don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 21 Agosto 2022

388

Conchiglie

Come tutti scivolo verso la mia Gerusalemme, attraverso città e villaggi, raccolgo i segni del tuo passaggio, conchiglie, ne faccio collana, rosario, memorie. Stupito dalla bellezza dei gusci e insieme annientato dal loro scavo, assenza inappellabile, decido comunque di camminare, non posso far altro. Mi chiedo cosa significhi salvare la propria vita, sospesa rimane la domanda di quel tale, e io non lo so, salvare o essere salvato, da cosa, da chi? Solo tu mi interessi ormai, c’è altro intorno? È da te che devo essere salvato? O da me? E perché?

Rigiro tra le dita la conchiglia, provo a decifrarne i segni, la corazza non è bastata a salvare il mollusco, io di armature non ne ho più, trafigge ogni dolore, fa male, salvare la vita significa quindi non soffrire più? Per eccesso di protezione o per morte, che poi forse sono la stessa cosa, questa è salvezza? Non credo di volere questo oblio. Non può essere, la morte, un incidente di percorso, la fine naturale delle cose, mi è sempre sembrata risposta borghese buona da questa parte del mondo, risposta di chi ha vissuto tanto, bene, a lungo, soddisfatto. Non può essersi salvezza nell’anestesia iniettata tra le pareti del cuore, non è salvezza imporre obbedienza alla danza delle cause e degli effetti. Sulla crosta della conchiglia stridono le lacrime dei bambini, le morti innocenti e gli amori, sì gli amori, che non hanno avuto vergogna di riconoscersi mendicanti di infinito.

- Pubblicità -

Da cosa devo salvare la mia vita? Da chi? L’ho da sempre ritenuta domanda violenta, se sei tu il creatore, se tu mi hai chiamato e io non ho potuto opporre resistenza, se ti ho perfino seguito, come ho potuto, come avevo compreso, perfino credendoti… sarà tuo il problema di salvarmi, sarai tu a decidere se e come. Ma se non lo fai avrai ancora coraggio di definirti buono?

Salvami tu se vuoi, se puoi, da me cosa puoi volere? Scivolo come tutti verso la mia Gerusalemme, mi lascio trafiggere dalle domande e cerco i segni del tuo passaggio. Provo a decifrare illuminazioni transitorie, raccolgo stelle cadenti, rianimo qualche sogno, lo scafo della mia imbarcazione regge l’ennesima tempesta e mai ne esce illeso, vivo e proseguo. Non ho deciso io il varo della nave. Forse nemmeno l’approdo, immaginarmi il porto è fatica sprecata, della rotta ho potuto solo qualche accorgimento. Sono in balia del tuo volere, come potrei sapermi salvare se non lo vuoi tu?

Certo che mi sforzo di passare per la porta stretta, ma lo faccio solo per istinto di sopravvivenza, il giorno in cui mi mancheranno le forze sarai tu a doverti chinare su di me. Le porte sono sempre strette, si passa da soli. Stretta è stata fenditura della nascita e stretto sarà il taglio della morte. Ogni porta rimanda a solitudine, ogni passaggio rimanda al vero dramma della vita: essere soli con sé stessi. Le chiese, solo loro, hanno porte grandi, enormi, immense come le illusioni, ma forse per pudore rimangono quasi sempre chiuse, si entra e si esce da ingressi laterali.

Molti cercheranno di entrare ma non ci riusciranno. Mi sembra la descrizione perfetta per la vita, se non ti offendi mi metto dalla loro parte. Si prova a vivere, si tenta, ci si ingegna, si cerca un posto, ci si illude perfino che ci sia il proprio di posto, poi un giorno ci si scopre fuori. Non ci si riesce, altri sembrano essere passati prima e meglio di noi. Così il padrone un giorno chiude la porta e mette fine a ogni speranza e a ogni illusione. E anche alla sofferenza. Questa è la salvezza finale? Essere chiusi fuori per sempre dalla vita? Non ti basta la nostra sofferenza di essere nati e l’inadeguatezza, il senso di colpa per non essere riusciti a vivere in pienezza?

Sto sbagliando tutto Signore, lo so, mi sento come Giobbe, che vuole capire e magari insegnarti il modo per fare bene Dio. Raccolgo la conchiglia della mia vita, poggio la parte colorata sul mio palmo e lascio il vuoto a elemosinare brandelli di cielo, e sto muto.

Non vi conosco” questo forse è il vero dramma, questo posso fare ancora, provare a farmi conoscere da te, lasciare che la Parola come spada tagliente scenda a torturarmi, lasciarmi ferire dagli eventi e cercarti in ogni cosa, lasciarti entrare, costi quel che costi, lasciare che ogni cosa di me si sveli ai tuoi occhi, conoscermi con i tuoi occhi. Non aver troppa paura, lasciar approdare ogni cosa di me, da oriente a occidente, da settentrione a mezzogiorno, ogni cosa: viaggiare per ricapitolarsi, vivere per svelarsi.

Salvarsi dalla tentazione di decidere cosa sia buono e cattivo, salvarsi dalla mania di credere di sapere cosa ci abbia avvicinato a te e cosa ci abbia allontanato, salvarci dal crederci Dio. Salvarmi sì, ma da me stesso, dalla mia illusione di credere di sapere quando sono stato all’altezza di essere chiamato tuo discepolo. Invece non devo dimenticarmi mai di quel giorno in cui ho sentito chiaramente che tutto è franato e tutto, ma davvero tutto, ha cambiato completamente di significato. Dove credevo di essere all’altezza lì ho peccato di egoismo, dove credevo di averti obbedito lì stavo seguendo solo i miei nobili egoismi, dove invece era evidente che avevo tradito, che avevo peccato lì stavo conoscendo me e te, stavo franando nella verità. Davvero i primi e gli ultimi si capovolgeranno. Non resta che il silenzio umile di non pronunciare mai sentenze, non resta che il vuoto implorante di un guscio di conchiglia.

AUTORE: don Alessandro Dehòpagina Facebook

Leggi altri commenti al Vangelo della domenica