HomeVangelo della Domenicadon Alessandro Dehò - Commento al Vangelo del 11 Febbraio 2024

don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 11 Febbraio 2024

Commento al brano del Vangelo di: Mc 1, 40-45

Sembra l’orto degli ulivi

È troppo presto, non siamo ancora nell’orto degli ulivi quando l’Escluso sarà Lui, quando supplicante e in ginocchio Cristo stesso, lebbroso d’amore per l’uomo, chiederà di essere liberato da una solitudine così radicale da far sanguinare lacrime. Non siamo ancora nel Getsemani, quando un padre muto e distante obbligherà Cristo alla supplica e piegherà le sue ginocchia e gli farà implorare la possibilità del calice allontanato. Non è ancora tempo, o forse il tempo sta iniziando proprio ora, davanti a un lebbroso, forse questo è l’unico inizio possibile, per imparare a chiedere la mano del Padre.

Un lebbroso

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Quando Gesù si vede arrivare quel lebbroso vicino, quando se lo vede arrivare davanti, dopo che con la sua sfrontatezza ha frantumato secoli di leggi intoccabili e di paure antiche, dopo che ha sfidato l’immagine consolidata di un Dio che disegna il peccato scorticando la pelle in pustole, quando se lo vede arrivare davanti e cadere a terra diventando egli stesso supplica, quello che Cristo può aver visto è: il suo stesso destino. Anche lui diventerà così, escluso, supplicante, implorante, che poi è l’unico modo per consegnarsi davvero al Padre.

Trasformazioni

Il lebbroso è l’escluso, e Gesù capisce che non basterà guarirlo, che vizio eterno di qualsiasi religione è quello di voler risolvere i problemi, divino invece è diventare l’altro, assumere, trasformare, trasfigurare: il pane in corpo, il vino in sangue, la carne in Eterno. Non dovrà guarire l’uomo Gesù, dovrà contagiarsi di umanità, dovrà essere infettato per compassione, solo così si può trasfigurare la realtà. Ma solo lui potrà dire questo con esattezza piena, non il lebbroso, che non può capire, che sarà fonte di incomprensione, che avrebbe dovuto stare zitto, e che invece parla.

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Nessuna distanza di sicurezza con Dio

Quando Cristo vede arrivare il lebbroso comprende subito che le difese sono crollate, che non c’è più distanza di sicurezza, nessuno lo ferma, nessuno interviene per impedire la prossimità, questo è solo l’inizio del crollo, le distanze sono infrante, Dio è uomo, l’eternità è incarnata nella storia, il Regno è vicino. Quando Cristo vede il lebbroso avvicinarsi non può non vedere il suo destino, quando lui sarà l’escluso, quando sarà estromesso, quando anche lui dirà al padre “se vuoi puoi” liberarmi dal calice, purificare l’immagine di Messia. Il Padre però vorrà lui, vorrà il suo figlio e il figlio dovrà solo essere pronto a farsi cogliere. A farsi salvare.  

Vicinanza e compassione

Così quello che Cristo fa con il lebbroso non è altro che la profezia di quello che il Padre farà con lui. Quello che fa Cristo con il lebbroso non è altro che incarnare la speranza di ogni credente: quella di poter incontrare intimamente il Dio compassionevole, un Dio che si lascia contagiare da noi per amore. Un Dio che toccherà la nostra lebbra, che ci salverà dal nostro sentirci esclusi dall’eternità.

 La vicinanza muove Cristo a compassione, quelle distanze infrante si ripercuotono nel profondo delle viscere materne del Messia, il corpo intero sente di soffrire in sé la sofferenza dell’altro. Niente ha senso al mondo se non parte dalla compassione, niente. Se l’altro non ci muove a compassione noi saremo per lui inesistenti. Se Cristo non fosse compassionevole sarebbe l’ennesimo guaritore o il maestro saccente di cui nessuno ha davvero bisogno. Se Dio non fosse compassionevole non sarebbe Dio. Compassione è la materia in cui siamo chiamati a trasformarci, solo lì umanità e divinità coincideranno perfettamente. Vita di fede è la paziente e continua trasformazione di noi stessi in materiale compassionevole, carne fragile, viscere sensibili al dolore, occhi che conoscono il sapore delle lacrime altrui. Non abbiamo altro da dire, nessun’altra strada da percorrere, se non incarniamo compassione non saremo trasfigurati nel Compassionevole. Nessuna pastorale è possibile, nessun incontro, nessun amore, se non è verificato da questo. L’inferno esiste, ed è una vita indifferente.

Profezia

Gesù vede quel lebbroso che profetizza il suo finale, e allora tende la mano e lo tocca. Si contamina. La compassione non è reale senza la trasformazione dell’amante nell’oggetto amato. Non siamo chiamati solo a dare risposte alla povertà siamo chiamati, per compassione, a diventare poveri. Siamo chiamati a mangiare il pane eucaristico per farci contaminare dalla divinità. Gesù tocca il lebbroso perché quello è e sarà sempre lo stile di un Dio che è diventato uomo per trasfigurare ogni cosa in Lui. In quel momento inizia a strapparsi il velo del tempio e Gesù diventa il piagato, il servo sofferente, colui che ci salva per le sue piaghe (Isaia 53,5). Non c’è salvezza senza assunzione, la purificazione non è l’annullamento del male ma la trasfigurazione di ogni cosa in Lui. Così Cristo è una mano ad accarezzare ogni parte di noi, così beate sono le nostre lebbre se ci trasformano in umili suppliche, se ci fanno inginocchiare.

Esclusi

Gesù toccando il lebbroso accetta di diventare l’escluso e mentre il purificato torna nel cuore della città lui è costretto al deserto. Sarà così fino alla fine. Gesù non avrebbe voluto, accade troppo presto, il lebbroso guarito avrebbe dovuto limitarsi a consegnarsi alla legge, per sottolineare la continuità, per dare tempo a Cristo. Non lo fa. Così inizia un esodo, al deserto arrivano malati e indemoniati, e non c’è immagine di chiesa migliore, uomini e donne che abitano il deserto, poveri cristi malati e indemoniati in attesa di essere sfiorati dall’Eterno.

Per gentile concessione dell’autore don Alessandro Dehòpagina Facebook

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