, piano piano, raggiungerli, nonostante ci siano forze interiori ed esteriori che ostacolano; nonostante si veda il bene da compiere ma poi si agisce al contrario! (cfr Rm 6,12ss). Questo è l’Anno Liturgico, palestra di verità e di vita. Ed ora, giunti quasi al termine, siamo invitati a vigilare, a raccogliere quanto seminato durante l’anno (un giorno sarà al termine della vita), per offrire tutto al Signore: possono essere anche poche «briciole», l’importante che siano «briciole d’amore».
Domenica scorsa siamo stati invitati ad attendere lo «Sposo» con atteggiamento vigilante (Mt 25,1-13), e oggi questo atteggiamento di vigilanza si specifica in un essere anche responsabili di quanto ricevuto. C’è un legame tra la saggezza e la capacità di attendere: non si resta con le mani in mano, ma si attende in modo vigile, creativo, attento… Si attende facendo spazio nel cuore, cercando il senso vero a quanto accade in noi e attorno a noi. E’ già tutto nelle nostre mani, basta accorgersene. A tale riguardo, la prima lettura segnala che la fortezza di una donna – questo poi vale per tutti – non sta nel cercare chissà cosa, ma nel «trafficare» quanto ha: «In lei confida il cuore del marito… si procura lana e lino e li lavora volentieri con le sue mani… Apre le sue palme al misero… frutto delle sue mani e le sue opere la lodino alle porte della città». La donna forte, dunque, è colei che non resta con le mani in mano, ma sa agire con saggezza per la conduzione della famiglia, senza dimenticare chi è nel bisogno. Come si coglie, trafficare i talenti ricevuti da Dio non chiede chissà quali doti straordinarie, ma domanda di saper agire bene lì dove si è chiamati a vivere. Una verità che si fa preghiera nel canto del salmo: «Beato chi teme il Signore… della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene…». Nulla perde chi «traffica» per il Signore. Nulla.
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vv. 14-18: «In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì». Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone».
Un uomo, dice il testo, parte per un viaggio, consegnando a ciascun servo dei talenti/monete. Possiamo ripensare al testo della Genesi laddove Dio crea ogni cosa e «affida» all’uomo il compito di «coltivare e custodire» (cfr Gn 2,15). Interessante è il fatto che prima viene il «coltivare», poi il «custodire», cioè a metterci del suo perché questo giardino faccia risaltare tutta la sua bellezza e potenzialità. È quanto dovrebbe avvenire per i talenti ricevuti, ma un servo decide di «custodire» anziché «coltivare/far fruttare». Decide di invertire l’ordine ricevuto da Dio. Certo, a una prima impressione sembra che non faccia nulla di male: semplicemente lo nasconde!
vv. 19-30: Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».
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Al rientro del padrone, i servi presentano i loro talenti. I primi due dicono: «Mi hai consegnato… ne ho guadagnati…» (versetti 20 e 22). Il terzo servo, invece, dice: «So che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato…» (versetto 24): da queste parole emerge il perché ha nascosto il talento, cioè per paura. Anziché gioire e sentirsi onorato della fiducia riposta in lui dal padrone, si lascia prendere dalla paura. Dinamica che rispecchia il testo della Genesi che ho segnalato all’inizio: Adamo ed Eva anziché attendere nel giardino obbedienti al Padre, si lasciano ingannare dal serpente che instilla in loro il fatto che Dio «toglie la vita», anziché «donarla»; che Dio è «geloso» della sua gloria… sarà questo che porterà Adamo ed Eva a cercare di salvarsi da soli! E alla fine, si nasconderanno per paura, proprio come questo terzo servo. E’ un’esperienza che ritornerà spesso: pensiamo al figliol prodigo che va via di casa perché cerca «libertà» (cfr Lc 15) e così altri esempi. Quanto il Signore oggi ci ricorda è che l’attesa del suo ritorno va vissuto certamente con vigilanza, come ci è stato ricordato domenica scorsa, purché questa sia vissuta con impegno e responsabilità. Un’attesa che chiede di generare qualcosa di nuovo. Non si tratta di lasciarsi prendere dalla paura o dallo sconforto, ma di gioire perché ritenuti degni di partecipare alla missione di Dio, perché la gioia più grande, il talento più grande è la vita, è l’essere figlio amato, sempre e comunque. Amato. Questo amore non può mai essere messo in dubbio, perché anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore! (cfr 1Gv 3,20).
A partire da questo, si comprende che la «creatività» che ci viene richiesta non è il moltiplicare riunioni o il fare chissà quali ennesimi e spesso sterili progetti pastorali, dove magari non si nomina neppure Gesù Cristo! – non me ne vogliano i vescovi o i confratelli – ma lo stare nel Signore, lasciarsi avvolgere dall’abbraccio benedicente di Dio e narrare agli altri questa esperienza con la gioia della vita. Ripensiamo solo agli affanni di Marta e al dolce ascolto di Maria: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose… Maria ha scelto la parte migliore» (Lc 10,38-42). E a riprova di questo, riprendo Giovanni quando scrive: «Quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita, noi l’abbiamo veduto e di ciò diamo testimonianza…» (1Gv 1,1). Questo è il «fare» creativo che ci è stato affidato: «”Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. Gesù rispose: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato”» (Gv 6,28).
Se molti progetti di vita personale o progetti pastorali non dicono nulla è forse perché siamo troppo impegnati a costruire qualcosa lontano dal sogno di Dio; forse, come Adamo ed Eva, vogliamo salvarci da soli con le nostre opere, dimenticando che la cosa più importante ed entusiasmante è rispondere al desiderio più profondo del cuore: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). E il fatto che questo testo giunga alla vigilia della conclusione dell’Anno Liturgico ci offre una chiave precisa: la vita chiede di essere protesa tutta verso il Signore Gesù che viene (cfr Mt 24,48; 25,5). Abbiamo ricevuto un talento prezioso, dicevamo, che è la vita: questa ora va vissuta, trafficata con cuore e passione. Non possiamo permetterci di seppellire i doni ricevuti da Dio. Ma accanto al «dono-talento» della vita, pensiamo al «talento» di quanti condividono con noi il cammino della vita; al talento della Parola di Dio depositata nel nostro cuore; ai Sacramenti ricevuti… sono tutti un tesoro che chiede di essere accolto con gratitudine e testimoniato con gioiosa fierezza, perché segni tangibili dell’Amore di Dio per noi. Ecco perché non possiamo lasciarci immobilizzare dalle nostre paure o pigrizie; dalle gelosie o dalla malignità. I doni di Dio si moltiplicano donandoli, non nascondendoli! L’importante è far sì che ogni nostra azione sgorghi dall’abbraccio benedicente di Dio, perché solo così porteremo Dio agli altri. Diversamente, porteremo solo noi stessi… ma allora si raccoglierà poco. E le opere di misericordia sono la via maestra, perché su queste saremo alla fine giudicati (Mt 25).
Mt 25, 14-30 | don Andrea Vena 65 kb 26 downloads
XXXIII domenica del tempo ordinario, anno A (19 novembre 2023) Pr 31,10-13.19-20.30-31…Per gentile concessione di don Andrea Vena. Canale YouTube.