don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 20 Novembre 2022

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Salgo sulla croce, diventare Lui

Anche quel giorno stavo, con il popolo, e guardavo da lontano, a tratti contemplavo. Tu Crocifisso, Tu inchiodato alla crosta del cuore del mondo, alla crosta del cuore dell’uomo. Tu che soffrivi, Tu che morivi e io a violentarmi gli occhi per non cederli al buio. Io a tracciare segni della tua croce con le mie braccia stanche, a spingere le dita fin dentro il mio costato, proprio ad altezza cuore, per provare a strapparlo il cuore, per stringerlo fino a soffocarlo, perché smettere di amare è smettere di soffrire. E davanti alla croce mi sembrava lecito sperarlo.

Anche quel giorno guardavo da lontano, ero con il popolo, a tratti contemplavo, credevo potesse bastare, mi sembrava già troppo, vivere all’ombra della croce, inserirla sulla linea del mio orizzonte personale, prevederla, accoglierla come tua scelta.

Spesso torno ancora qui, rimango a distanza, guardo e a volte contemplo Tu che muori in croce. Ma non è più questo il mio posto. Da quella volta che i miei piedi hanno incominciato a camminare verso di te, e non si sono più fermati. Non posso dire di averti scelto, non posso dire di aver deciso di venirti incontro, avevo e ho ancora troppa paura, è che le cose sono andate così, forse lo sai tu perché, forse è come una specie di chiamata, come quando i pescatori hanno lasciato la barca e i pesci e il padre, ecco qualcosa del genere, perché alla fine si tratta sempre e solo di camminare verso il Calvario, solo che adesso si vede la fine, e fa paura.

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Forse accade per tutti, un giorno si capisce che credere significa incamminarsi verso la croce, smettere di stare a distanza, forse accade per tutti, e così si lascia la folla e la sua contemplazione e si finisce per ritrovarsi accanto ai capi. Si diventa come quelli che ti deridono “hai salvato altri, salvi se stesso”, ci si avvicina a Te e si attacca, per paura, la tentazione è quella di rimanere lì, restare capo di me stesso e imparare a ridere e deridere, di te e di me e del mondo intero, e di quando in te e nelle mie utopie. Rimanere capo di me stesso e non fidarmi di chi non è in grado nemmeno di salvarsi.

Non è solo una tentazione, spesso rimango qui, spesso sono un capo tra i capi, succede quando non mi concentro troppo su me stesso, succede spesso quando voglio salvare me, la mia vita, i miei sogni, la mia storia. Succede quando voglio mettere in salvo quello che sono. Succede quando non mi perdo se non per me stesso. E allora strappami Signore, attirami a Te.

E fammi camminare, fammi avvicinare, immergimi nel gruppo dei soldati, fammi sentire che anche io sono uno di loro, io che amo ubbidire, scaricare su altri l’onere di decidere, mostrarmi sempre e solo innocente, dire che io ho solo obbedito a ordini più grandi di me, dirmi che non potevo disertare. Lo so Signore che la violenza mi abita, e anche la tentazione di arruolarmi per non dover espormi. Ho indossato e indosserò divise, le divise dividono per definizione e io ho voluti dividermi dalla parte più fragile di me. Ho indossato e indosserò uniformi, uniformarmi per non dover dare ragione della mia unicità, di cui mi vergognavo. E così riderò ancora di te e della tua nudità e della tua complessità indivisa. Riderò di te come un soldato e lo farò solo perché ho ancora paura, tu abbi pietà e chiamami ancora, attirami a te.

Cammino e riesco a leggere il cartello che hai sul capo, sento l’odore del sangue, sento il tuo respiro rotto, sento la lama luminosa della morte che sta per attraversarti, sono qui e in te ritrovo tutte le persone che ho visto morire, sono tante, tu lo sai. Leggo quello che hanno scritto di te, guardo i tuoi occhi gonfi e mi sembra di tornare al dramma di quando la vita mi ha strappato affetti a cui io non volevo sopravvivere. E non riuscivo proprio a dichiararti re del mio dolore. E la resurrezione la sentivo blasfema, il mio dolore non si lasciava scalfire dalla speranza. Sento che se rimanessi qui, ai piedi della croce, se sperassi di credere solo standoti davanti, sarei solo un illuso. Tanto ho capito dove vuoi portarmi, a questo punto continua, non tornerò indietro e non mi basta più limitarmi a leggere la definizione di te.

Salgo sulla croce di uno dei malfattori, sono un malvivente, sono lui, sento i chiodi lacerarmi le mani. Sento la rabbia, a cosa serve credere se alla fine tu ti lasci crocifiggere come noi? A cosa serve credere in un Dio inutile come te, ti guardo e sei alla mia altezza, sei come me, sapere che tu soffri dei miei dolori non mi salva, non mi convince, non basta. Tu mi guardi, mi proponi l’altra croce.

Sono ancora il malvivente che non è buono ma che almeno riesce a confessare il male commesso. Sono come lui, mi sento complice del male, non accuso più nessuno, accuso me stesso, so di aver fatto male, sono in mano tua. Attirami a te.

Ti chiamo per nome, Gesù, sono inchiodato a te e ti chiamo per nome. Credo di essere sempre stato solo questo: un malvivente inchiodato a un nome da pronunciare incessantemente, non sono riuscito a liberarmi di te, ecco perché mi sono avvicinato. Non ho altro da dire se non il tuo nome, questo il mio oggi, questo il mio paradiso. Poi però una cosa la aggiungo, non so bene se si tratti di fede, ma è l’unica cosa che oso chiederti: ricordati di me, solo questo, ricordati. E lo so bene che solo Dio ricorda.

Alla fine forse tu parlerai ancora, mi parlerai di paradiso che non è altro che il giardino dell’inizio, di Genesi, e io capirò che avvicinarsi a te è tornare a casa, dove un Creatore cercava amorevolmente la sua creatura. Forse alla fine avvicinarsi e farsi crocifiggere è l’unico modo che abbiamo per non scappare più, una specie di giuramento di sangue. Forse arrivare vicino e crocifiggersi alla croce è l’unico modo per diventare Te, che è ciò a cui siamo chiamati[1].

[1] “Ripeto: non si tratta di un processo mentale, astratto, ma di diventare Lui”. (Papa Francesco, Desiderio Desideravi 41)

AUTORE: don Alessandro Dehòpagina Facebook

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