don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 28 Agosto 2022

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Istrice

Ho visto un istrice nel mio orto. Era notte, Dulcinea abbaiava e io non sapevo cosa fare, mi stava devastando gli ortaggi, guardavo gli aculei e il suo incedere buffo ma impietoso, ero impietrito dalla sua bellezza. Era riuscita a penetrare scavando sotto la recinzione. Anche io ero in gabbia, per proteggere Dulcinea ho dovuto recintare un pezzo di casa, ci guardavamo, da oltre le reti, ognuno recluso nel suo pezzo di mondo protetto. Nel cuore della notte, sul limitare del bosco, un istrice mi faceva sentire, ancora una volta, clandestino del mondo, ospite e non padrone.

Ho cercato per anni il mio posto, come l’istrice ho scavato con forza e precisione, sono penetrato in recinti che da fuori parevano orti paradisiaci, ho cercato il mio posto, credevo di averlo trovato, ho mangiato la radice degli ortaggi, ho mangiato fino all’ultima foglia, poi mi son sentito in gabbia, intrappolato e affamato. Scappavo quindi, come istrice nella notte, tornavo a essere clandestino.

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Riempie la vita avere un orto da assaltare, l’obiettivo, uno spazio da abitare, convincersi che la felicità piena abiti oltre la recinzione. Che basta entrarci per sfamarsi. L’istinto si fa sentire ancora. A volte la fame muove insane nostalgie. Rimettersi a scavare per trovare il proprio posto, per far sapere al mondo che si è conquistato un orto, e che lo si difenderà contro tutti e contro tutto. E non accorgersi che siamo noi i predatori dei nostri paradisi, i vandali dei nostri desideri. Alla fine rimane solo un terreno spolpato, torna la fame e si rimane soli, in gabbia. E ci tocca scappare un’altra volta.

I farisei scavavano all’attacco dei primi posti, oltrepassavano la rete e guardavano Gesù con occhi appuntiti come aculei, dove si sarebbe messo lui, quale posto avrebbe scelto? Perché ognuno, pensavano, alla fine, deve trovare il proprio posto, deve svelare i propri progetti. Gesù si accorge di quegli sguardi… occhi di chi è in gabbia ma si sente libero, schiavo delle posizioni da predare e poi difendere.

No, non è solo questione di carriera, ho visto preti rivestirsi di una parvenza d’umiltà a cercare con insistenza di occupare l’ultimo posto, volevano essere sempre i primi tra gli ultimi, sempre schiavi di classifiche e gabbie. Io stesso ho cercato i primi posti tra gli ultimi, io stesso ho falsificato le carte, io stesso ho chiamato obbedienza il bisogno di primeggiare. Confesso le mie colpe ma per favore non considerate innocenti i sistemi (anche ecclesiastici) che abbiamo costruito.

Gesù guarda i farisei, guarda i nostri occhi e svela con candore che la domanda dei posti da occupare semplicemente non ha senso, non siamo al mondo per trovare il nostro posto. Perché qui non è il nostro posto. Non lo sarà mai. Ci sarà sempre un istrice a devastare i nostri sogni. Per nostra fortuna.

L’istrice mi guarda, dopo aver deturpato, dopo aver lasciato dietro di sé gli avanzi di quello che ai miei occhi sembra puro atto vandalico, l’istrice mi guarda e io mi sento clandestino del mondo notturno del bosco. Non è il mio posto, ha ragione lei. Hanno ragione i cinghiali, i tassi, le volpi, i caprioli, anche il lupo che non ho mai visto ma che c’è, anche lui ha ragione e devo ricordarmelo. Anche quando con il piccone e la rete metallica tornerò ad aumentare le mie difese, hanno ragione loro, io faccio quello che posso, mi difendo, ma finalmente comprendo che qui non è il mio posto. Qui sarò sempre clandestino. Al mondo intendo, nel mondo dei vivi.

Ci ho messo tanto a comprenderlo, ci sono voluti anni ed eventi che io non ho scelto, accadimenti che al massimo ho provato ad addomesticare, io frutto di inattese conseguenze che non sono mai riuscito del tutto a decifrare. Ora sento che non sono qui, in questo orlo di bosco, perché questo sia il mio posto, non esiste un posto, io non sono il primo e non sono qui perché sono l’ultimo. Crocetta è il mio vuoto. Quando ho scelto ormai tre anni fa di cambiare aria e venire qui avevo sogni e progetti molto diversi dalla vita che sto vivendo. Ero venuto per fare, per costruire, per proporre, per mostrare i miei talenti. Sarei finito ancora una volta come l’istrice, avrei sbranato i frutti e mi sarei trovato in trappola, imprigionato dalle mie stesse mani.

Sono stato uno stupido a credere che potesse esistere nella vita un posto giusto da abitare, non esiste e non serve scappare per trovarlo, esiste però uno spazio esistenziale, una condizione in cui smettiamo di cercare e iniziamo ad ascoltare: “amico, vieni più avanti”, solo questo conta, smettere di cercare un posto, smettere di voler essere valorizzato e vivere solo per essere chiamato “amico” dal Signore. Crocetta non è il posto giusto, Crocetta è un deserto, una condizione perenne di purificazione, di mortificazione. Per questo non riuscirei a vivere altrove. E se ve ne parlo ancora mi scuserete ma è perché, sono sicuro, ognuno ha la sua Crocetta da trovare.

“Non invitare (…) per avere il contraccambio”, l’altro giorno parlavo con un amico prete, sono sempre momenti preziosi, mi servono per non ridurre tutto il mondo al frammento che vivo, mi serve per non dimenticare da dove arrivo. Parlavamo di parrocchia e di giovani, di preoccupazione, di messe disertate e di nostalgici ricordi di quando le nostre comunità erano vive. Ascoltavo e comprendevo. Davvero comprendevo la fatica e lo smarrimento per un mondo che non si riconosce più. Ma in me saliva anche una profonda gratitudine… io ho la fortuna di vivere in un posto dove non ho strutture da riempire. E se fosse questo il valore intimo del Vangelo? Se questo tracollo delle strutture servisse solo per farci smettere di chiedere il contraccambio, anche solo il contraccambio di vedere le nostre comunità abitate da giovani felici e impegnati? Smettere di sperare che i giovani (ma non solo loro) vengano a occupare i posti che noi vogliamo riservargli. Invece riconoscere la vita che accade, che accade dove sceglie di accadere, e ringraziare, e lasciare andare. E continuare a vivere i nostri deserti vivificanti di mortificazione. Che sia una famiglia, una parrocchia o una casa nel bosco basta che sia un Vuoto dove di vive senza cercare mai il contraccambio. Basta che sia deserto, basta che serva per lasciar andare, per lasciarci morire di vita.

E poveri, storpi, zoppi, ciechi. Solo questo. Sentire che il Risorto, sì proprio lui, in un rapporto personale e intimo, lui chiama amica la mia povertà, la mia imbarazzante inutilità. Lui chiama amico il mio cuore storpio e il mio incedere zoppo. Lui mi chiama amico, anche quando, da cieco, mi ritrovo a scavare sotto la recinzione dell’ennesima illusione che mi porterebbe in trappola. Lui mi chiama amico.

Non credo esista un posto giusto da guadagnare, esiste invece un deserto da attraversare e un Vuoto da abitare, e Lui, l’amico, da riconoscere, lui da cui farsi salvare.

AUTORE: don Alessandro Dehòpagina Facebook

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