«Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gen 3,10). Quando cerchiamo di autodeterminarci a prescindere da Dio ecco cosa accade: iniziamo a vedere Dio in competizione rispetto a noi, lo vediamo come un concorrente e non un alleato. Nasce così l’esperienza della vergogna e della paura.
D’altronde il terreno fertile per questi sentimenti è proprio un contesto relazionale dove ci si comprende in modo isolato e individualista. Con l’altro sono in competizione, dunque non accetto di mostrare i miei punti deboli, vivo il sospetto e interpreto tutto come se gli altri volessero continuamente prevaricare su di me.
Funziona così anche nella relazione con Dio. Il tentatore cerca sempre di convincerci che in fondo siamo soli e che dobbiamo emergere e cavarcela da soli; mentre il Creatore ci ha plasmati per il suo desiderio di comunione e ha impresso al cosmo proprio il progetto della comunione. Egli non smette mai di cercare la sua creatura, anche quando essa si nasconde: «Dove sei?» (3,9).
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Porrò inimicizia
I racconti fondativi della Genesi sono molto antichi; hanno un linguaggio mitologico che in quel tempo era considerato la modalità migliore per interrogarsi sulle realtà profonde e per dare spiegazione a quello che – per definizione sua – non è totalmente comprensibile all’uomo: il senso e l’origine della vita e della morte, il rapporto tra uomo, creazione e Dio, l’esistenza del male e della sofferenza. L’uso di questo particolare genere letterario non deve però farci perdere di vista il fatto che i valori e le verità contenuti in questi racconti delle origini rispecchiano la comprensione di fede che si è generata nel popolo di Dio e che sta alla base dell’antropologia cristiana.
La condizione dell’umanità, secondo il racconto ascoltato oggi (Gen 3,9-15.20), è una situazione di lotta: «Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe» (3,15). La stirpe della donna (Eva madre di tutti i viventi) è condannata a dover sempre confrontarsi con il serpente: l’umanità, dunque, soffre di questa insidia permanente. Il tentatore sempre cerca di instillare in noi pensieri e sentimenti che ci allontanano dallo scopo per cui siamo stati creati: la comunione. Facendo così, il nemico cerca di mettere dentro di noi quel dubbio che nella misura in cui lo assecondiamo ci rende tristi.
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«Questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (3,15). Queste parole antiche rivolte da Dio al serpente sono sempre state guardate con grande attenzione perché, pur nel contesto di peccato e di maledizione in cui vengono pronunciate, contengono una promessa luminosa. Spesso questo versetto viene chiamato “il protovangelo”, ossia la prima buona notizia data all’umanità in vista della sua redenzione. La lotta tra l’umanità e il serpente infatti avrà un esito favorevole per la stirpe della donna: “schiacciare la testa” richiama decisamente a una situazione di superiorità e di vittoria.
Il testo può essere inteso e attualizzato in tanti modi, ma una cosa è certa: l’influsso mortifero che il demonio imprime alla storia non sarà decisivo; decisiva sarà invece la salvezza a cui l’umanità è destinata e verso cui essa è già in cammino. L’antica versione greca del testo della Genesi arricchisce un po’ il tenore del testo ebraico e attribuisce la vittoria dell’umanità ad un individuo: «egli ti schiaccerà la testa»; la lotta tra il male e l’umanità troverà un esito felice in seguito all’esperienza di Abramo, di Mosè, di Davide… e si apre così la strada anche ad un’interpretazione messianica del testo.
Predestinati ad essere figli
Per Paolo e per gli scrittori delle origini cristiane non c’era alcun dubbio sul fatto che è con Gesù Cristo che il male riceve un colpo decisivo. Nella risurrezione di Cristo, l’umanità conosce un’epoca nuova, l’epoca in cui la morte non è più la parola ultima e dunque anche la paura del dolore e della solitudine viene enormemente depotenziata. Il sospetto instillato dal serpente non avrà più la stessa forza d’ora in poi!
Alla luce della Pasqua di Cristo, la lettera agli Efesini che ascoltiamo oggi (Ef 1,3-6.11-12) innalza un inno di benedizione lodando Dio per le numerose bene-dizioni, ossia le “parole di bene” (e quando Dio dice una cosa, la fa) che ci ha donato. Sono parole/opere di Dio che manifestano come lungo tutto il corso della storia nessun uomo sia dimenticato e lasciato a se stesso: dalla creazione al compimento della comunione con il Signore.
Ascoltando questo testo siamo chiamati ad aprirci ad un progetto di bene da sempre pensato per noi: ci ha «scelti prima della creazione del mondo» e ci ha predestinati a «essere figli adottivi» (1,4-5). Si tratta di un progetto d’amore che si dispiega lungo i secoli e che intende portarci ad accogliere con ogni fibra del nostro essere quel desiderio di comunione/ paternità che Dio nutre nei nostri confronti.
Ma a noi a volte sembra che questo essere “predestinati” vada a ledere la nostra libertà e ci teniamo delle zone franche, delle zone (degli ambiti di vita o dei tempi) “per noi”, che ci gestiamo cioè in maniera autonoma, proprio per affermare la nostra libertà: zone franche “per me”, in autonomia dalla mia famiglia o dalla mia comunità o dai miei doveri… Ed è invece proprio lì che liberi non siamo: laddove crediamo di esserlo è proprio lì che il serpente antico ci aspettava per renderci ancora schiavi di noi stessi. Per quanto la Pasqua di Cristo ci abbia redenti e resi forti agli assalti del nemico, tuttavia le logiche di peccato, che il tanto male compiuto lungo la storia ha accumulato nelle nostre società e nel nostro pensare comune, continuano ad influenzarci e a condizionarci in parte.
Immacolati per chiamata
È bello oggi allora contemplare nel vangelo (Lc 1,26-38) la libertà pienamente responsabile di Maria, che fu libera di accogliere un progetto che la superava ma la coinvolgeva interamente e fu libera di dedicarsi tutta a quel progetto: «avvenga per me secondo la tua parola» (1,38).
Parlare dell’immacolata concezione di Maria è dire che la vergine di Nazaret fu graziata dai condizionamenti di male che ci derivano dal vivere in questo mondo segnato da una lunga storia di peccato. Maria fu sostenuta in modo speciale dalla grazia nell’accogliere con volontà pienamente libera e integrale la propria vocazione. Dire “concepita senza macchia” non significa dire che Maria non fu tentata di dire di no e che fu “obbligata” dalla grazia ad offrire la propria volontà; significa invece dire che fu sostenuta nell’aderire totalmente al progetto di Dio, con piena libertà e con tutta se stessa (senza tenere nulla “per sé”, senza lasciarsi condizionare dal pensiero di questo mondo).
E dove la libertà umana aderisce pienamente alla volontà divina il male è sconfitto! Girolamo, nel tradurre il testo del protovangelo in latino, sceglie di volgere al femminile il pronome dimostrativo: “ella ti schiaccerà la testa” riferendo così il verbo non alla discendenza della donna e nemmeno ad un individuo specifico di questa discendenza, ma alla donna stessa. Così molti autori cristiani hanno potuto vedere qui la prefigurazione di Maria che con la sua piena libertà di donare se stessa, sostenuta dalla grazia di Dio, ha potuto innescare quella vittoria radicale sul male simboleggiata dalla testa schiacciata del serpente.
In Cristo anche noi – afferma Paolo – siamo scelti per essere “immacolati” (Ef 1,4), senza macchia. Non per concezione, come Maria, ma per chiamata! È la nostra piena realizzazione, la nostra piena fioritura: quella di essere totalmente liberi di determinarci per il bene! Contemplare il sì di Maria in questo giorno di festa ci fa gustare interiormente come la grazia superi effettivamente il peccato e questo può essere vero anche per noi. Nell’umanità di Maria contemplo la mia umanità che fiorisce nell’aderire con tutto me stesso (senza zone franche) e liberamente al sogno di Dio, nel farlo entrare in tutte le dimensioni della mia esistenza senza paura e senza vergogna, affinché tutto di me sia orientato alla comunione con lui e con i fratelli.
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