Continua il nostro cammino alla scuola della Liturgia domenicale. Abbiamo recepito che il Regno di Dio, e quindi ciascuno di noi, è come un seme gettato nella terra che porterà frutto, al di là dell’apparenza (11^ domenica, 16 giugno ‘24); che Gesù sa dominare la tempesta del mare e quindi le nostre tempeste (12^ domenica, 23 giugno); che Gesù guarisce chi si accosta a Lui animato dal desiderio di salvezza (13^ domenica, 30 giugno); che Gesù chiede a ciascuno di farsi bambino per lasciarci meravigliare dalle sue sorprese (14^ domenica, 7 luglio).
Piccoli tasselli che chiedono di essere tenuti presenti per cogliere il filo rosso che li lega e che ci permette così di comporre il mosaico del Volto di Gesù e quindi, in Lui, del volto di ciascuno di noi. Infatti come Gesù è una cosa sola col Padre, tanto che chi ha visto Lui ha visto il Padre (Gv 14,9), così anche noi dovremmo essere talmente uniti a Lui che chi vede noi, vede Gesù. Questo sarà possibile nella misura in cui ricorderemo che all’inizio della chiamata, della missione c’è sempre e solo Gesù: Lui è la ragione ultima, ma è anche la forza e il coraggio della perseveranza, come ci ricorda Amos nella I lettura presentata oggi dalla liturgia: “In quei giorni, Amasia disse ad Amos: “Vattene…Amos rispose ad Amasia: Non ero profeta né figlio di profeta: ero un mandriano…il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo”. Solo avendo chiara l’identità della missione aiuta a non divenire “Fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina” (Ef 4,14).
Oggi, XV domenica, Gesù affida ai Dodici il compito della missione. Si tratta di un invio rafforzato da quanto ci è stato indicato in queste domeniche. Mandati come piccolo seme gettato nel terreno della storia che, al di là dell’apparenza, porterà i frutti per i quali è stato “gettato” (cfr 11^ domenica). Un invio rafforzato dalla certezza che Gesù è e resterà sulla barca della nostra vita: a noi non confinarlo a poppa, perché ci reputiamo autosufficienti, ma coinvolgerlo, sempre (12^ domenica). A noi coltivare sempre desideri di salvezza, evitando di lasciarci appiattire dalla massa (13^ domenica), lasciandoci piuttosto sorprendere dalle Sue scelte; evitando di imbalsamare la vita, perché è più grande della nostra piccola esperienza; evitando di imbalsamare il vangelo, perché è molto più grande di quello che abbiamo compreso (14^ domenica). A noi tutti, dunque, il compito di tenere fisso lo sguardo su Gesù affinché ci mostri il suo volto (cfr 28,8: “Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto: il tuo volto, Signore io cerco”), che non è altro che fare nostre le parole/la preghiera del salmo scelto dalla liturgia: “Mostraci Signore la tua misericordia”.
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v. 7: “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due… e dava loro potere”. Dodici, numero che richiama quello delle tribù di Israele presenti al Sinai al momento dell’alleanza con Dio (cf. Es 24,4). In Marco questa è la terza chiamata: la prima era alla fede in Lui (Mc 1,16-20, chiamata di Andrea e Simone; Mc 2,13ss: chiamata di Matteo); la seconda allo stare con Lui: “Salì sul monte, chiamò a sé quelli che volle… ne costituì Dodici, perché stessero con lui e anche per mandarli” (Mc 3,13ss). Chiamate, appelli che nascono da Lui: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16). E oggi, sulla stessa linea, la chiamata a prolungare la Sua missione, andare a nome Suo. Li invia a due a due: ciò diventerà la prassi missionaria cristiana, fondata su Deuteronomio 19,15: “Un solo testimone non avrà valore contro alcuno… il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o tre testimoni”. Ma il dettaglio allude anche al mutuo aiuto nell’attività e alla reale possibilità di testimoniare, loro per primi, l’amore vicendevole che predicano. Uniti in Lui e tra noi nell’amore “perché il mondo creda” (cfr Gv 17,21; “Da questo riconosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”(Gv 13,34-35).
vv. 8-9: “E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche”. Colpisce il verbo “ordinare”: Gesù non offre un consiglio, “ordina”. E a un ordine, si obbedisce. Il bastone del viandante serve come appoggio ma anche come difesa contro gli animali feroci. Vengono proibiti, invece, pane (ossia il vitto), la borsa (che richiama sia il possedere/sicurezza, sia il fare elemosina). Una dev’essere la tunica, e non due. Questo perché il modo di presentarsi davanti agli altri deve diventare il proprio modo d’essere.
vv. 10-11: “E diceva loro: “Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro”.
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A differenza dell’evangelista Luca che è molto più preciso e dettagliato, Marco si limita a raccomandare che il missionario che è stato accolto non cambi abitazione, salvo che non venga rifiutato. Lo scuotere la polvere sotto i piedi esprimeva la fine di un rapporto: ad esempio, quando un giudeo lasciava la terra pagana per tornare nella sua patria scuoteva la polvere dai piedi. In questo caso si suggerisce che chi non accoglie la testimonianza degli inviati/missionari debba essere considerato come “terra pagana”.
vv. 12-13: “Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano”.
L’attività dei Dodici ricalca l’attività di Gesù (1,15).
Il Signore delinea così il profilo dei Dodici ma in loro, il profilo di ciascun credente mandato a testimoniare la sua Parola. Una missione che sgorga non da conoscenze superficiali, come quelle dei Nazareni che abbiamo ascoltato domenica scorsa, ma da una conoscenza “esistenziale” (“Li chiamò perché stessero con Lui, e anche per mandarli”). Uno stare con Gesù che implica un lasciarsi guarire per guarire, un lasciarsi liberare per poter liberare, un lasciarsi misericordiare per poter essere misericordiosi. Perché il discepolo non porta se stesso, ma porta Gesù. Nelle indicazioni che Gesù rivolge ai discepoli, ossia a quanti si sono lasciati sedurre dal suo amore (Ger 20,7-9), – principio e fondamento dell’essere discepoli – troviamo le caratteristiche che dovrebbero qualificare ogni testimone del vangelo: gioia, sobrietà, libertà, amicizia.
La Gioia di saperci amati, scelti, mandati senza nostro merito ma unicamente per Amore di Gesù. Sobrietà in ciò che si porta con sé, perché già il modo di presentarsi è messaggio, suggerisce Gesù. Senza beni, senza favori o privilegi. Ricchi unicamente dell’amore di Dio, confidando in sorella provvidenza a tal punto da divenire capaci di lasciar perdere tutte queste cose e considerarle come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo (Fil 4,7ss). È interessante a tale riguardo il fatto che Gesù su questo punto dia un “ordine”, quasi a suggerire che un certo stile di vita non lo metti in atto se non ti è chiesto per obbedienza dall’Unico che può chiedere una cosa simile.
Caratteristica che emerge anche in un altro passo del vangelo: “Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri” (Gv 15,17). È in quest’ottica che va dunque compreso lo stile del cristiano: non perché lo dice il mondo, la TV, la moda… ma perché lo ha detto Gesù: la mia, la nostra scelta si fonda su un atto di obbedienza. E Gesù prima di “dirlo” lo ha vissuto, e questo chiede a quanti accettano di seguirlo. Un dettaglio: anche il fallimento della missione, il non raccogliere applausi è una forma di “povertà” che ci viene chiesta di vivere, fino a divenire capaci di dire: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,7), ricordando che si è inutili non nel senso che non serviamo a nulla, ma che quanto facciamo lo facciamo senza-utile. Per obbedienza e amore di Gesù e degli uomini e donne a cui Lui ci invia.
Libertà: è nell’obbedienza e nella sobrietà si ritrova la libertà. Può sembrare paradossale, tenuto conto che viviamo in un contesto in cui la libertà equivale al far quello che si vuole. Ma in realtà la libertà sta proprio nell’affidarsi al Signore e lasciare che sia Lui a guidare ogni cosa, perché è Lui che ci ha resi liberi dal peccato (Rm 6,22), che è la più grande e subdola delle schiavitù. Una libertà che non affonda le sue motivazioni nel mio star bene, ma nel saper di compiere la volontà di Colui che mi e ci ha scelto e quindi inviato.
Allora non confideremo tanto sui mezzi, quanto sullo scopo per il quale siamo stati scelti, chiamati e mandati: annunciare il Regno, crescere e far crescere a una misura alta della vita. Per il resto… sarà Lui a provvedere a quanto serve: “Non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo…osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone vestiva come uno di loro” (cfr Mt 6,25-26); “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,29). I discepoli sanno che Gesù stesso provvederà (Gn 22,8); . Come un tempo Dio ha nutrito il popolo con la manna nel deserto (Es 16), così oggi continua a moltiplicare il pane quando serve (cfr Mc 8) fino a farsi Lui stesso pane di vita per noi (Gv 6,48).
Amicizia: non si può “predicare” l’amore vicendevole se non lo si mostra con la vita. Non si può predicare la fraternità, la collaborazione vicendevole se prima non si vive questa esperienza. In quell’essere inviati “a due a due” c’è l’impegno di mostrare con la vita, prima che con la parola, la gioia della comunione, il vivere insieme, l’aiutarsi vicendevolmente.
La gioia di “provare” che il vangelo non è un fatto intimistico e individualistico, ma fraterno e comunitario (cfr “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). Gesù stesso per primo si è fatto nostro Amico per insegnarci a diventare amici (Gv 15,9-17). Questa gioiosa memoria, questo fuoco, questa consa pevolezza di essere amati e quindi scelti e mandati dal Signore Gesù è la ragione ultima di ogni mia e nostra scelta, è la ragione ultima della mia e nostra obbedienza: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 4,29).
Per gentile concessione di don Andrea Vena. Canale YouTube.