don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 1 Maggio 2022

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Che è già eterna la vita, a guardarla bene

Terza domenica di Pasqua C

Quando torno a ciò che sono, al pescatore che mi abita, ai gesti antichi tramandati da mio padre, alla vita tremolante, alle sue notti gravide, ai profumi del lago, a quelli dell’amicizia.

Quando torno e siamo in sette e tanto basta, numero di pienezza a dire che questo è tutto il mio mondo e che anche tu lo hai attraversato con me, e so per certo che te ne sei innamorato, e che ne senti la mancanza.

Quando torno e non mi spaventa scoprirmi per quello che sono stato prima di incontrarti, tornare al punto da dove mi hai chiamato, amato mio maestro, doloroso amico, mia ferita a forma di fiore, tornare a ciò che sono stato non mi spaventa perché sono certo che non ti dimenticherò, non mi spaventa perché non mi vergogno più di me, di quel che sono e forse nemmeno di quello che sarò. Così torno a pescare, perché ormai mi sei dentro, attendere a cosa servirebbe? Stare a guardare non è stile che concepisco, forse è questa la preghiera che mi è concessa, una mano ruvida a sgranare una rete annegandola nell’Abisso. E poi pescare, amare, piangere, arare, seminare, lottare… il vivere, il vivere sporco e santo, è nella terra che ti abbiamo scoperto, è in tutto questo e non altrove, nella carne, nella vita, che è già eterna, a guardarla bene.

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Gli amici non mi abbandonano, nessuno resta fermo a fissare l’orizzonte, la nostra liturgia è quella di chi spinge una barca in mare, è notte, il rimbombo dei nostri piedi è un tamburo, suono sacro prima del silenzio, le reti sono pronte, i muscoli rispondono, la fatica fisica il nostro salmo, le poche parole scambiate, gli sguardi e il niente preso, ma senza farne un dramma, ci siamo ripresi noi, abbiamo scelto di stringerci ancora nella stessa rete e questo, per adesso, basta. “Veniamo anche noi con te”, e mi sembra l’unica preghiera possibile, nonostante tutto siamo ancora pescatori e siamo ancora capaci di prometterci condivisione. Senza tutto questo, amico mio, sono sicuro, non ti saresti mai manifestato.

Poi l’alba accade, ci sorprende ritrovare i contorni dei visi, dei monti attorno al lago, delle prime nuvole, riconoscere l’espressione dei volti. Ci sorprende ancora questa vita che si mostra. E tu con lei. Sulla riva. Così ti manifesti. Anticipando i nostri approdi, presidiando l’attracco, rendendo famigliare ogni ritorno. Così ti manifesti, chiamandoci figli, intercettando le nostre fami, accogliendo il nostro niente. Così ti manifesti, dentro ogni ritorno, dentro il mio desiderio di un fuoco, di un po’ di pane, di un po’ di pesce. Così ti manifesti, nella fiducia di un padre che si fida ancora delle mani dei figli, gettate la rete, gettatela ora, gettate e troverete.

E io sento che non devo far altro che questo. Gettare e tornare, e sapere, sapere in cuor mio, che la vita è manifestazione del divino, un presidiare d’albe, e fuochi accesi, provare a essere padre di qualcuno, almeno di uno, fidarmi, trasformare la riva in approdo sorvegliato. Manifestarmi.

Restare come posso sulla riva delle altrui solitudini e spezzare un po’ di pane, nell’incanto della vita che ritorna.

Gettarmi in acqua dimenticando le reti oppure tornare trascinando il peso della vita: non è questa la vera differenza. Questione di entusiasmo passeggero, di carattere, di momenti. A volte trascinare, altre abbandonare, non è questo. Quello che conta è sentirti così vivo e presente da non poterti domandare nulla, godere della manifestazione e della infallibile percezione dell’anima.

Mangiare con te e non poter interrogarti, che sei come il sole, la pioggia, il cielo, l’aria, l’acqua. Assorbirti, questo basta.

E insieme rimanere come sospesi, come chi sa che la manifestazione ultima e definitiva avverrà all’approdo ultimo, dopo la nostra di morte. Qui non resta che il calore di un fuoco e il profumo di acqua e pesce e pane e il tuo profilo illuminato, ma solo a tratti, dalla fiamma viva e tremante. E nell’inutilità di chiederti “sei tu?”: respirarti.

In quel momento io so, io Ti so, intima mia dolcissima consolazione, in quel momento so e non serve interrogarti, sarebbe come dissacrare, ti guardo e non ho dubbi, sei il roveto ardente che brucia e non consuma, sei il calore che abita la profondità di ogni cosa, se l’apparizione del reale, la trasfigurazione delle apparenze. Sei, e questo mi basta. E così restare, come in equilibrio sulle onde, capace di tacere, godendo di noi.

Questo per ora mi basta. Mi avvicino al fuoco, mi sciolgo in silenzioso pianto, Vita: dolcissima manifestazione.   


AUTORE: don Alessandro DehòSITO WEB Leggi altri commenti al Vangelo della domenica