don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 21 Novembre 2021

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Dimmi la veritĂ  (fa nulla se non sono omelie ma tipo pagine di un romanzo?)

Le mani erano già legate, il destino aveva già giocato le sue ultime carte, ormai non potevo più tornare indietro. Ripensai agli inizi, come se fuggire nel passato potesse essere una ritirata degna. Mi chiesi se ci avessi creduto davvero. Se non era stato tutto un grande equivoco. Ma quei pensieri servirono solo a decretare la mia definitiva solitudine, che io già sapevo. Mi avevano tradito tutti, l’avevo messo in conto. Solo che mi sembrava ingiusto e in fondo mi spiaceva pensarli lontani da me, provavo pena per loro. Certo che l’avevo messo in conto ma, come succede nella vita, saranno le forze che vengono a mancare, le delusioni, sarà che alla fine la morte si mastica ogni nostro desiderio, sarà che ero stanco. E così mi mancavano gli amici e i sogni degli inizi. Non so se avrei rifatto le stesse scelte. Se avrei lottato come ho fatto. Non è che mi sentissi tradito di colpo, tutto era stato chiaro, evidente, fin dall’inizio. Ma finire così, mi sembrava triste e inutile, ecco soprattutto questo.

Nel palazzo rimbombavano i miei passi e perfino le colonne sembravano tramare contro di me, ridevano, ridevano tutti, ma di nascosto, mantenendo una apparente solennità, quella riservata ai sovrani. Ero in trappola, lo ero dall’inizio, una tagliola che mi ero fabbricato io giorno dopo giorno. Non mi fidavo più di nessuno, mi avevano giurato fedeltà e perfino amore e io, io lo conoscevo abbastanza il cuore dell’uomo, non mi fidavo, ma mi serviva crederci, forse solo per arrivare a questo punto.

Non ne valeva la pena? Non lo so, domanda troppo impegnativa, che la vita ha una pena, una diversa, giorno dopo giorno, la mia, almeno, era totale. Avevo messo tutto di me, sacrificato tutto, avevo creduto e sperato, ci avevo voluto credere, mentre gli anni passavano. Scanditi da sangue e illusioni, dubbi e speranze. Forse la mia vita non era diversa da quella di qualsiasi uomo ma io, in quel momento, ero lì, e tutto il mio passato chiedeva solo una parola, l’ultima, mi chiedeva solo il permesso di continuare senza di me. Ci eravamo temporaneamente alleati per arrivare fino a lì, ora io dovevo scendere. Io ero solo una pedina, l’ultimo ingranaggio. Il mondo mi avrebbe abbandonato presto e il regno avrebbe continuato a prosperare, forse anche più di quanto potessi immaginare. Sapere che si sarebbero ricordati di me serviva solo ad acuire la solitudine, io ero lontano da me stesso.

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Gli occhi che accompagnarono il mio ingresso erano affilati come lame, un corridoio acuminato, ad ogni passo lo scattare di una trappola, tramavano la mia fine, mi stavano usando ancora una volta, forse sarebbe stata l’ultima. Ero imprigionato dalla trama ordita delle mie parole e, più ancora, dei miei gesti, quelli di una vita intera, quelli imparati fin da bambino. Obbediente avevo replicato saperi antichi e precisi. Certo ognuno aveva capito quello che voleva, ma faceva parte del gioco, tutti avevano usato per sé. Così funziona, mi dissi. Non giudicavo, capivo e mi smarrivo in una tristezza senza pari.

Tu sei il re dei Giudei?, che domanda idiota, anche quelle parole mi arrivarono da lontano, sapevo confrontarmi solo con i miei simili, i re coni re, i poveri con i poveri, i mentecatti con i mentecatti. Vederla fiorire sulle mie labbra non mi sorprese, confermava il mio essere oltre un punto di non ritorno. Buttai lì quella domanda, inconsciamente cercavo un alleato, e quel Nazareno, potrei giurarlo, era molto più simile a me di quanto si possa credere. Ero in segreta ricerca di qualcuno che potesse condividere la mia stessa pena, che sapesse cosa significa sprofondare nello stesso fallimento.

Lui mi disse che era re. Me lo aspettavo. Anche lui aveva le mani legate, come me. Ed era stato tradito. Dopo essere stato osannato. Anche lui l’avevano usato e ora se ne sbarazzavano. Avrei voluto estrarre un coltello e liberarlo, avrei voluto farlo uscire dal retro e vederlo scappare tra le vie di Gerusalemme e poi saperlo vivo, al sicuro, sperando magari nella sua gratitudine, ma eravamo troppo simili, nessuno dei due voleva davvero slegarsi. Ognuno era schiavo dei propri legami, le corde erano troppo strette, crocifissi entrambi al proprio destino. Amore e potere, non sono forse le stesse facce di un bisogno profondo, non si nutrono della cieca obbedienza, non sono entrambe destinate a finire?

Sei il re dei Giudei? Lui capì subito che non stavo parlando per sentito dire, stavo parlavo di me, parlavo come uno che capiva, eravamo due condannati alla pena capitale da un regime ugualmente autoritario, si ama e si muore, chiamarsi fuori è vivere a lungo certo, ma scendendo a patti con la mediocrità. Nessuno dei due voleva davvero essere sciolto dai lacci. Ci saremmo persi ma andavamo entrambi verso lo stesso epilogo. Anche io sono re, ti capisco, questo gli stavo dicendo.

Lui non mi diede spazio e quindi attaccai, provai a stanarlo, cercai di incolpare il suo mondo, volevo mi ammettesse che i suoi sommi sacerdoti erano uguali ai miei, che il potere di Roma e di Gerusalemme aveva la stessa grammatica di ogni potere, lo volevo alleato, complice, simile.

Lui era davvero re, non perse tempo. Passò oltre. Arrivò a me. La portò sul piano di due che si capiscono, ed era vero, ma lo fece senza cercare colpevoli, se volevo confrontarmi dovevo gettare la maschera: mostrarmi. Nessuno da fuori l’avrebbe mai ammesso ma era lotta tra simili, era un incontro di uguali.

Cosa hai fatto? Lo dissi per spostare l’attenzione, mi stava schiacciando, non avrei retto ancora molto, si stava avvicinando troppo alla parte segreta di me, io sarei crollato. Cosa hai fatto? Come se avesse importanza. Il fare, lo sapevamo, era sempre interpretabile, ognuno può usare a suo vantaggio le azioni fatte e quelle subite. Il fare è solo una maschera che copre l’essere.

Ma lui mi infilzò, parlò di due regni diversi, il mio e il suo, non si lasciò trascinare nel terreno della complicità, disse che il suo regno non era di qui. E tutti attorno a me pensarono subito all’ennesimo messia da regno dei cieli, da angeli e divinità antiche. Ma io sapevo e sentivo. Sapevo che era mio il regno della falsificazione, mia l’illusione, mia la fede insulsa e cieca che l’imperatore fosse dio e non uomo, mia l’illusione di far parte di un potere eterno. Il suo regno era invece di qui. Lui chiamava le cose per nome, lui parlava di semi e di farina, lui guariva, lui camminava le strade, entrava nelle bettole, abitava le case, stava con libertà tra i santi e i peccatori, non aveva costruito eserciti e spingeva perché ognuno fosse fedele a se stesso. Abilitava gli amici al tradimento. In lui il fare e l’essere erano dannatamente coincidenti. In questo il potere e l’amore si differenziano, e poco importa se il finale appare lo stesso. Amare e comandare sono affari da malfattori, da rivoluzionari, da briganti, da invasati. Ma se io avevo bisogno di cieca obbedienza, di credere alla falsità, di giocare sempre su piani diversi, lui, invece, si nutriva di libertà.

Come fai a reggere tutta questa solitudine? Questa è la domanda che avrei voluto e dovuto fare. La solitudine di un re, la solitudine di un amante, la solitudine di un uomo che arriva fino in fondo. Cosa mi avrebbe risposto? Avrebbe chiesto a me, sono sicuro che avrebbe chiesto conto al mio smarrimento e io non potevo rispondere. Sarei crollato.

Ripetei la domanda iniziale. Tornai da capo. Dunque tu sei re? Ero arrivato ai limiti della mia gabbia, da lì non sarei uscito, era chiaro, ci avrebbero ammazzati entrambi, lui crocifisso e io in uno stillicidio più perverso ma non me la sentivo di continuare, alzavo la guardia, fingevo la sicurezza di un potere che non osavo lasciare. E lui mi trafisse a morte. Non ebbe pietà quel nazareno, andò al cuore della faccenda, sapeva che se avesse parlato d’amore con me anche le pietre del palazzo sarebbero scoppiate in una fragorosa risata, e allora parlò di verità. Sì, di verità, e anche l’ultimo dei servi sapeva che ogni potere si mantiene sulla menzogna, sulla falsificazione, sulla mistificazione. Vero decalogo del potente è avere sempre più di una verità. Per illudere i semplici e confondere gli avversari. Anche i suoi discepoli lo sapevano. Qualcuno aveva già negato di essere tra i suoi.

Che cos’è la verità? E lui diede l’unica risposta possibile, strinse per sempre i lacci ai miei polsi, mi spinse al giudizio finale, mi condannò alla perdizione. Tacque. Silenzio. Perché la verità non si nutre di parole, si scherma dietro i ragionamenti, la verità è carne e nervi e sangue. La verità ce la portiamo scritta addosso, è il frutto di una vita in cui ci si allena a chiamare le cose per nome e a custodirle, costi quel che costi. La verità è un corpo fedele a se stesso.

Tu sei vero, lo so. Per questo non c’è posto in questo regno. Tu sei vero ed è per questo che stai pagando. Tu sei vero, che la verità non è una cosa ma uno svelamento continuo e costante del reale. Sai cosa c’è però? Che non siamo pronti. Che per reggere l’urto di quello che tu chiami verità bisognerebbe avere la capacità di perdonare e perdonarci tutto. E di non scandalizzarci più di niente. Solo che se uno, anche solo una persona non ci sta, allora sappi che sei spacciato. Perché tutti prenderebbero paura e ritratterebbero. Nascosti, protetti dietro schermi di ipocrisia. In questo regno la verità la paghi con la vita. Vuoi una dimostrazione? Tra poco diranno che Barabba merita di essere salvato. Perché lui non è vero, lui mente, è falso, è come noi, lasciarlo libero sarà come lasciarlo correre tra simili. Non ci darà fastidio, fingeremo tutti, fingeremo di essere scandalizzati per i suoi crimini (che coprono le nostre ipocrisie) e fingeremo di credere nella giustizia e nella clemenza, fingeremo di credere ai preti e alle loro parole, fingeremo di credere alla politica, all’economia, alle guerre e alle giuste cause. Fingeremo di fidarci degli altri e anche di noi stessi. Fingeremo di essere tristi e di godere, fingeremo la compassione, fingeremo di amare. E resteremo in vita. Noi almeno resteremo in vita. Almeno per quel che ci è concesso, ma resteremo.

Cosa credi che non ti abbia capito? Siamo simili io e te. Ma dimmi, davvero non sapevi che la veritĂ  sarebbe finita crocifissa?

Dimmi la veritĂ . Non rimanere in silenzio, per favore.


AUTORE: don Alessandro DehòSITO WEB Leggi altri commenti al Vangelo della domenica