Giovanni stava, come se per lui tutto fosse già compiuto. Stava come stanno certi vecchi, stava come Simeone, stava come Anna, stava come chi ha capito che si è in vita solo per lasciarsi cogliere. Giovanni stava, come frutto maturo, come grano in attesa di una falce, come amante in attesa del bacio, come fiore che chiede solo d’essere colto.
Giovanni stava, come Zaccheo sull’albero della rinascita, come l’ultimo dei peccatori, come chi non attende nient’altro che Lui. Giovanni mendicava di essere preso. Così consumava i giorni e gli occhi, fissava lo sguardo sulla vita, sulle cose, su tutto ciò che di visibile attraversava il suo orizzonte.
Così si crede, sembrava dire, con la violenza dello sguardo che deve essere lama affilata, che deve attraversare la carne per giungere al cuore di ogni cosa per implorare che tutto mostri visibilmente l’Invisibile. Giovanni stava e fissava ogni cosa perché aveva compreso che da ogni evento Lui può venirti incontro, Agnello di Dio in cammino.
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(Anche ieri sera al tavolo della mia cucina si è compiuto il miracolo di un incontro. Uomini scorticati dalla violenza della vita hanno condiviso con me domande su Dio. Ma poi bastava guardarli quei loro occhi smarriti e curiosi, è bastato fissarli come Giovanni fissava Gesù e allora è stato chiaro, nei loro cuori, nei muscoli, nei fallimenti, nelle speranze, nei peccati, nel lungo rosario di errori, in ogni luce e in ogni ombra, bastava fissare lo sguardo in loro e si vedeva l’Agnello, il Risorto vivo e fedele, in loro. Loro avevano domande per me, eppure erano la risposta, mi stavamo mostrando il Risorto vivo, me lo hanno portato. Ed ero io a chiedere loro d’essere colto. Davanti a corpi in disarmo credere a me sembra così facile)
“Ecco l’agnello di Dio” dice Giovanni, scandito probabilmente con il profetico tremore di chi ormai deve cedere all’evidenza, la salvezza passerà per la mitezza massacrata, la manifestazione divina sarà una luce insanguinata. Ecco l’agnello, colui che toglie, colui che porta via il peccato del mondo, colui che si fa carico di ogni cosa, ecco il Dio sofferente, ecco il Servo amato.
Giovanni fissa lo sguardo e lo capisce bene, è la sua Annunciazione, è arrivato il suo angelo, ora deve solo consegnarsi, deve solo morire. E lascia partire i suoi discepoli, e così rimane, solo, come una Madonna dopo l’annuncio, perché solitudine è la condizione della fede.
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(Forse la fede è davvero lasciare andare parte di sé, è avere lo sguardo così fisso in Lui che nulla si trattiene, neanche per amore. Giovanni lascia che i suoi discepoli seguano Gesù, simbolicamente è tutta la sua vita di maestro e di profeta che se ne va. Cosa rimane? Uno sguardo fisso sull’agnello. Che sia questa la vita? Innamorarsi di tutto per imparare ad avere occhi innamorati e poi perdere tutto, lasciar andare tutto, ma non smarrire lo sguardo, tenerlo innamorato e fisso sulla sorgente dell’Amore. E stare in quel niente pieno di Tutto)
“Che cosa cercate?” si deve voltare Gesù per porre loro quella domanda. Alla fine del Vangelo, dai sepolcri, chiederà “Chi cerchi?” a un cuore innamorato. Cerchiamo il senso della vita, cerchiamo di sopravvivere, cerchiamo di non essere delusi, cerchiamo minimamente di essere felici, cerchiamo di farcela, cerchiamo qualcuno che si fidi di noi, cerchiamo la tranquillità , cerchiamo la felicità , cerchiamo d’essere degni d’essere amati.
E spesso ci affanniamo nella ricerca e non siamo capaci di farci cercare. Perché ogni cosa che accade nella vita è Lui che ci cammina incontro, sguardo mistico e quindi reale sull’esistenza. Non ci accorgiamo, o forse Giovanni sì, per questo non si muove, che non serve a nulla cercare se non si ha il coraggio di essere trovati. Giovanni ormai, sguardo scavato dall’attesa, si stava lasciando prendere. Non siamo noi a cercare, noi siamo la pecora smarrita, la moneta perduta, il lebbroso emarginato. Noi siamo qualcuno da trovare.
(E non c’è retorica se dico con sicurezza che può aver fede solo chi accetta d’essere perduto. L’unica condizione per conoscere l’Agnello di Dio è lo smarrimento. La nostra condizione vera e profonda è la perdizione. Nessun profeta, nessun predicatore, nessun maestro val la pena di ascoltare se non confessa prima, e in verità , dove e come e quando si è perduto. O forse è tempo che i maestri tornino a fare i discepoli e se ne vadano ancora dietro all’Agnello e che ci lascino finalmente soli con i nostri peccati, con le nostre miserie. Interroghiamole, da poveri cristi smarriti e pieni di dubbi, senza dover dire niente a nessuno, nel silenzio del nostro incontro d’amore con il Mistero, diciamolo che ci sentiamo perduti, che non ci sentiamo all’altezza, che abbiamo paura di aver sbagliato tutto, diciamolo a noi stessi, ma insieme fissiamo ancora lo sguardo su tutto ciò che è visibile, perché da ogni cosa ci viene incontro l’Agnello. Impariamo a implorare: nelle tue mani Signore mi consegno, vieni a prendermi)
“E videro dove egli dimorava”. Solo questo alla fine dobbiamo accettare, si tratta di disarmarsi, si tratta di cedere, si tratta di arrendersi. Solo questo, alla fine delle nostre ricerche, dopo aver messo in soffitta i libri di chi vuole spiegarci Dio, dopo aver smesso di credere che un predicatore qualsiasi possa illuminarci, dopo aver disertato l’ennesimo evento con il personaggio folgorato e convertito, dopo aver relativizzato i grandi maestri dello Spirito, dopo aver lasciato andare i discepoli e anche i maestri, dopo aver visto scorrere via ogni cosa, alla fine: arrendersi. Dio dimorava già in noi, era già lì, da sempre e sempre lo sarà , fisso, come uno sguardo innamorato, al centro del nostro cuore.
Per gentile concessione dell’autore don Alessandro Dehò – pagina Facebook
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