Non resta che l’Abisso
E il nostro sarà finalmente un viaggio in incognito. Nessuno ci vedrà più, nonostante la nostra fedele presenza tra i traffici indelebili del mondo. Parleremo, lavoreremo, faremo figli e manterremo oliati gli ingranaggi del vivere civile, ci scandalizzeremo e manifesteremo, terremo in piedi perfino comunità parrocchiali e associazioni, faremo volontariato, verseremo sorrisi e dispenseremo lacrime, pregheremo e mangeremo ma il viaggio, intanto, il nostro viaggio, quello vero, sarà sommerso. E misterioso. E nascosto. Di noi qualcuno un giorno forse dirà “non voleva che alcuno lo sapesse”.
Contemporaneo e sommerso, alligatori, sotto il pelo d’acqua delle apparenze, cetacei enormemente fragili, scenderemo, scenderemo, scenderemo, nessuno ci vedrà più, davvero nessuno. L’abisso sarà la nostra luce. Saremo finalmente discepoli in cammino e nessuno lo saprà. In superficie tutto scorrerà senza apparenti intoppi ma noi saremo inabissati per sopravvivenza. Bisognerà imparare a trattenere il fiato o a respirare come i pesci, bisognerà fare memoria di tutto il Vangelo incontrate dentro le pieghe delle vite minime, bisognerà aver imparato a gioire di quando il Vangelo ci ha teso agguati agli angoli di vite che noi consideravamo banali. O sbagliate.
Nel silenzio che fa sanguinare gli orecchi finalmente comprenderemo che alla vita non vanno chieste spiegazioni. Lì, dove il silenzio è totale, sotto l’incresparsi degli eventi, sufficientemente inabissati nel mistero che si apre sopra e sotto e dentro di noi, in totale solitudine scopriremo che tutto della vita si decide da come ci si consegna alla vita, e niente più.
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Bisognava scendere fino al limite della dispersione però, perché la scoperta non è condivisibile, perché non lo puoi dire a nessuno che la vita cambia solo dal modo con cui ti consegni ad eventi quasi sempre incomprensibili. Non devi dirlo a chi soffre, non devi dirlo a chi piange, non puoi dirlo a nessuno, uno lo scopre in un viaggio silenzioso e nascosto dentro gli abissi del reale. E vale solo per se stessi. E può anche urlare lo scandalo e può non accettare e rigettare e vomitare ma non cambia niente e allora Dio ti sembra ingiusto e inutile, il becchino della felicità, contorcendoti dirai che è troppo poco poter decidere solo su come consegnarsi agli eventi, e il fatto che anche il Cristo lo abbia provato non cambia le carte in tavola: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini”, e non c’è niente di più tragico e definitivo, l’Immensa divinità, il Creatore, si adegua alla misera grandezza di mani d’uomo. Tutto è in mano d’uomo.
Sotto il livello delle apparenze si scopre che la fede riconsegna ognuno di noi alle nostre mani. Come ci stiamo consegnando a questa vita che non immaginavano per nulla così? Come mi consegno alla mia malattia, ai miei errori, alle mie miserie, come posso fidarmi delle mie mani? A cosa serve credere in Dio e pregare se poi Lui si mette in mano d’uomo? Come posso credere alla chiesa che non è altro che una manipolazione continua ed ambigua del divino? Eppure lì, lì in fondo tutto assume un misterioso senso, Dio è abissale. Il buio è il suo ventre. Come fosse madre, come se ci avesse ingoiato. La fede è l’esperienza del perdersi nel Vuoto. Intanto gli occhi cercano e le mani d’uomo tremano per il divino frammentato in presenza simile a pane minuto.
“E lo uccideranno”. Non si può eludere la morte. Ma nell’abisso la morte è presente, reale, attraversabile. La vita per come la intendiamo noi rimane in superficie. Nel silenzio delle nostre solitudini lo possiamo dire che tutto ciò che ci interessa è mettere occhi dentro il morire, e cercare di capire, il resto conta nulla. E poi la discesa negli inferi che ci portiamo dentro, l’inabissarsi non è stato altro che esercizio di morte e vivere il nostro quotidiano inabissamento.
La morte già vive con noi, e dentro di noi. In superficie forse non sembra, ma qui la morte ci tiene per mano, si svela come fedele compagna. Non posso parlare di lei senza parlare di me. È l’esperienza più intima a me stesso. Credere non libera dalla morte ma, al contrario, ci allea a lei, sentiamo che siamo esseri morenti. Dal fondo oceanico delle apparenze possiamo vedere colare a picco le persone, gli eventi, le delusioni, i sogni, come se il capodoglio avesse squarciato lo scafo delle nostre sicurezze, stiamo perdendo pezzi e imbarcando acqua da quando siamo nati. Meravigliarsi della morte appare quantomeno strano. Da sotto vediamo nevicare i relitti dei nostri giorni. E, colorati, i nostri ingombranti sogni si depositano per sempre.
Eppure nel silenzio sentire che non è tornando a galla che si risponderà alla vita ma scendendo, attraversando l’abisso, perforando il fondale, resuscitare è morire attraversando il fondo? Come racconti di vecchi marinai rimangono scorie più simili a poetiche speranze che a cronache affidabili.
In superficie non capiscono. E hanno paura. Nessuno, finché costretto, intraprende davvero il viaggio. Si costruiscono velieri grandi e navi enormi. Illusioni solcano onde ridicole, e le chiamano tempeste.
Crosto racconta, è il Figlio dell’Abisso. Ma i suoi discepoli non capiscono. Non si può capire alla luce del sole. Si oscurerà il cielo sullo scoglio dello scandalo. Al calvario attraccheranno le nostre ribellioni. Volevamo risposte.
Eppure abbracciava la morte quell’uomo, anche prima della croce, sa subito, e anche noi lo vediamo ancora con in braccio un bambino. Essere l’ultimo non è forse esercizio di morte? E servire non implica l’ammutinamento al proprio orgoglio? Non parlava che di morte quell’uomo, e alzava al cielo, abbracciandolo come un trofeo, un bambino e diceva che accogliere quello era accogliere Dio. La cosa più inutile del mondo. Lì in superficie la cosa più inservibile.
Ultimo e servo e inutile come un bambino. Questo è Dio, in superficie, non resta che l’Abisso. Non serve che rimanere sotto il filo d’acqua e sperare d’aver la forza di lasciarci cadere nel baratro, come Giona.
AUTORE: don Alessandro DehòSITO WEB Leggi altri commenti al Vangelo della domenica