don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 5 Novembre 2023

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E invece me la porto ancora dentro quella maledetta cattedra, e lì continuo a far sedere le mie insicurezze che, con arroganza, dispensano implacabilmente giudizi.

Lo scriba non muore, il fariseo rialza continuamente la testa, così mi capita sempre di vederli fuori da me, li riconosco in una chiesa che vorrei diversa, in una società che non sopporto più, nelle trame di istituzioni che mi sembrano terribilmente vuote. E giudico. Li vedo bene gli atteggiamenti degli scribi, riconosco la pesantezza falsa dei farisei e mi dimentico sempre che è tutto solo un gioco di specchi, nei miei occhi vedo riflesso me stesso. Riuscirò mai a liberarmi della parte di me ipocrita e paurosa? Riuscirò mai a smettere di dire senza fare, riuscirò mai a diventare solo silenzio e solo misericordia e solo sguardo libero sulla storia? Riuscirò mai a scomparire davvero?

Slegare il fardello del senso di colpa, forse bisogna ripartire da lì. Togliere dalle spalle il peso di credere a un Dio giudicante quando gli unici a giudicare siamo sempre e solo noi, togliere l’idea che per essere salvi bisogna essere cristiani impegnati, uomini e donne che studiano, che si informano, che moltiplicano sinodali riunioni. Togliere dalle spalle il peso di una morale esigente e staccata dalla persona, dalla sua storia, da ciò che concretamente può fare. T

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ogliere dalle spalle le attese, le pretese, che causano solo sensi di inferiorità. Scrollarsi di dosso la convinzione di non essere sati all’altezza delle attese dei nostri padri, o farse fare proprio a pezzi le attese, non attendersi nulla, nemmeno da se stessi, semplicemente vivere, liberi e leggeri, aggrappati alle spalle del Cristo, noi sua croce sulla quale si è eternamente inchiodato, noi suo peso, sua condanna, suo amore.

E smettere di usare la gente, smettere di credere che esista “la gente”. No, tanto non c’è nulla da ammirare lo sappiamo, nulla da imitare, nulla da invidiare, nulla da emulare, non c’è nulla, nulla di nulla, non c’è niente qui, se non la curiosità di poter sentire il soffio lieve del passaggio di Dio, magari dalla cima del sicomoro, senza farsi vedere, stupiti che lui entri in casa senza che noi si faccia nulla, stupiti che la teologia raffinata si appoggi sulle labbra di peccatori, stupiti che i baci delle prostitute e il pianto amaro del fallito divengano ostentatamente ostensorio dell’Infinito.

La vita continua a strappare i filatteri della mia arroganza, non c’è nulla da misurare, occorre vivere solo con la gratuità ingenua di chi, stupito, ringrazia di essere ancora vivo. Delle frange il tempo farà scalpo, sono nudo davanti a te, non ho nulla da darti, nulla da chiedere, nulla da dimostrare, nulla da costruire, nemmeno figli da proteggere, mi hai strappato tutto e io mi sono lasciato depredare, anche la religione non c’è più, non rimane niente se non questa mia patetica inutilità che pigola misericordia. A te decidere se questo possa bastare a dare senso alla vita, io che sognavo grandi rivoluzioni, io non lo so, rimango qui senza paramenti e senza coperture. Sono solo una domanda scarnificata dalla storia.

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Mangiare spezzando il pane con chiunque, guardare il mondo con l’ingenuità di un bambino, non vedere, non ricordare, non farsi scandalizzare dai banchetti e dai posti assegnati, ridere, solo ridere di tutto questo. Sentire sincera misericordia verso chi si illude di essere felice solo per essere invitato al primo posto, respirare il mondo e vedere negli alberi le colonne del tempio, nelle pietre i seggi delle sinagoghe, nei tronchi rovesciati gli altari del sacrificio e celebrare il rito della vita inchinandosi ad ogni vivente, salutare tutti, nelle piazze, sui sentieri, nei boschi, salutare gli animali, le piante, le nuvole, salutare il vento, il silenzio, il sole, la pioggia. Ridere dei maestri, perdonarli se ci hanno fatto male, ridere, ridere di gusto se qualcuno credere di potermi chiedere qualcosa, e riuscire finalmente a prendermi in giro, a ridere di me, a ridere del mondo, a ridere di gusto per ogni tentativo di insegnarla la vita, che va solo vissuta e respirata e venerata.

Uno solo è il padre, quello celeste, e lui solo ho visto, lui solo ho riconosciuto, lui solo ho amato quando il mio di padre, quello terrestre, mi ha consegnato l’essenza della Verità, una vita benedetta nonostante tutto, una consegna e un arrivederci, prima di diventare Celeste. E nessuna guida, mai più, solo il Cristo e provare ancora a fargli spazio, a fargli posto.

Imparerò la vita solo dai servi e dagli umili, perché alla vita non va comandato niente, perché bisogna ascoltarla la vita, e prenderla così come viene e sapere che, umilmente, noi non possiamo far altro che aspettare, non possiamo far altro che lasciarci prendere, e lasciarci salvare.

Per gentile concessione dell’autore don Alessandro Dehòpagina Facebook

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