don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 2 Aprile 2023

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Smettere

Poi finalmente Giuda smette. Smette di insistere, smette di complottare, smette di vendere e di provocare, smette di baciare, smette di tradire. Finalmente smette. Smette e si dimette da ogni cosa, anche dal suo essere traditore, le lancia le monete a sfinirsi in un campo di sangue, e poi si lascia andare al peso del proprio corpo, appeso come un frutto non colto, carcassa spolpata dal becco rapace di tormenti affilati. Sfinisce nell’ultimo respiro. E finalmente smette.

Smettono di fare domande anche i discepoli, smettono di chiedersi quale sia il luogo scelto dal Maestro per mangiare la Pasqua, smettono di importunarlo e di promettere l’impossibile, smettono persino di pregare, smettono la vita addormentandosi, mentre lui prega, nell’orto degli Ulivi. E qualcuno giura sia stata l’azione più saggia degli Undici superstiti.

Smette di parlare per parabole, smette di fare miracoli, smette di provare a farsi capire. Solo farsi mangiare, erotica disciplina d’amante. Un’ultima resistenza nel Getsemani, il colpo di coda della vita che non vuole smettere di vivere, della nostalgia delle umane amicizie, del tentativo di credere che ci si possa far capire senza dare in pasto la propria vita. Poi smette, anche Cristo smette, e si rimette nelle Sue mani. Tutto è compiuto.

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Smette Pietro di dare voce a quel che crede di essere, smette di credere alla propria fede, smette di credere alle proprie forze. Si osserverà da lontano, vergognandosi, stanato dal canto di un gallo, battezzato da lacrime amare, smetterà un giorno di promettere amore e finalmente si lascerà fare, portato dove non avrebbe mai scelto di andare, in mano d’altri ma senza finalmente essere più in balia di sé stesso.

Smessa la violenza, un fodero a celare la lama, a terra però rimane l’orecchio sanguinante. L’orecchio sanguinerà per sempre, simbolo di quelle persone che sapranno lasciarsi trafiggere dalla Parola che è tortura di lama che scortica e pugnala. L’ascolto sarà emorragico e vivo, sfinente, o non sarà. Nessuna sutura possibile, ad inaugurare il sospetto verso i commentatori immacolati del Verbo.

Smessi i bastoni, smesse le spade, smessi i denari, smesso il calice dell’alleanza (svuotato fino all’ultima goccia), giocate per sempre tutte le carte, ultima mano, tocca decidere di lasciarsi prendere. Delirio di fanti e di re, nitriscono i cavalli ai piedi del Golgota, chi tiene i conti non riesce ancora a capire chi sia il vincitore, crocifisso al palmo del baro il Cristo non lascia nulla dietro di sé. Tutto è riscattato. Rimane vuoto il banco, nulla sul tavolo dell’ultima cena, nulla oltre la pietra spazzata di luce davanti al sepolcro, l’azzardo divino non si è risparmiato, puntata ormai è ogni cosa, perfino il figlio. Perdere e lasciare. E ancora, chi tiene i conti, non capisce chi sia il vero vincitore di questo spreco d’amore.

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Poi Cristo depone anche la parola, smette il verbo, crocifigge ogni sillaba, ammutolisce l’alfabeto, cannibalizza la profezia, attorno a lui il potere moltiplica le parole, Caifa lo scongiura di rendersi credibile, Pilato impaurisce dell’impotenza del proprio potere, la moglie del governatore invia al marito un incubo, è un ghepardo fedele, promette la tortura del rimorso.

Qualcuno si lava le mani per smettere l’esercizio del potere, ma il silenzio del Cristo aveva già reso innocuo il carnefice, come innocuo ormai è qualsiasi aguzzino, il Silenzio già custodiva Altrove.

Barabba guarda stupito la propria ritrovata libertà e forse non ci crede, e di certo non capisce, ma potrebbe iniziare ad apprendere da quell’uomo che l’unico modo per battere il potere è quello di rimanerne indenni. E che la libertà vera ha le mani legate e il volto tumefatto e subisce ingiustizie.

Poi si fece buio, sullo scherno dei soldati e sulle loro dolorose maschere di morte, poi si fece buio perché smise anche il sole di illuminare, smise senza preavviso, disarmata la luce, chiusa la palpebra del cielo, il silenzio si ingoiò il delirio degli sconfitti che già avevano dimenticato i miracoli e i pani moltiplicati e i ciechi riportati alla luce e i lebbrosi riconsegnati a questa umanità ingrata e i trionfali ingressi nella città santa, dimenticato anche quello, come non ci fosse mai stato. Dimenticato il Messia.

Poi il velo del Tempio si strappò, uno squarcio, a smettere di separare, come acque rotte a partorire quello che pareva ormai uno scarto d’uomo. Macellato. Eppure incredibilmente trionfante. A sancirlo furono (e saranno per sempre) i corpi dei santi usciti dai sepolcri per rendere omaggio alla carne del divino amore. Per chi riesce a sentire qui e ora il passo dei morti, il respiro dei resuscitati.

Le donne non smisero, loro no, non smisero di stare, Giuseppe smise di fingere di non amarlo e il corpo di Gesù divenne seme, nel silenzio di un sabato gravido di vita come l’autunno. Deposto, si lasciò cogliere, la vita finalmente fu ricondotta a eternità.

Il potere tentò di mettersi in guardia. Approntò le difese. Ma avevano già vinto i disarmati, i consegnati, i deposti. E continueranno a vincere, primizie raccolte da quei sepolcri inutilmente difesi da un potere che non spaventa più nessuno se non sé stesso. Colti a eternità i deponenti, mentre i ghepardi tracciano incubi.

AUTORE: don Alessandro Dehòpagina Facebook

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