Che tu te ne sia andato lasciandomi tra le dita solo polvere di una promessa di ritorno, che tu sia sempre e per sempre il mio padrone e io cocciutamente il tuo servo stanco, che io non faccia altro che vegliare, scostare le tende dell’apparente conosciuto, spolpare ogni amicizia per leccarne l’osso e saggiarne la consistenza divina, che io non faccia altro che torturare ogni parola, disinnescare ogni illusione, minacciare ogni risposta, senza illudermi più, senza illudermi mai, che nessuna cosa che accade potrà mai riempirmi, che io corra il rischio di sembrare cinico rispetto a una società che non può cambiare perché non lo vuole, a una chiesa che vorrebbe cambiare ma non può (a patto di non trafiggersi mortalmente per amore), che io non veda più in ogni notte che mi scava la carne del cuore una minaccia ma sempre e solo una possibilità , che io creda che l’unica arma per costringerti a tornare sia di azzannare il lembo del tuo mantello come un cane. Che tutto questo accada ogni giorno, tu lo sai, non mi mette al sicuro da me.
Che io ancora non sappia quando tu tornerai, e neppure lo voglia sapere, così da poter continuare a torturare il senso di ogni sera, di ogni scoccare di mezzanotte, di ogni canto del gallo, di ogni mattina per fargli confessare Te, mio atteso improvviso definitivo destino, affilato come lama, a ghigliottinare finalmente le mie giornate. Neppure questo basta a mettermi al sicuro da me e dalle mie debolezze.
Ma chiamarti redentore, perché solo tu puoi venire a difendermi da me, quando mi accuso di averla sprecata la vita, quando mi trovo a non amare i margini amari dell’inutilità , quando non mi sento capace di fare niente e lascio scorrere ogni istante godendo della sua definitività .
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E camminare lontano dalle tue vie solo per il gusto di vederti dietro di me, goffo, affamato, stremato, per riportarmi a casa, divinitĂ randagia per amore.
E vederti ritornare sempre, sempre e solo in nome di quell’amore che solo in te cessa di essere vago sentimento per diventare linfa e sangue e materia vivente.
E guardare il cielo implorando che si strappi, così da smascherare in una pioggia apocalittica di stelle tutte le teorie che come scialle di illusioni tentano di nascondere i miei peccati.
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E sentire il sussulto dei monti, veder trasalire le rocce, spaccare le lastre dei sepolcri e sbriciolare i marmi e vedere se finalmente potrò mettere i miei occhi piangenti negli occhi dei morti.
E sostenere nelle cose terribili la tua presenza e non cercare colpevoli ma salvatori, e ricordare che io, proprio io, piĂą volte, ho giurato di averti visto e sentito e perfino parlato. Io, proprio io, in una continua tortura di testimonianze, costretto ad ammetterti presente a me piĂą di quanto lo sia stato io a me stesso.
E riconoscere che sei nel cuore dei giusti piĂą che in quello dei saccenti, dei buoni piĂą che in quello dei teologi, dei miti piĂą che in quello dei predicatori, dei matti piĂą che in quello degli intellettuali.
E sorridere di te che ancora sai arrabbiarti perché proprio non riesci a comprendere come mai ci allontaniamo ancora da te e ci ribelliamo alla possibilità rivoluzionaria di essere divini. Tu che ingenuamente sembra non voglia accettare la nostra bassezza.
E tornare sempre a te che ti ostini a voler fasciare le ferite del creato con il panno immondo delle nostre promesse vuote. Tu che sembri non voler accettare che siamo solo foglie che il vento finalmente spazzerĂ via.
E così godere, ancora, sempre più stupito di te, che non smetti di sopportare la mia impertinenza di pover’uomo che sa solo battere forsennatamente su una tastiera i suoi dubbi, che emette sempre la stessa melodia noiosa e muta che non partorisce spartito. Mentre tu sinfoneggi il tuo amore.
Ma così proprio tu mi concedi ancora di potermi risvegliare, nel pieno della notte, solo per potermi stringere a te, io povera argilla in cerca di una forma, e di mani che sappiano sognarla, e arriverà , te lo prometto, il girono in cui tutto questo mi basterà .
Per gentile concessione dell’autore don Alessandro Dehò – pagina Facebook
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