Continua la lettura del vangelo di Marco e riprende lì dov’era stata sospesa domenica scorsa, quando Gesù lasciava Cafarnao per andare a predicare da altre parti. Il testo evangelico, come ogni domenica, viene preparato/inquadrato dalla prima lettura, oggi tratta dal libro del Levitico: Mosè e Aronne comunicano le norme da adottare nei confronti dei lebbrosi, a salvaguardia della salute del popolo, per evitare la diffusione del contagio.
Un lebbroso era dunque una persona inavvicinabile e per questo allontanata dalla famiglia e dalla comunità: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo… una macchia che fa sospettare una piaga di lebbra… porterà vesti strappate, capo scoperto… e griderà: “Impuro! Impuro!… e abiterà fuori dell’accampamento».
Tale disciplina era dettata per preservare la salute della Comunità, come avviene oggi per coloro che vengono messi in isolamento; ma purtroppo un’arbitraria interpretazione, arriverà a far credere che la lebbra fosse il segno del castigo di Dio per aver commesso dei peccati gravi: questo porterà ad escludere il malato non solo dalla vita sociale, ma anche religiosa. Una vera maledizione! Solo a guarigione avvenuta e certificata da parte del sacerdote, la persona poteva essere riammessa nella Comunità e alla partecipazione al culto.
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Due sono le storie, riportate nell’Antico Testamento, che riguardano la guarigione dalla lebbra: quella di Mosè che guarisce la sorella Maria (Nm 12,1-10; Nm 12,4-16), e quella di Naaman il Siro che, su richiesta di Eliseo, va a bagnarsi al Giordano (2Re 5,8-14). Il testo che la liturgia oggi ci fa incontrare è l’unico esempio di guarigione dalla lebbra che troviamo nel vangelo di Marco.
v. 40: «Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava… Se vuoi, puoi purificarmi»: Un uomo lebbroso. Come abbiamo avuto modo di cogliere nel libro del Levitico, chi era affetto da lebbra veniva escluso. Cerchiamo di capire le esclusioni: dalla sfera fisica, in quanto il suo corpo viene sfigurato dalla malattia; dalla sfera familiare, affettiva e sessuale, perché ogni contatto con altri è escluso; dalla sfera sociale, perché allontanato dalla vita sociale e lavorativa; dalla sfera psicologica, perché giudicato colpevole di peccato; dalla sfera religiosa, perché escluso dalla vita liturgica. Il libro dei Numeri arriva a dire che un lebbroso «E’ come uno a cui suo padre ha sputato in faccia» (Nm 12,14). Un morto vivente!
Quest’uomo, venendo meno alle “norme” previste (stare a distanza e gridare “impuro, impuro”, prima lettura), si avvicina e con incrollabile fiducia si affida a Gesù e nella sua preghiera mostra tutta la sua fede (testo che richiama la parabola del fariseo e del pubblicano al tempio, cfr Lc 18,13ss: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”… questi tornerà a casa sua giustificato. Cfr Sal 141 “Signore, a te grido, accorri in mio aiuto…; 142 “Con la mia voce grido aiuto, davanti a lui effondo il mio lamento… sfogo la mia angoscia… grido a Te, sei tu il mio rifugio… ascolta, ho toccato il fondo… strappa dal carcere la mia vita…”).
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v. 41: «Ne ebbe compassione, tese la mano e lo toccò, e gli disse: Lo voglio, sii purificato»: Gesù non solo non lo allontana, ma con le sue azioni passa dalla «regola» (creata dagli uomini) alla «compassione» (lo stile di Dio) La regola diceva di stare lontani: Gesù – mosso da compassione (cfr Lc 10,35, come col buon samaritano) – gli si fa vicino. E ancor più tende la mano e lo tocca: «Lo voglio, sii purificato» (cfr Gn 1,3ss: “Dio disse… e fu”). Quest’uomo è toccato prima di essere guarito: è «toccato» povero/«lebbroso», ed è guarito, esperienza che porta a dire: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato»”(Lc 4,21). Oggi, qui ed ora. Perché Gesù, come si è evidenziato due domeniche fa, agisce con autorità, come uno che fa quello che dice, dice quello che è, è quello che dice. E’ un’esperienza che ricorda le parole di Isaia: «Si è caricato delle nostre sofferenze» (Is 53,4). Ma non solo.
Quel provare «compassione» è anche una «denuncia» di fronte a una situazione non più accettabile, che non corrispondente al piano di Dio, il quale mai ha allontanato un uomo per la sua condizione di “malato di lebbra”. Gesù fa capire che la vera impurità non è nella lebbra, ma sta nel cuore: «Dal di dentro, dal cuore degli uomini, escono i propositi malvagi…» (Mc 7,20-23; Mc 7,20-23; cfr Mc 7,1ss “Voi osservate le tradizioni degli uomini trascurando il comandamento di Dio… annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi”).
Segni e parole che ribadiscono che “Dio si è fatto vicino” non a parole, ma nell’uomo Gesù (Mc 1,14), Parola fatta carne (cfr Gv 1,1ss). Questo “segno di guarigione”, inoltre, figurava tra i segni dai quali riconoscere i tempi nuovi (come si coglie nella risposta di Gesù agli inviati di Giovanni Battista: “Andate a dire a Giovanni: i ciechi riacquistano la vista… i lebbrosi sono purificati” cfr Mt 11,1-5). In questo modo Gesù dichiara la sua identità: la sta svelando non con titoli o a parole, ma con i “segni” che accompagnano la sua Parola.
v. 44: «Mostrati al sacerdote…»:
quanti guarivano, dovevano andare dal sacerdote che verificava che questo fosse realmente avvenuto ricevendo così il permesso di essere nuovamente accolto nella Comunità (cfr Lv 14,1-9ss). Indirizzando il lebbroso dal sacerdote, Gesù dimostra di non essere venuto ad abolire la legge, ma a darle compimento, a riportarla nel suo giusto alveo (Mt 5,17).
v. 45: «Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto»:
quest’uomo trasgredisce l’ordine di tacere (il vangelo odierno è una continua trasgressione alla legge!) e va a “proclamare” la notizia (“la pietra scartata diventa testata d’angolo”, Is 53,3-5; sal 142 “Ascolta, strappa dal carcere la mia vita, perché io renda grazie al tuo nome”). Quest’uomo capisce che ormai non è più il sacerdote del Tempio a dover certificare la sua guarigione, perché ha trovato in Gesù non solo Colui che “certifica”, ma ancor più Colui che guarisce. E questa “gioiosa novità” la proclama.
Il verbo “proclamare” è quello usato per indicare l’annuncio del vangelo. In questo modo l’evangelista Marco indica che il lebbroso guarito è simbolo del missionario della buona notizia: “Guai a me se non annuncio il vangelo” (1Cor 9,16), e così deve e dovrà essere per quanti saranno guariti, per quanti faranno esperienza della guarigione di Gesù. Inoltre, nel suo entrare subito in città, quest’uomo vuole “riprendersi” quanto gli è stato sottratto, ossia la “relazione”, la “socialità” dopo tanto tempo di isolamento.
v. 45b: “…non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori…”: interessante notare che il “lebbroso” può ora entrare in città, e Gesù si ritrova costretto a rimanere fuori. In questo suo farsi carico, Lui non solo garantisce “oggi” al lebbroso di poter entrare in città – dimensione umana/familiare/sociale -, ma nello stesso tempo suggerisce che ora egli ha diritto di entrare in “relazione” con Dio, quella dimensione religiosa dalla quale la triste e soffocante interpretazione della legge era arrivata ad escludere il “lebbroso”.
Questa esperienza di “liberazione” e di “salvezza”, si trasforma in “beatitudine”, che si fa canto nelle parole del salmo che la liturgia ha scelto a risposta di questa Parola: “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato… Confesserò al Signore le mie iniquità, e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato”. Esperienza che ritroviamo nel Magnificat di Maria: “…ha guardato l’umiltà della sua serva… ha disperso i superbi… ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati…ha soccorso Israele” (Lc 1,46ss).
Anche noi siamo affetti dalla lebbra del risentimento, della fragilità, del pessimismo, del peccato… situazioni che spesso ci isolano. Guardando a quest’uomo, siamo invitati a trovare il coraggio di osare, di imparare a tornare a relazionarci col Signore Gesù, prima che l’isolamento ci schiacci. Lasciamoci toccare dalla grazia del Signore, superando paura o vergono: Gesù è Amore misericordioso del Padre. Lasciamoci toccare dalla sua grazia, pensiamo solo al sacramento della riconciliazione che ci purifica e ci salva.
Questa è la via per riuscire a guardarsi in modo nuovo, più libero. Per evitare cioè l’autocommiserazione, il piangersi addosso, e puntare invece al dialogo: «Guariscimi, Gesù!». Come a dire: «Se ti sto a cuore , aiutami a iniziare un cammino di vita, di guarigione». Un’azione che chiede di nascere nella preghiera, ma anche di tradursi nella relazione con gli altri per recuperare la freschezza e la gioia della vita. Accettare di lasciarsi “toccare” come domenica scorsa ha fatto la suocera di Simone: un «tocco», quello di Gesù, che rimanda all’atto creativo. Gesù è che Colui che salva, colui che toccandoti ti fa «rialzare», cioè risorgere dalla tua condizione, perché la compassione di Gesù non lascia nessuno abbandonato alla solitudine e all’isolamento.
C’è un dettaglio che abbiamo appena accennato: l’uomo lebbroso, guarito, può rientrare in città, e Gesù non può farlo: Gesù si fa carico della sofferenza, si lascia compromettere pur di guarire, e lo farà in modo pieno portando su di sé ogni «lebbra» fino in Croce, pur di guarire l’umanità. E salvarla. Seguire Gesù chiede di lasciarsi «rialzare», «risorgere» per divenire a nostra volta testimoni, annunciatori, narratori della lieta notizia. Stare dietro a Gesù chiede d’imparare a vivere da risorti, lieti di aver fatto esperienza della misericordia di Dio. Concetto che ritroviamo anche nella preghiera del Padre nostro: «Liberaci dal male» (Mt 6,13), sapendolo fare con fiducia, perché Lui sa già tutto di me (cfr Sal 139: “Tu mi scruti e mi conosci…”).
Per gentile concessione di don Andrea Vena. Canale YouTube.