don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 26 Aprile 2020

Riconoscere. Non “credere” o “vedere”. La fede è un atto di “riconoscimento”.

Non è facile.

Non puoi mostrare niente se non il passato. Ferite comprese. GesĂą non apre finestre sul paradiso, GesĂą lascia entrare luce sul passato attraverso le ferite.

In fondo sarebbe stato più semplice credere in un Risorto da cercare Altrove. “Andrà tutto bene”, mi sento ripetere, ma non funziona così per la fede, la fede è riconoscere la sua presenza, il suo passaggio nel cammino degli uomini. Cammino quasi sempre faticoso. Eppure visitato. Lui è Colui che ha attraversato e continua ad attraversare la mia storia. Senza risolverla.

Smettete di interrogarvi sul futuro della chiesa, vi prego, non mi importa niente se tutto tornerà come prima oppure no, se la fede smetterà di essere virtuale, se i laici troveranno maggior spazio, non mi importa niente. Io voglio riconoscerlo ora. Nella piazza vuota di San Pietro. O lo riconosci anche lì (soprattutto lì) oppure crediamo in un Dio diverso.

Fede non è gettare il cuore oltre l’ostacolo, sperare nel paradiso. Fede è atto di coraggio. E di memoria. Tornare da capo, rientrare nella vita e scoprire che Lui è passato da lì. Anche se non lo immaginavamo così. Anche se non lo vogliamo così, anche se sentiamo che quel volto di Cristo sofferente e appassionato degli uomini non ci porterà lontano. Anche se è fare memoria di un fallimento. Inutile fingere.

Anche se, quando lui c’era, noi siamo scappati. Perché il divino non è per niente consolatorio. E reggere il Suo volto è anche terribile. Per favore smettete di parlarmi dell’amore come di qualcosa che rende facile la vita. Lo sappiamo tutti che dall’amore spesso scappiamo, perché l’amore espone e fa paura.

“Allora si aprirono loro gli occhi”, mi vengono in mente Adamo ed Eva, si aprirono loro gli occhi e scoprirono di essere nudi. E il paradiso si chiude. Ecco credo che la fede sia esattamente questo. Scoprire di essere nudi. E che nudo è pure Dio.

Per favore basta rivestire quel corpo esposto in croce di paramenti di ogni sorta per coprirne lo scandalo. Lasciate che a mettere il mantello a Cristo siano i soldati, per prenderlo in giro. Chi lo riduce a essere un re potente secondo le nostre logiche, chi usa la religione per il potere prende il giro Cristo e prende in giro se stesso.

Fede sono occhi che si aprono al dramma della nudità. Credere è come fare l’amore, bisogna essere nudi ed esposti. Ed essere disposti al dolore. Della consegna. Totale.

Riconoscerlo in quel gesto di pane spezzato e in quella benedizione piovuta su cuori impauriti e traditori. Riconoscerlo grazie a un cuore che ricomincia a battere, che “arde nel petto”, un fuoco, unico gesto degno di fiducia. Ai cuori tiepidi, a chi finge innamoramenti, a chi parla del Signore con gergo da burocrate, a chi tiene nel cuore la sete di potere, a chi non sa piangere, a chi non sa gioire, a chi non si arrabbia, a chi è sempre in controllo, a chi spiega ogni cosa, a chi non si commuove, a chi mi vuole insegnare come devo rispondere al dolore, a tutti voi, dal cuore spento, vi scongiuro, non parlatemi di Dio, non vi crederei mai. Non vi crederò più.

“Bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria”, chi può reggere la portata di questa frase? “Cuori lenti”, dice Gesù ai due discepoli. Cuori lenti, di quella lentezza che ci prende e ci stringe alla gola quando il dolore decide di inchiodarsi nelle nostre carni. Eppure in quel patire c’è la Sua presenza. In ogni patire. Bisogna passare di lì. E non una volta per sempre. Non come un incidente di percorso. Per favore smettete di dire che ci dimenticheremo di questo dolore. Perché io non voglio dimenticarlo. Anzi, voglio farne memoria. Ma lo capite che l’unica cosa che possiamo dire di Lui è la Sua presenza nel cuore del dolore? Fate questo in memoria di me. E non sta parlando di paradiso ma di carne e pane e vino e sangue. Memoria della croce, memoria dell’amore. Memoria di una cena ultima in cui amore e morte non sono mai state tanto vicine. Memoria di quando lui era con noi e noi non l’abbiamo riconosciuto. memoria di quando lui è con noi, con me, adesso, e io voglio scappare. I due di Emmaus non lo riconoscono a Emmaus, lo riconoscono nella memoria dell’Ultima Cena. Dove chi ama davvero, forse chi ha capito davvero, è stato quello che è fuggito. Ed era notte.

E poi un racconto, all’inizio di tutto un grande racconto. Uno di quelli che ti vien voglia di ascoltare milioni di volte. Tutto inizia sempre con una storia da raccontare, con una storia che mi racconta. Anzi, a leggere bene, tutto inizia con qualcuno che ascolta. Perché prima di tutto Gesù, come sempre, domanda e ascolta. “Cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”. Io non so bene cosa sarà il futuro, non mi appassiona nemmeno più di tanto il destino della pastorale, non mi interessa proprio, non credo ci saranno grandi stravolgimenti. Credo invece che il Risorto si divertirà ad abitare le domande delle persone che hanno voglia di ascoltare, di ascoltare davvero. Cioè di lasciarsi fecondare dalle parole dell’altro, di coloro che hanno voglia di fidarsi dell’altro e di cambiare punto di vista grazie all’altro. Ci sarà una buona parte di chiesa che continuerà a voler spiegare ad ogni uomo come deve comportarsi per ereditare il Regno e ci sarà qualcuno che semplicemente ascolterà con interesse le fatiche della gente. Magari non si sentirà chiesa, ma sarà frammento del Suo volto. Io non so come sarà il futuro ma mi piacerebbe pensare a Crocetta come a uno spazio in cui insieme, seduti uno vicino all’altro proveremo, in silenzio, ad ascoltare… cosa sono questi discorsi che state facendo? Siamo noi. E siamo confusi e bellissimi.


AUTORE: don Alessandro Dehò
FONTE: Sito personale
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