don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 6 Settembre 2020

Mi scoppierebbe il cuore

Vorrei imparare a vivere come la sentinella di Ezechiele: attento, sempre.

Ma non vigile contro i nemici. Non come una sentinella di quelle che tengono lontano i pericoli armando gli occhi e gridando allarmi. No, vorrei imparare a essere un uomo attento prima di tutto al suono delle Sue labbra “quando sentirai dalla mia bocca una parola”. Un uomo coraggioso, capace di perdere tutto pur di non perdere la verità “tu dovrai avvertirli da parte mia”.

Come vorrei essere come la sentinella di Ezechiele, che non è una sentinella impaurita dalla vita, non una che guarda l’orizzonte per chiudersi in difesa e non permettere invasioni… ma uomo coraggioso prima di tutto con se stesso: che anche la sorte del malvagio incide nella sua storia “della morte sua io domanderò conto a me”. Versetto terribile e coraggioso, vero profilo del profeta: non solo un portatore di avvertimenti divini ma corpo che si assume il rischio di entrare in relazione con il male, perché la vita non la si cambia condannandola ma assumendola. Una sentinella attenta e disponibile a compromettersi.

Non sono preoccupato per la mancanza di gente tra le mura della chiesa, quello in fondo è un segno anche buono, sono preoccupato per la vita dura in assenza di sentinelle, sono preoccupato di non farcela a camminare fino al cuore profondo della Parola, perché non bastano i maestri serve qualcuno che si prenda cura di me e che sia disposto a condividere il mio destino. Sono preoccupato perché se non trovo profeti veri, gente che si lascia compromettere dalla mia miseria io del Vangelo sentirò sempre un sapore lontano, un vago profumo rassicurante.

Come vorrei che rimanesse solo l’amore, adesso, solo la Carità. Solo la forza che feconda la vita. Sogni del paradiso che sarà. Ma forse almeno si può ripetere intanto, senza aggiungere niente, con Paolo (seconda lettura), che se non danza l’amore dentro le leggi che reggono il mondo a nulla vale appellarsi al diritto. Che unico nostro diritto è di essere amati, e ugual cosa nel conto dei doveri. Come vorrei che tutta l’impalcatura si svelasse per quel che deve essere: un grande immenso pretesto. Ogni cosa è un pretesto, ogni respiro, ogni inchino, ogni lacrima, ogni cammino. Ogni oggetto di questa stanza, ogni libro, ogni poesia, ogni incubo, ogni dolore. Ogni utensile della cucina, ogni pagina del vangelo, ogni ramo di questo bosco che chiede di essere guardato oltre l’orizzonte del mio computer, ogni goccia di questa pioggia estiva e ogni preoccupazione che non smette di torturare il cuore. E anche la Legge sì, perfino la legge, che ceda finalmente l’abito del comandamento e si sveli per quello che è: un pretesto per amare, per sentirsi responsabili della felicità di ogni uomo. E se la la legge non porta a gesti concreti di custodia di ogni vivente sia la legge stessa a cambiare, per amore, perché solo l’amore è compromettente. Una Chiesa che si converta alla carità, che cambi per amare, per non aver altro debito se non “l’amore vicendevole”.

Come vorrei imparare a chiamare fratello, a sentire fratello ogni persona che commetterà una colpa contro di me. Perché il primo modo per smascherare il male e impedirgli di inventare nomi nuovi, i nomi uccidono come lame affilate: che la colpa non ci trasformi in nemici. Il primo gesto profetico della sentinella è sentire fratello soprattutto chi compie il male, è sentirsi parte del grande universo, sentirsi un corpo solo con gli uomini, gli animali, le piante e l’aria. E se il male colpisce a qualsiasi livello sentirsi feriti. Come fratelli. Essere immersi in una specie di compassione cosmica.

E allora zitto, imparare a piangere se il volto della vita è sfregiato, evitare di assumere con orgoglio mascherato di dolore il ruolo della vittima, sentirsi se non colpevole almeno responsabile di far parte di un mondo che si scorda di essere solo il pretesto per mostrare il volto dell’amore.

E non cogliere mai l’occasione per la vendetta, mai. Se qualcuno mi fa del male è doppiamente colpevole usare lo stesso odio per alimentare fuochi vendicativi. Anche se sono vittima giusto sarà non parlarne con nessuno così da tenere a bada l’onda di risentimento. Oppure parlarne direttamente solo con chi mi ha fatto male. Ma parlarne solo se in cuore lo si considera ancora davvero fratello.  Che cessino le prediche di chi non soffre con il carnefice. Se l’altro non lo amo, se non mi sento sentinella compassionevole della sua storia devo stare muto, per sempre. Ogni parola mi trasformerebbe in carnefice.

E se invece gli parlo e lui ancora non mi ascolta ecco la prima impresa a cui sono chiamato, perché io, la parte lesa, sono il soggetto di questo movimento di riconciliazione (magnifico il vangelo, del colpevole non dice nulla!), io dovrò cercare due o tre testimoni. Testimoni dell’amore. Profeti compassionevoli. E io sono sicuro che se dovessi trovarli, se riuscissi a trovare due o tre persone che sanno testimoniare amore vero, tre persone capaci di ascoltare il dramma mio e di chi mi ha fatto male con sincera compassione io sono sicuro che la mia vita sarebbe già cambiata. E ringrazierei chi mi ha fatto del male per la possibilità che mi ha dato di conoscere tre persone capaci di danzare l’amore.

E se non bastassero tre testimoni ecco l’utopia di Gesù: rivolgersi alla Comunità. Ma una Comunità, una Chiesa capace di verità e di compassione, che non giudica, che sente si sente responsabile del dolore, che non finge, che non ha paura di dire la verità e di mostrarsi complice del male, che non ha paura di perdere la faccia, che si fa carico della felicità dei suoi figli, che non miete più vittime, che si sente responsabile anche di me.

Ecco, se trovassi una Comunità così, anche solo per un istante, mi scoppierebbe il cuore di gioia, avrei conosciuto il Vangelo e correrei ad abbracciare il fratello che, facendomi del male, mi ha portato a vivere la possibilità concreta del Vangelo.


AUTORE: don Alessandro Dehò
FONTE: Sito personale
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