I poeti si fanno contare i capelli del capo? (appunti disordinati)
Amato Padre mio,
davvero tu credi che un giorno si possa smettere di aver paura degli uomini?
Amato Padre mio,
davvero tu credi che si possa smettere, un giorno, di aver terrore di quello che siamo?
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E come si fa? A non aver paura del male, del dolore, del fallimento, del tradimento, della solitudine, della morte di chi amiamo? Come si fa a non aver paura di essere vivi, e di essere troppo amati e delle attese spropositate che ci schiacciano? E della bellezza, amato Padre mio, come si fa a non aver paura della bellezza e del meccanismo misterioso che muove i pianeti e piega il sole ogni sera oltre l’orizzonte? Come si fa a non aver paura che questo nostro povero cuore, un giorno, si spezzi per aver voluto troppo vivere? Come si può non aver paura di aver sbagliato tutto, di aver dilapidato la felicità in nome di sogni di gioventù troppo teneri e pericolosamente ingenui? Come si fa a non temerla la vita? A non aver paura di aver lasciato dietro di sé un cumulo di occasioni sprecate? Come si fa a vivere senza la paura di vivere?
Amato Padre mio,
tu parli di svelamento, come se il reale stesse solo aspettando la mano di una pietosa e coraggiosa Epifania. Dita allungate, sicure, a svelare il cuore intimo e luminoso delle cose. Come quei vecchi silenziosi librai che sfilavano dall’alto di misteriosi scaffali i libri tanto desiderati. Tu parli come se ogni dramma fosse tale perché soffocato da un sudario, dal velo di un tempio che nasconde e impaurisce, come se ciò che immediatamente vediamo non fosse che il velo tetro a camuffare il reale. È per questo che abbiamo paura? Per questa spessa coperta che soffoca l’anima delle cose? Per questo il reale è tale solo se svelato?
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Amato Padre mio,
davvero oltre il velo del dubbio e del terrore, del fallimento e del pianto, davvero saremo affondati di luce quando troveremo il coraggio di svelare dalle apparenti tenebre l’intima anima delle cose? Chissà se gli occhi del Cristo in croce, quegli occhi che hanno saputo vedere una madre e un figlio dove lupi azzannavano le carni, chissà se quegli occhi erano tali perché avevano imparato a svelare la dolce e segreta essenza delle apparenze. Che si può crocifiggere tutto, ma non uno sguardo.
Amato Padre mio,
la paura li fa chiudere gli occhi,
cosa li fa spalancare fino a vedere ogni cosa trasfigurata?
Sarò all’altezza Signore di riconoscere Te anche all’arrivo della mia di morte? Di abbracciare te, dentro la morte? Che la morte sia solo l’ultimo velo da svelare?
Mi sto almeno allenando Signore, in questa selva di parole che sono costretto a seminare ogni settimana, a lasciar andar lo sguardo, a liberarlo, in nome di una inattesa rivelata libertà?
Amato Padre mio,
la paura chiede tane, nascondigli, buche. Ci si sotterra come ad anticipare la morte che si vorrebbe fuggire. Tu invece ci chiedi di esporci, come corpi da crocifiggere, tu ci chiedi di abitarla la luce, rischiando di essere riconosciuti, e di camminare i tetti, come gatti innamorati e sfrontati. Tu ci chiedi di vivere esposti per combattere la paura. Tu ci chiedi di consegnarci al mondo.
E di non aver paura nemmeno di quelli che uccidono il corpo. Perché nemmeno l’assassinio è privo di luce, si può morire svelando luce. E forse anche uccidere si può senza perdere l’intima luce della tua compassione.
E forse è questo che siamo chiamati a imparare ogni giorno. Noi siamo gli assassini di noi stessi, e anche il tempo uccide e la vita così come accade anche lei uccide, non è questo il problema, non è la morte il problema, se stiamo illuminando, solo questo conta. Senza troppa paura.
Voglio essere come i passeri e come le lucertole e come il capriolo elegante e fiero che poco fa mi ha guardato prima di sparire nel bosco, e il piccolo di cinghiale in cerca della madre, voglio essere il rapace che vola stando fermo e la nuvola che passa in questo momento, e il vento che trasforma in mare gli alberi del bosco che vedo da qui, voglio essere la farfalla attratta dalla luce e il mio cane voglio essere, che dorme ai miei piedi, voglio essere dalla parte degli esseri viventi che non si chiedono nemmeno se esista un Dio, perché lo respirano, lo mostrano, gli si affidano ad ogni istante.
Voglio essere un poeta, alla fine, non per scrivere poesie, ma per farmi contare i capelli del capo, questo fanno i poeti, forse, si mettono fermi e stupidi al sole, si fanno contare i capelli del capo da Dio e ringraziano. Come i matti. Che fanno paura solo a chi crede di essere stato messo al mondo per controllare e non per lasciar andare, voglio lasciarmi andare, perché come i passeri ho deciso di fidarmi di quello che fino a un secondo fa chiamavo vuoto. Voglio imparare a volare.
Per gentile concessione dell’autore don Alessandro Dehò – pagina Facebook
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