Elogio della corruzione (pulito è sterile)
“Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra…”
e così ti accorgi che tutto ti attraversa, che l’uomo è terra, davvero terra, che non è solo metafora, e che hai quindi vitale bisogno che piovano parole e gesti d’amore. E così ti accorgi che sei terra e che quindi sei fatto anche di arsure e di raccolti devastati dal furore di una tempesta. E di semine seminate solo apparentemente invano. Perché la terra prende ogni cosa e niente la lascia intatta.
Che piovono pure silenzi quindi, e che anche quelli entrino dentro, fino a trasfigurarsi in rughe e lacrime, fino a cambiarci il colore degli occhi.
Siamo terra. Siamo impastati ad ogni istante e sempre esposti al rischio di essere misurati in base al raccolto che si chiude nei granai. Ma la pioggia e la neve scendono in profondità sempre, e nei tempi d’arsura scende un sole che ti brucia fino alle radici, e anche questo è destinato a tornare al mittente portando con sé qualche specie di frutto. Se ricordiamo che siamo terra.
Cosa sia frutto è la vera legittima domanda. Non è solo il raccolto da ammassare a fine giornata, non è solo ciò che rimane una volta bruciato lo scarto, a dire chi siamo stati alla fine della nostra breve incisione sulla crosta terrestre sarà tutto, ogni cosa che piove dal cielo.
Ma primo frutto è imparare ad uscire e a lanciare il seme. Come il seminatore della parabola. Che vuol dire corrompersi. Compromettersi. Imbastardirsi. Esporsi. Anche se ti chiami Dio, soprattutto se ti chiami Dio. Uscire e buttarsi, cioè accettare di sporcarsi, di perdersi, di deludere le attese, di mettere a soqquadro le previsoni. Ed è già frutto questo, anche se dovesse lasciare vuoti i granai, perché significa perdere quella seducente perfezione del seme, quella eterna promessa garantita da una protezione che mantiene inalterata ogni possibilità . Il primo vero frutto è scendere dal cielo come pioggia, come neve, come il nostro Signore, il primo frutto, spesso anche l’unico, è uscire dalla mano del seminatore, marcire sotto uno strato di fango, perdere la faccia, perdere la perfezione, perdere tempo, perdere la strada, perdere ciò che ti eri conquistato restando al centro del palmo dell’Onnipotente fecondatore. Il primo vero frutto è uscire, e perdersi.
Il seminatore esce e lancia, e c’è da trattenere il fiato, il volo è comunque sempre e solo una caduta, un rischio poco calcolato e dal finale già scritto, la vita è una parabola verso lo schianto finale, il seme è perduto, il volto di Dio si sporca per sempre di terra. Incarnazione. La corruzione dell’idea, la mediazione, il compromesso, la possibilità del fallimento, la parabola della decomposizione da contrapporre al mondo ideale della perfezione, non è un caso che chi è troppo pulito sei sterile. Uscire è perdersi, come sperimentare la debolezza di ogni parola nel momento esatto in cui tenti di mettere su carta la luminosità di una intuizione, eppure anche questo è frutto, come la pioggia e la neve, anche questo non ritorna a mani vuote, ogni cosa che si trasforma e ci trasforma, ogni cosa che si corrompe e si imbastardisce e marcisce e può anche non germinare, ogni cosa che non si trattiene nel mondo sterile dei perfetti è già frutto.
E allora sia benedetta la strada, e tutte le resistenze opposte alla nostra figura. Sia benedetta la strada che si è chiusa come armatura a respingere la fecondazione delle chirurgiche semine di idee. Benedetti i volti che mi hanno chiuso la porta in faccia, benedetto chi ha chiuso gli occhi e il cuore ai progetti educativi, benedetto anche tu che non hai voluto saperne di me, che mi hai chiuso all’angolo rimandando al mittente, con estrema violenza, tutte le mie certezze pastorali. Vi prometto che non morirò prima che l’incontro con voi abbia dato frutto, vi giuro che mi avete cambiato e che già questo vi rende simili alla pioggia e alla divina neve.
E benedetta sia la mia vita quando non ha risposto alle attese, quando si è chiusa e ha lasciato delusione nei volti degli altri, benedette le persone che cambiano idea, che imbastardiscono il profilo ideale e perfetto che si erano costruiti di me, benedetto chi non mi vede più immacolato ed eternamente promettente come un seme, benedetto chi non mitizza il fratello per crearsi un alibi chelo preservi dalla compromissione con il reale. Benedetta la mia vita quando non si è lasciata convincere dalla velleità della semente del pensiero. E benedetto il mio Signore che accarezzando la pelle dura del sentiero, la terra calpestata e infeconda me l’ha mostrata come incomparabile tesoro.
Benedetto il terreno sassoso e tutte le mie idee che non hanno messo radici, benedette gli entusiasmi dei primi improvvisi germogli e le risate liberatorie attuali, meno male che non hanno messo radice le mie “onnipotenti” visioni pastorali! Ed è tesoro, è già tesoro anche quello per cui avrei dato la vita e di cui ora non rimane più nulla. Questo è già frutto.
E benedetti rovi che soffocate i nostri progetti pastorali, benedetti rovi difficili da maneggiare, pericolosi e dolorosi. Benedette spine che ci costringete al doloroso fallimento, quanto ancora dovrà passare prima che iniziamo a ringraziare tutte le condizioni che ci stanno smascherando. Il rovo è come pioggia e come neve, problema vero è quando non ci lasciamo trasformare, è quando non permettiamo alla vita di parlarci.
E che stupore la terra bella e buona che porta frutto insperato e moltiplicato. In qualche modo neppure lei risponde alle attese, si prende gioco di noi, produce piĂą del dovuto, sorpassa i sogni del seminatore.
E così alla fine è che la vita non risponde mai alle attese,  ma ci chiede, ci chiede solamente di poter piovere su di noi nella speranza che si provi a interpretarla per comprendere che nulla, ma proprio nulla arriva per lasciarci intatti come semi in una teca. E che se c’è un inferno è solamente quello di non ascoltarla questa storia, di attraversare la vita invano, aggrappati alla nostra perfetta e pulita e sterile idea di seme.
AUTORE: don Alessandro Dehò
FONTE: Sito personale
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