La II domenica d’Avvento celebra la preparazione escatologica e pone la comunità riunita accanto a Giovanni, il precursore dei tempi messianici. Come il profeta ha preparato il “resto d’Israele” al ritorno del popolo dall’esilio babilonese, come Giovanni ha preparato il popolo ad accogliere il messia, così la Chiesa prepara l’umanità ad accogliere la pienezza del Signore Veniente: «Popolo di Sion, il Signore verrà a salvare le genti» (Is 30,19.30; cf. Antifona d’ingresso).
La dimensione della preparazione si può esprimere valorizzando durante la settimana la cura dello spazio liturgico dove si riunirà la comunità per celebrare l’eucaristia domenicale, coinvolgendo i ministeri liturgici e altri operatori pastorali. Liturgicamente la preparazione si esprimerà anche immediatamente prima della celebrazione domenicale aiutando l’assemblea celebrante con le prove dei canti e il silenzio di raccoglimento sia nell’aula liturgica sia in sacrestia per i ministri.
Anche la proposta della preparazione del presepe in famiglia e in altri ambienti di vita (Cf. Direttorio su Pietà popolare e liturgia, n. 104) potrà essere un modo pastoralmente indicato per valorizzare la dimensione dei “precursori del Signore”.
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Indicazioni liturgiche
- Per il saluto liturgico si propone di utilizzare Ef 6,23 (MR p. 310).
- Per l’Atto penitenziale si può utilizzare il III formulario introdotto dalla monizione “Riconosciamoci tutti peccatori” (MR p. 312) e le invocazioni del Tempo di Avvento 2 (MR p. 315).
- Come orazione colletta si suggerisce di pregare quella alternativa per il Tempo di Avvento. II domenica B (MR p. 1004).
- I temi biblici della venuta del Signore, della sua preparazione, dei cieli nuovi e della terra nuova suggeriscono la scelta del Prefazio dell’Avvento I/A: Cristo, Signore e giudice della storia (MR p. 330).
- Per la benedizione finale si suggerisce la Benedizione solenne 1: nell’Avvento (MR p. 456).
Monizione introduttiva
Oggi, la liturgia ci pone accanto alla testimonianza di Giovanni il precursore. All’inizio di ogni esperienza di salvezza c’è sempre una Parola di Dio, un lieto messaggio, una notizia bella. Così ha inizio il ritorno del popolo esiliato nella propria terra; così ha inizio il Vangelo di Marco; così ha inizio la testimonianza e la missione di Giovanni, scelto e mandato dal Signore a preparare la via al Messia. Anche noi come Giovanni il precursore vogliamo accogliere la missione che il Signore ci dona: aiutare gli altri ad incontrare il vero Salvatore del mondo: Gesù Cristo.
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Invochiamo ora lo Spirito Santo perché ci prepari a celebrare i divini misteri, in cui gusteremo ancora una volta gli inizi dei cieli nuovi e della terra nuova.
Avvento 2023 – Commento alle Letture di domenica 10 Dicembre 2023 4,2 Mb 58 downloads
Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi…«Alcuni parlano di lentezza» (2Pt 3,9). Questa frase tratta dalla seconda lettera di Pietro, il testo più tardivo del Nuovo Testamento, ci descrive una situazione in cui la prospettiva del ritorno di Cristo e della ricapitolazione della storia non era più così presente nella comunità cristiana. Oramai dalla venuta del Messia nella carne era passato molto tempo e cominciava a circolare l’idea che forse egli non sarebbe più tornato. E così ogni prospettiva futura si ripiegava su una assolutizzazione del presente, unico orizzonte plausibile.
«Alcuni parlano di lentezza» è una frase che descrive bene la smania dell’uomo di vedere subito tolti i suoi mali, subito esaudite le sue suppliche. Le crisi devono trovare un esito immediato e le relazioni interrotte devono trovare un ristabilimento istantaneo, diversamente non si è molto disposti ad entrare nel lungo e faticoso processo del perdono. Si tratta di una mentalità molto presente anche nella nostra cultura contemporanea che tende a uccidere ogni attesa vedendola come tempo perso. Siamo sempre più abituati a volere qualcosa e subito ad averla.
Il Signore non tarda a realizzare la sua promessa!
La parola di Dio oggi ci invita a riconsiderare lo spessore del tempo e il valore dei processi lenti. Rispetto all’epoca del proto-cristianesimo, sono cambiati decisamente i contenuti della speranza: la seconda lettera di Pietro (2Pt 3,8-14) lascia intuire che l’attesa che rischiava di affievolirsi aveva a che fare con un futuro radicalmente nuovo, con un ritorno risolutore del Cristo che avrebbe portato il Regno di Dio alla pienezza della sua manifestazione. Oggi l’oggetto della speranza riguarda generalmente un tempo di pace, delle relazioni ristabilite, la possibilità di vedere ancora un futuro per questo nostro mondo che soffre dal punto di vista sociale, culturale ed ecologico; ben vengano anche queste nostre speranze “immanenti”, poiché esse allenano il cuore a coltivare anche l’ultima e definitiva speranza, quella dei «nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia» (3,13).
Purtroppo la questione è che la velocità vertiginosa del nostro tempo tende a contrarre nelle persone la capacità di sperare in qualcosa che non trova subito corrispondenza in una realizzazione manifesta. Ecco che la seconda lettura di oggi ci offre due riflessioni molto attuali.
La prima: il tempo è – nella percezione che si ha di esso – relativo. Noi tendiamo ad assolutizzare la nostra percezione, ma sappiamo bene che gli altri percepiscono in modo diverso: ciò che a me appare troppo lungo e noioso, per altri può essere veloce e viceversa. Tanto più la mia percezione del tempo è assolutamente soggettiva se paragonata ai tempi di Dio, lui che ha nelle mani l’intera storia, che è all’origine della stessa creazione del tempo e che desidera un compimento di bene per tutti: mille anni e un giorno solo sono le due unità di misura che ci fanno intuire la sproporzione tra ciò che a noi può apparire come un’eternità, ma che in realtà è solo il frammento della nostra percezione, noi che siamo solo una goccia rispetto all’oceano della storia.
Ma c’è una seconda nota molto suggestiva: ciò che a noi appare come una lungaggine di Dio in realtà è la cifra della larghezza del suo cuore! Il verbo makrothyméo (3,9), tradotto «è magnanimo», indica propriamente l’avere un “animo lungo”, cioè che sa aspettare senza pretendere, che sa dare tempo ed è generoso, come un creditore che accorda una dilazione a chi è in debito con lui o come il contadino che lascia ancora un anno di tempo al fico per produrre frutti. Non è ritardo, ma è una concessione per noi, perché «tutti abbiano modo di pentirsi».
In effetti è così: la sazietà ci impedisce di prendere coscienza davvero delle cose; un po’ di privazione, di mancanza (il desiderio di una pienezza che manca) ci fa invece tornare a contatto con il nostro cuore. Esattamente come accadde per il popolo errante nel deserto, la cui fame e sete gli permise di capire che cosa avesse nel cuore (se avrebbe osservato o no i comandamenti di Dio: cf. Dt 8,2). La mancanza è lo spazio della verità di sé e dunque anche del pentimento.
Ma perché pentirsi è necessario?
L’Avvento ci è necessario per capire che non è la sazietà la condizione più favorevole per aprirsi alla visita di Dio, ma la mancanza. Chi non fa un po’ di vuoto come potrà lasciare entrare la salvezza? Chi non sente di avere anche “zone d’ombra”, chi non ammette di non essere così lineare e retto come spesso invece ci illudiamo di essere, come potrà comprendere di non essere il signore della propria esistenza? In tutta la Scrittura, la condizione che prepara l’intervento di Dio è il grido che sale da una condizione di schiavitù o di indigenza o di bisogno (cf. Es 2,23-24) e che per essere innalzato ha bisogno di tempo (senza che subito ci sia appagamento).
Nel testo di Isaia proposto dalla liturgia odierna (Is 40,1-5.9-11) risuonano proprio questi temi tratti dall’antica epopea dell’Esodo e riletti in chiave profetica a partire dalla nuova situazione del popolo esiliato in Babilonia. Lo scotto dell’esilio diventa la possibilità per gli scacciati da Gerusalemme di rileggere il proprio passato e di riconoscerne il peccato (in termini di autoreferenzialità e millantata sicurezza): «Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che […] la sua colpa è scontata» (40,2). Il deserto è quindi il luogo simbolico che parla di un popolo che si riscopre limitato, bisognoso di salvezza, radicalmente dipendente dal Creatore: è la fase che prepara il ritorno.
Il testo di Isaia parla di un deserto dove “preparare la via al Signore”. Essa è la strada che conduce gli esuli nuovamente alla terra (come, sempre attraverso il deserto, condusse il popolo liberato dall’Egitto). È la strada sulla quale Dio conduce il popolo alla salvezza. La preparazione di cui parla il profeta naturalmente non serve a Dio, ma all’uomo che ha bisogno di coltivare le predisposizioni giuste per lasciarsi incontrare e salvare. Le immagini del terreno da spianare, degli avvallamenti da innalzare e dei monti da abbassare sono simbolicamente ricche e aperte a diverse possibili attualizzazioni di natura sociale (processi di integrazione, disuguaglianze da combattere, povertà da contrastare…) o psicologica (ricerca di linearità interiore, orgoglio o cedimento alla tristezza da contrastare…). È nello sforzo di compiere questa preparazione che si può tornare capaci di vedere la manifestazione del Signore («si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno»: 40,5). Infatti sono proprio le strutture sociali di peccato oppure i dinamismi interiori non lineari che spesso ci impediscono di cogliere l’opera di Dio; il peccato rende ciechi e sordi.
Il testo profetico insiste dunque sull’annuncio di speranza che deve essere gridato in modo insistente e a cui ci si deve invitare reciprocamente, proprio perché l’uomo è spesso più incline ad ascoltare gli annunci di morte e di disperazione o – comunque – raramente è disponibile ad accogliere nel suo mondo interiore una parola di novità.
«Come sta scritto nel profeta Isaia, vi fu Giovanni che battezzava nel deserto».
Il vangelo di Marco, di cui la liturgia ci fa ascoltare oggi l’inizio (Mc 1,1- 8), stabilisce una stretta continuità tra l’invito del profeta e l’attività del Battista nel deserto. La prassi battesimale di Giovanni, per come Marco la introduce nel suo racconto, attualizza quella preparazione di cui Isaia parla (ancora il luogo simbolico del deserto emerge in modo forte). Il battesimo di Giovanni viene definito «battesimo di conversione per il perdono dei peccati»; come nelle altre letture la disposizione dell’uomo ad accogliere la visita di Dio passa attraverso il pentimento.
Qui però l’accento è posto sulla parola “conversione” che in greco (metanoia) indica un cambiamento di mentalità, un orientamento diverso dato al proprio modo di pensare e di vedere la vita. Ma certamente dietro a questa terminologia c’è anche la semantica del verbo ebraico shuv (“ritornare, rivolgersi indietro”) utilizzato molte volte nella Bibbia per indicare la conversione vista come “ritorno al Signore” da cui ci si era allontanati. Un’autentica conversione non implica solo il pentimento delle colpe passate, la volontà di ripararle (il desiderio e lo sforzo di cambiare vita); l’elemento essenziale è il ritorno sincero al Signore, per ristabilire con lui un rapporto di fiducia e di adesione totale alla sua volontà. Ancor prima che un discorso morale (“non voglio peccare più”) c’è un discorso relazionale (“ritorno a fidarmi di Dio e a rivolgermi a lui”).
In effetti al cuore della buona notizia, come stabilisce con forza Marco nel titolo della sua opera (1,1), non c’è un messaggio o un pensiero ma una persona (Gesù) che rende presente la volontà di Dio di salvare il suo popolo (è Cristo, cioè Messia) e la sua manifestazione in mezzo agli uomini (è figlio di Dio).