Continua il nostro cammino alla Scuola della Liturgia, esperienza di comunità con Dio e tra noi. Un’esperienza durante la quale il Signore ci prende per mano e – di domenica in domenica – ci educa alle cose del cielo. Ritengo importante tener presente le singole tappe del cammino perché aiutano capire da dove si è partiti e dove stiamo andando, nel rispetto di ogni singolo passo. Questo fa intuire che il nostro essere cristiano è un divenire, un cammino in crescita, e pure in salita!
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A Pentecoste abbiamo ricevuto il dono dello Spirito Santo, forza di Dio, con l’impegno a testimoniare il Signore Gesù fino ai confini del mondo (28 maggio); abbiamo compreso che il cuore del messaggio è Dio-Amore (festa Santissima Trinità, 4 giugno); un Dio-Amore che non è lontano, ma si fa dono per noi nel Pane dell’Eucaristia (Corpus Domini, 11 giugno). Dunque: abbiamo ricevuto un mandato e la forza per attuarlo (Pentecoste), ci è stato rivelato il contenuto del messaggio (Trinità), e ci è stato offerto il Pane di vita per il cammino (Corpus Domini). In altre parole siamo stati così coinvolti nel partecipare alla missione di Gesù, ossia lasciarsi prendere dalla compassione per le folle affamate di pane e di senso di vita (18 giugno, XI domenica). Certo sperimentiamo il divario tra la grandezza della missione e la nostra limitatezza, ma la paura di fronte a questo non deve immobilizzarci, perché Gesù è con noi e quindi non dobbiamo temere (25 giugno, XII domenica). Solo a partire da questa certezza sapremo mettere a soqquadro la casa della nostra vita per fare spazio al Signore affinché dimori in noi come ospite gradito (2 luglio, XIII domenica): la familiarità con Lui ci permetterà di guardare alla vita e al mondo con occhi limpidi, capaci di cogliere la presenza di Dio in tutto ciò che ci circonda, dandogli lode (9 luglio, XIV domenica), perché nulla avviene fuori di Lui e nulla avviene «per caso»: «Come la pioggia e la neve scendono… e non vi ritornano senza aver irrigato la terra… così sarà della mia parola… non ritor nerà a me senza effetto, senza aver operato ciò per desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Isaia, prima lettura di questa domenica). Forse il Signore non rispetterà le tappe di marcia del calendario della mia vita; forse non rispetterà la mia scaletta di priorità… ma una cosa è certa: il Signore sa quello fa, come bene esprime il salmo scelto a risposta di questa prima lettura: «Il Signore visita la terra e la disseta… prepara la terra, la ricolma di ricchezze… così corona l’anno con i suoi benefici» (cfr salmo).
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vv. 1-9: In quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: “Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti”.
La prima cosa che l’evangelista segnala è il fatto che Gesù esce di casa e sale su una barca, da cui predica alla numerosa folla che si è radunata per ascoltarlo. Per farsi capire, utilizza una parabola. Si tratta di brevi racconti che parlano di Dio senza nominarlo, prendendo spunti dall’esperienza di vita degli ascoltatori, così tutti comprendono. Al versetto 10 Gesù stesso spiegherà il perché utilizza questo linguaggio. Gesù non si ferma alla descrizione esteriore dei fatti, ma educa gli ascoltatori a cogliere che dentro ogni esperienza c’è una dimensione nascosta che chiede di essere compresa; una dimensione simbolica che rimanda a un significato più profondo e che aiuta a capire che tutto può dirci qualcosa. Nelle parabole Gesù si serve dei paradossi, quasi a suggerirci che il paradosso stesso abita la realtà. In secondo luogo, questo modo di parlare disorienta ma per ri-orientare. In questa prima parabola Egli ci parla di un seminatore che esce a seminare, gettando il suo seme su diversi tipi di terreni, alcuni dei quali non portano frutto mentre uno, invece, ne porta molto.
vv. 10-17: «Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: “Perché a loro parli con parabole?”. Egli rispose loro: “Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca! Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
Nello spiegare il perché utilizza le parabole, Gesù fa capire quanto sia necessario avere un cuore libero per cogliere l’«oltre» che c’è in ogni cosa. Perché non basta annunciare la Parola se poi il cuore di chi ascolta è duro e lo sguardo non è limpido. Da qui la distinzione tra figli di Dio e figli del maligno. Essere aperti alle sorprese di Dio chiede la disponibilità a lasciarsi sorprendere, de-strutturare dalle proprie certezze.
vv. 18-23: «Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno”.
Come accennavo, la parabola è uno strumento che aiuta ad andare «oltre» l’apparenza, che aiuta a comprendere il «nascosto» che c’è dentro ogni esperienza di vita. Lo spiega chiaramente Gesù in questi versetti che abbiamo appena ascoltato. Il seminatore è Gesù stesso, che «esce a seminare la Parola», gettando il seme ovunque, non solo a chi è più bravo, ma nel terreno del cuore di tutti. Indistintamente. Lo fa senza calcoli, con generosità e larghezza d’animo. La prima cosa che Gesù insegna ai discepoli, e oggi a noi, è che non dobbiamo soppesare dove e a chi donare il seme della Parola: noi abbiamo ricevuto il compito di partecipare alla sua missione (XI domenica) e di fare come Lui, con larghezza d’animo; e non dobbiamo neppure avere paura o coltivare vergogna nel fare quanto siamo stati chiamati ad essere (XII domenica).
Nel primo esempio – seme caduto lungo la strada – si tratta di coloro che ascoltano in modo superficiale, incapaci di interiorizzare la Parola ascoltata, di prenderla e custodirla dentro di sé. Gesù insegna che l’interiorizzazione è il primo passaggio fondamentale per portare frutto: un lavoro interiore fatto di silenzio, di preghiera, di calma. Il secondo esempio, è il seme caduto su un terreno sassoso: descrive, potremmo dire, denuncia, un ascolto infruttuoso perché mancante di perseveranza. Senza radice, incostante, come quello di chi vive sull’onda del momento, degli istinti e degli istanti. Senza un progetto, tanto che di fronte alla prima difficoltà, scappa. Il terzo esempio, il seme caduto tra i rovi, riflette colui che ascolta ma si lascia comunque sedurre dalle tentazioni del mondo, dalla ricchezza, dai piaceri della vita. Non si sforza, non accetta la fatica della lotta interiore pur di restare accanto e fedele al suo Maestro e si lascia sedurre dagli idoli del momento. Infine il terreno buono: è quello dove il seme porta frutto in abbondanza.
L’infruttuosità dell’azione missionaria quindi, non dipende dal seme della Parola, ma dal terreno che lo ha accolto: puoi accogliere la Parola, custodirla nel cuore e difenderla oppure puoi lasciarti andare solo a sensazioni momentanee e quindi non ci sarà frutto. Se il seme della Parola viene accolto e custodito, ti trasforma dal di dentro. Se invece non viene accolto perché fatichiamo a convertirci, allora prima o poi quel seme si disperde.
Gesù non si limita a dire parole, a dirci cosa e come fare-essere missionario, testimone dell’amore del Padre. Gesù stesso ce lo insegna con la sua vita: Egli è la Parola di Dio (cfr Gv 1,14; Eb 1,2; Ap 19,13), ossia il seme gettato dal Padre del cielo nel terremo dell’umanità (cfr Gv 12,24). Ma Gesù è altresì il buon Seminatore, visto quanto dice di sé: «Non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre…» (Gv 8,28). Così Gesù ha accettato di abbassarsi, cioè cadere e marcire nel terreno dell’umanità (cfr Fil 2,6ss), pur di portare il frutto sperato dal Padre del cielo, deviando in questo modo la logica di Adamo ed Eva – centrata sul possesso, Gn 3 -, alla logica del dono, unica via che porta frutto. E proprio perché «dono», non s’impone. Al «dono» si risponde semplicemente con la gratitudine. Il dono diventa forza d’attrazione.
Alla luce di questa Parola, comprendiamo che se vogliamo divenire buoni seminatori dobbiamo prima di tutto diventare buoni terreni, capaci di accogliere e lasciarci trasformare dal seme della Parola di Dio. Trasformati in e da Lui – un processo che dura comunque tutta la vita – potremmo divenire buoni seminatori, sapendo far uso dello stesso stile di Dio: seminare con larghezza d’animo, certi che il resto lo farà la forza che è custodita nel seme della Parola, che è Dio stesso. E anche quando sembra che l’azione sia sprecata, che il gettare il seme della Parola sia inutile in determinati contesti di vita o nei confronti di certi interlocutori, anche in questi casi dobbiamo ricordare cosa ha fatto Gesù: ha gettato con larghezza d’animo. In fondo a noi non è chiesto il compito di far germogliare, ma di seminare. La Parola di Dio non obbliga, non costringe, non si impone, ma si rivela e si offre con amore, lasciando la libertà di essere accolta. Ecco perché è fondamentale prima di tutto essere buoni terreni, perché solo una fede viva e vera, una bella amicizia con il Signore aiuta a non preoccuparsi dei risultati, ma lascia che Qualcun Altro si prenda cura della vita. Mia e altrui.
Il commento al Vangelo di domenica 16 luglio 2023 curato da don Andrea Vena. Canale YouTube.