Conferenza Stampa di presentazione del Messaggio del Santo Padre Francesco per la 50ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 22.01.2016

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Alle ore 12.00 di oggi, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, si tiene la Conferenza Stampa di presentazione del Messaggio del Santo Padre Francesco per la 50ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, sul tema: “Comunicazione e Misericordia: un incontro fecondo”.

Intervengono: Mons. Dario Edoardo Viganò, Prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede; il Dott. Paolo Ruffini, Direttore di TV2000; la Prof.ssa Marinella Perroni, Biblista, Docente di Nuovo Testamento al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo (Roma).

Ne pubblichiamo di seguito gli interventi:

Intervento di Mons. Dario Edoardo Viganò

La Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali che la Chiesa celebrerà il prossimo 8 maggio 2016 è la cinquantesima in ordine temporale.

Si tratta di un anniversario che rimanda al Concilio Ecumenico Vaticano II e, per noi in particolare al Decreto sugli strumenti di comunicazione sociale Inter Mirifica (4 dicembre 1963), che al n. 18 afferma: «al fine poi di rendere più efficace il multiforme apostolato della Chiesa con l’impiego degli strumenti di comunicazione sociale, ogni anno in tutte le diocesi del mondo, a giudizio dei vescovi, venga celebrata una “giornata” nella quale i fedeli siano istruiti sui loro doveri in questo settore, invitati a speciali preghiere per questo scopo e a contribuirvi con le loro offerte. Queste saranno debitamente destinate a sostenere le iniziative e le opere promosse dalla Chiesa in questo campo, secondo le necessità dell’orbe cattolico».

È l’unica giornata mondiale a essere stabilita dal Concilio. È inoltre la Giornata che si volge nel mezzo del grande Giubileo straordinario della misericordia, cui fa diretto riferimento il tema “Comunicazione e Misericordia: un incontro fecondo”. E’ un invito perché la Chiesa assuma la consapevolezza che è chiamata a vivere secondo le parole di Gesù, che annunciano una misericordia che soprassa ogni legge, e a specchiarsi nella prassi di Gesù per assumere i suoi sentimenti, atteggiamenti e comportamenti. In questa prospettiva, dunque, la Chiesa ha la responsabilità di narrare in parole e opere, in atteggiamenti e forme di vita – quindi, in comunicazione – il volto misericordioso di Dio in Cristo.

[ads2]Infine, è la prima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali che celebriamo dopo la costituzione della Segreteria per le Comunicazioni da parte di papa Francesco. A questo proposito voglio richiamare alcuni elementi del Motu proprio (27 giugno 2015): «L’attuale contesto comunicativo caratterizzato dalla presenza e dallo sviluppo dei media digitali, dai fattori della convergenza e dell’interattività […] richiede un ripensamento del sistema informativo della Santa Sede […] valorizzando quanto nella storia si è sviluppato all’interno dell’assetto della comunicazione della Sede Apostolica, proceda decisamente verso una integrazione e gestione unitaria. Per tali motivi, ho ritenuto che tutte le realtà, che, in diversi modi fino ad oggi si sono occupate della comunicazione, vengano accorpate in un nuovo Dicastero della Curia Romana, che sarà denominato Segreteria per la Comunicazione […] il sistema comunicativo della Santa Sede risponderà sempre meglio alle esigenze della missione della Chiesa. […] dopo aver esaminato relazioni e studi, e ricevuto di recente lo studio di fattibilità, sentito il parere unanime del Consiglio dei Cardinali, istituisco la Segreteria per la Comunicazione».

La misericordia è il tratto distintivo dell’agire e dell’essere della Chiesa

Nel discorso di apertura del Concilio Vaticano II, in Gaudet mater ecclesia (11 ottobre 1962), Giovanni XXIII così si esprimeva: «quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore». Affermazione centrale che attesta come il rapporto tra Chiesa e misericordia non sia un rapporto estrinseco, se non addirittura accidentale (insomma declinato secondo la logica della congiunzione), quanto piuttosto intrinseco, costitutivo, che tocca l’identità stessa della Chiesa. È l’esperienza di Pentecoste l’inizio dell’esperienza storica della Chiesa (cfr. Atti degli Apostoli).

La Chiesa è portatrice della memoria di Gesù e quindi non può declinare le parole del suo annuncio, se non in rapporto alla misericordia. Sono parole attese da chi pensa di essere lontano dal Dio della misericordia di cui spesso abbiamo un’immagine deformata, come Dio giudice spietato e incapace di coinvolgersi con i limiti della sofferenza. Ma sono parole urgenti per la Chiesa stessa, che viene rigenerata da queste parole; d’altronde la Chiesa non dimentica che è posta sotto il segno della misericordia senza la quale neppure esisterebbe.

Per l’uomo e la donna di oggi, e per la Chiesa di Gesù, queste le parole da offrire come antidoto a quelle dure dei precetti, pronunciate da coloro che accusano l’imperante relativismo e l’irrevocabilità dei valori. Non può esistere contraddizione tra contenuto dell’annuncio e forme di vita ecclesiale: ecco perché non si tratta di parole semplicemente.

Possiamo dire, con Hans Urs von Balthasar, che la questione della misericordia è il caso serio, sia nel senso di grave sia nel senso di elemento essenziale. L’annuncio della misericordia, e la mediazione di un’esperienza di misericordia, è la cartina di tornasole della relazione con il fondamento che è Gesù e anche verifica della fede escatologica della Chiesa stessa (che è regno di Dio come comunione di misericordia).

La Chiesa che siamo chiamati a essere non può che vivere secondo le parole di Gesù, che annunciano una misericordia che soprassa ogni legge, e non può che specchiarsi nella prassi di Gesù per assumere i suoi sentimenti, atteggiamenti e comportamenti. In questa prospettiva la Chiesa ha la responsabilità di narrare in parole e opere, in atteggiamenti e forme di vita, il volto misericordioso di Dio in Cristo.

La Chiesa chiamata a partecipare alla missione messianica deve saper vivere in reale autentica umanità: deve apprendere da Gesù a declinare la misericordia in parole di speranza e di vita e in gesti coinvolgenti, lasciandoci toccare dalle vicende dell’umano e sapendo, come più volte ricorda Papa Francesco, toccare la carne degli ultimi. Come le sue parole e le sue azioni di liberazione, la Chiesa è chiamata a rivelare il volto di un Dio che davanti al bisogno e al dolore dell’uomo si fa vicino compartecipe, umanamente coinvolto.

Nell’ascolto si consuma una sorta di martirio

L’uomo contemporaneo è diventato – dice Max Picard nel testo Il mondo del silenzio (Edizioni Di Comunità 1950) – un’appendice del rumore, uno spazio del rumore. Si va atrofizzando, in un contesto di parole gridate, parlate e non più parlanti, la nostra capacità di ascolto che viene ridotta ai livelli minimali. Un disamore per l’ascolto produce un linguaggio disoccupato il cui tratto è la disattenzione.

L’ascolto è un atto necessario allo svolgersi della comunicazione, e prevede anzitutto il silenzio, condizione indispensabile per ricevere ogni parola pronunciata e coglierne il significato. Di conseguenza, più un individuo sarà capace di stare in silenzio, maggiore sarà il valore delle parole che proferirà, essendo esse il frutto di una meditazione. Il silenzio è una condizione tanto indispensabile alla comunicazione, che Erving Goffman (Il comportamento in pubblico, Einaudi 1963) nella sua teoria dell’interazione sociale postula l’organizzazione di ogni situazione dialogica in «turni di parola».

Come ci ricorda il filosofo del linguaggio Ugo Volli (Apologia del silenzio imperfetto, Feltrinelli 1991): «è evidente che in ogni conversazione il diritto alla parola corrisponde simmetricamente a un obbligo di rispettare il proprio turno di silenzio; e in effetti la microsociologia ha rivelato una complessa rete di segnali e transazioni che si svolgono in ogni dialogo per regolare quell’oggetto della comunicazione e insieme del potere che è contenuto sempre nel rapporto tra silenzio, ascolto, parola» (p. 111.).

Siamo parlanti solo in quanto – e contemporaneamente – siamo ascoltatori, e in papa Francesco l’attenzione a questa dicotomia è costante. Si è peraltro soffermato sull’argomento anche papa Benedetto XVI, in riflessioni che coniugano comunicazione, spiritualità e conoscenza: «il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto. Nel silenzio ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi, nasce e si approfondisce il pensiero, comprendiamo con maggiore chiarezza ciò che desideriamo dire o ciò che ci attendiamo dall’altro, scegliamo come esprimerci. […] Là dove i messaggi e l’informazione sono abbondanti, il silenzio diventa essenziale per discernere ciò che è importante da ciò che è inutile o accessorio. Una profonda riflessione ci aiuta a scoprire la relazione esistente tra avvenimenti che a prima vista sembrano slegati tra loro, a valutare, ad analizzare i messaggi; e ciò fa sì che si possano condividere opinioni ponderate e pertinenti, dando vita ad un’autentica conoscenza condivisa. Per questo è necessario creare un ambiente propizio, quasi una sorta di “ecosistema” che sappia equilibrare silenzio, parola, immagini e suoni» (Messaggio per la XLVI Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione, 24 gennaio 2012).

Come ricorda anche Sant’Agostino, «la nostra anima ha bisogno di solitudine. Nella solitudine, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa: per vedere Dio è necessario il silenzio» (Sant’Agostino, Commento al Vangelo di San Giovanni, Città Nuova 1968, p. 405). Ma il silenzio non è soltanto meditazione e ascolto; come abbiamo visto già in occasione della prima apparizione pubblica di Bergoglio, il silenzio è esso stesso comunicazione (eventi trasformativi).

Il silenzio è raccoglimento e meditazione silenziosa, una pratica cui il Santo di Assisi attribuiva grande importanza, come testimonia Tommaso da Celano, che pur non essendo uno dei suoi primi seguaci, ebbe modo di conoscerlo personalmente: «cercava sempre un luogo appartato dove potersi unire, non solo con lo spirito, ma con le singole membra al suo Dio. E se all’improvviso si sentiva visitato dal Signore, per non rimanere senza cella, se ne faceva una piccola con il mantello. E se a volte era privo di questo, ricopriva il volto con la manica per non svelare la manna nascosta. Sempre frapponeva fra sé e gli astanti qualcosa, perché non si accorgessero del contatto dello sposo: così poteva pregare non visto anche se stipato tra mille, come nel cantuccio di una nave. Infine, se non gli era possibile niente di tutto questo, faceva un tempio del suo petto. Assorto in Dio e dimentico di se stesso, non gemeva né tossiva, era senza affanno il suo respiro e scompariva ogni altro segno esteriore» (Vita seconda di San Francesco d’Assisi, in Fonti Francescane, n. 681).

Voglio concludere con una citazione di Dietrich Bonhoeffer (Sequela) «I misericordiosi hanno un amore irresistibile per gli umili, i malati, i miseri, per chi stato umiliato e ha patito violenza, per chi subisce torti ed è estromesso, per chi si tormenta e si affligge; essi cercano chi è caduto nel peccato e nella colpa. Nessuna miseria è troppo profonda, nessun peccato troppo terribile, perché non vi applichi misericordia. Il misericordioso da dono del proprio onore a chi è caduto nella ignominia e se ne fa carico. Si fa trovare presso i pubblicani e i peccatori e assume volontariamente la vergogna della familiarità con loro […] Essi conoscono solo una dignità e un onore: la misericordia del loro Signore, della quale soltanto vivono» (Queriniana 1997, p. 103).

È la beatitudine della misericordia che la Chiesa è chiamata a vivere anzitutto nelle sue relazioni perché la comunità cristiana non è un gruppo elitario né è costituita da perfetti. Paolo ai Colossesi (Col 3,12-15) invita ciascuno di noi a riconoscere il punto di partenza della vita cristiana ed ecclesiale che è l’amore di Dio e, per grazia, la partecipazione alla sua santità.

A ciascuno di noi auguro di vivere il coraggio dell’azzardo del poeta oggi, perché «come il mistico, ha provato almeno per una volta nella sua vita il desiderio di “morire in silenzio”. Da questa Geenna del rumore, che è la nostra vita quotidiana, da questa “galleria del vento di pettegolezzi” e di chiacchiere nasce spontanea la nostalgia del silenzio, il desiderio di far ammutolire le parole strumentalizzate e di scoprire le parole del silenzio. L’uomo contemporaneo sia pure inconsapevolmente, sta gridando con Verlaine: “Datemi il silenzio”, e l’amore del mistero!”» (M. Baldini, Elogio del silenzio e della parola, Rubbettino 2005, pp. 84-85).

Intervento del Dott. Paolo Ruffini

Devo cominciare questo mio breve intervento con una confessione: lavoro da tanti anni nel mondo della televisione; ma io non lo so davvero come si fa a raccontare storie di misericordia attraverso le immagini.

Io non lo so se esiste un modo, un metodo.

Anzi…

Quello che so, o credo di sapere, è che se riduciamo tutto ad una regola, ad una norma rischiamo di non comunicare nulla; riduciamo le immagini ad una fredda apparenza; il racconto ad una calligrafia.

Mentre per comunicare la misericordia bisogna camminarci dentro. Farne esperienza. Condividerla.

To share. Condividere.

Il mondo della televisione ha ridotto lo share ad un numero che misura una massa; ad un indice che serve per pesare il valore degli investimenti pubblicitari. Laddove invece se c’è una grandezza da misurare è quella della pienezza, della bellezza, di questa condivisione. E’ una grandezza che sta nella sua unicità.

Ecco, in tanti anni di televisione se c’è una cosa che ho imparato è l’importanza non dello share in quanto tale, ma della sua qualità.

E qui – credo – c’è una prima, imperfetta risposta all’invito che oggi ci fa il Papa: creare ponti, favorire l’incontro e l’inclusione. Tenere insieme la misericordia e la verità.

La nostra parte proprio in questo sta: costruire una condivisione (uno share), una prossimità unica, con le persone tutte intere e una per una; non con una massa anonima.

Il nostro compito, a proposito di comunicazione con le immagini, è quello di capovolgere la visione, il modo stesso di vedere le cose.

A proposito di immagini, io sono molto affezionato ad una che racconta bene questo capovolgimento.

E’ una foto che ritrae un gruppetto di bambini in una favela brasiliana.

Sereni e giocosi come sono tutti i bambini. I nostri e quelli degli altri. I poveri come i ricchi, inconsapevoli del valore del denaro; e consapevoli invece del valore della relazione con l’altro.

Questa foto ne ritrae alcuni intenti a giocare. Sorridenti, mentre guardano il mondo a testa in giù. Cambiando dunque totalmente il punto di vista.

Sovvertendo l’alto e il basso, il sopra e il sotto.

E lasciandoci involontariamente un messaggio.

I bambini sono quanto di più vicino a Dio c’è sulla terra.

Bisogna sempre saper imparare dai bambini.

Per esempio a vedere le cose in un’altra prospettiva.

Proprio perché si tratta di uno sguardo, mi viene da dire che la misericordia si possa solo vedere e far vedere. E che una televisione che voglia comunicare la misericordia si fonda su questo sguardo, dato o ricevuto. Condiviso.

Si fonda su un riconoscimento, che è il contrario dell’autocompiacimento di chi si guarda allo specchio.

Si fonda su un cammino, che è l’opposto della ripetizione.

Questo vuol dire cambiare totalmente la prospettiva. Il punto di vista.

Reagire al dualismo feroce del web (mi piace, non piace- amico-nemico, ti scrivo-ti cancello), che riduce la vita ad un gioco (game on game over), grazie alla comprensione di uno sguardo, all’inclusione di uno sguardo, alla creazione di una insiemità, di una rete di sguardi.

Passare da una tv dello scontro, che brandisce le identità come corpi contundenti, ad una tv dell’incontro, del dialogo.

Da una tv che o è smemorata o usa brandelli di memoria per costruire muri, ad una tv che conserva sempre la memoria per aiutarsi e aiutarci a non ricommettere gli stessi errori.

Da una tv che si esalta nel brivido della violenza, anche solo verbale, costruita in arene sempre meno virtuali; ad una tv fondata sulla carezza di uno sguardo misericordioso, capace di farsi carico dell’altro.

Da una tv che divide fra noi e loro a una tv del noi.

Da una tv che esibisce cinicamente il dolore degli altri ad una tv che lo condivide con rispetto, discrezione, partecipazione, per riscattarlo, trasfigurarlo.

Da una tv ad una sola dimensione, che separa il corpo dall’anima, ad una tv che vede l’anima nel corpo ed è capace di porsi le domande ultime.

Da una tv di plastica, costruita a tavolino, ad una tv di carne e ossa, capace di rompere il velo dell’ipocrisia che ci avvolge, e di portare nelle case realtà che vorremmo forse non conoscere.

La sfida di una comunicazione televisiva fondata sulla misericordia sta nella capacità di vedere al di là dell’apparenza, che è cosa diversa dal mostrare; sta in un modo diverso di guardare alle cose, e ancora di più alle persone: capirle.

Una tv che costruisce la capacità di guardare il mondo con occhi di misericordia non può aver paura di essere piantata nella realtà. Non si rinchiude nel chiuso dei propri studi. Non costruisce un mondo a propria immagine. Non vende sogni a buon mercato. Sceglie la prossimità come criterio per comprendere, per capire, per sorprendersi e per sorprendere, per agire, per scegliere. Per piangere e per ridere. Per emozionarsi. Per ragionare. Si fa prossima alle persone in carne ed ossa nel mondo reale, non in quello virtuale. Smaschera l’alibi di poter dire non sapevo. Non potevo sapere. Non avevo visto. E’ capace di cogliere la grandezza anche nelle piccole cose.

Lo fa con la semplicità di un artigiano che come diceva Sant’Agostino vede nel tronco non solo quel che è , ma quel che sarà.

Vede in ogni cosa uno sviluppo, un processo.

“Si vede bene solo col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”, fa dire Saint-Exupéry al piccolo principe. E ricordava il cardinal Martini.

Certo non è facile raccontare per immagini cose invisibili agli occhi.

Ma – come scrive il Papa – “non è la tecnologia che determina se la comunicazione sia autentica o meno…”

Non è nemmeno la liturgia perfetta dei tanti sedicenti guru della televisione.

E’ lo sguardo puro.

Io diffido sempre dai teorici della Tv come un mondo a parte, autoreferenziale, con i suoi riti, le sue leggi.

Credo che questo modo di fare che apparentemente trasforma la televisione in una religione, la releghi ad essere emarginata storicamente, la costringa a vivere in un mondo parallelo solo apparentemente incantato, in realtà marcio e dunque fragile, non duraturo.

Non c’è peggior comunicatore di chi crede di sapere già tutto, incasellando storie e persone in schemi astratti. O di chi addomestica la realtà per renderla più simile a come la vorrebbe.

Non c’è comunicazione se non c’è capacità di ascolto e di visione.

Davvero, se c’è un linguaggio da recuperare, questo è quello libero dei bambini.

Ermanno Olmi, un poeta delle immagini, e un cristiano, lo sostenne parlando di San Francesco, citando Tolstoy a proposito degli scrittori. E Picasso a proposito della pittura. Vale anche per una televisione che voglia raccontare e costruire una storia di misericordia, avere lo stesso sguardo di Gesù sul mondo, e raccontare la realtà senza arrendersi agli stereotipi; o ai circoli viziosi delle condanne e delle vendette, che – come scrive il Papa – continuano ad intrappolarci.

La misericordia è lo sguardo che ci rende liberi di raccontare la verità nel mondo.

Intervento della Prof.ssa Marinella Perroni

Una premessa

Fare quanto mi è stato richiesto, e cioè “cercare un aggancio sul testo e parlare del binomio comunicazione e misericordia partendo dalla Bibbia” è cosa da “maneggiare con cura”. Come, del resto, lo è il vostro lavoro, in cui l’intersezione tra più livelli (correttezza dell’informazione e laicità della prospettiva, da una parte, e, dall’altra, esigenze multiple connesse al vostro servizio professionale a una confessione religiosa) richiede grande capacità di fare distinzioni e di controllare intersezioni e intrecci.

Lo premetto non perché io possa entrare in questa problematica nei pochi minuti a mia disposizione, ma perché essa si impone soprattutto nel momento in cui viene richiesto di coniugare insieme un termine di ampia portata universale, comunicazione, e un termine di stretto significato religioso, misericordia, a partire dalla sue radici biblico-teologiche e in connessione con un evento quale l’anno giubilare della chiesa cattolica.

Sullo sfondo, tra l’altro, dei forti interrogativi che le tre religioni monoteiste, che si reggono sul convincimento che la comunicazione può avere una portata teo-logica perché appartiene all’identità stessa di Dio.

Due suggestioni

Per quanto riguarda la Bibbia, molto si può dire, anche se sarebbe necessario evitare luoghi comuni che, banalizzando entrambi i termini del binomio, rischiano di svuotarlo di significato teologico “forte”. Mi limito dunque a due suggestioni che partono dal discorso di Papa Francesco e che possono avviare una riflessione sul rapporto tra comunicazione e misericordia in prospettiva biblico-teologica.

Entrambe queste suggestioni, collegano il binomio comunicazione-misericordia alla grande tradizione profetica di Israele che arriva in Gesù di Nazareth al suo compimento.

1. Informare-comunicare: due operazioni che, come ricorda il Pontefice, richiedono due diverse capacità e due diversi atteggiamenti, udire-ascoltare, che non sempre si compenetrano vicendevolmente. Tra l’uno e l’altro ci vuole la mediazione del “cuore”, cioè della sapienza della vita e del vivere. E’ il rimprovero duro che i profeti anteriori all’esilio hanno rivolto a un popolo a cui Dio ha fatto udire la sua voce, ma che non è stato in grado di ascoltarla (cfr Is 6,9s). E’ il motivo per cui Gesù sceglie di parlare in parabole, cioè in modo tale che solo alcuni, quelli che accettano “una sorta di martiro, un sacrificio di se stessi” (sono parole del Papa), possono essere in grado non solo di udire, ma anche di ascoltare (Mc 4,12; Mt 13,14).

2. Guarire la memoria ferita: un tema immenso e di straordinaria importanza nel momento in cui la fede di Israele prima e dei cristiani poi si radica nella convinzione che Dio è il Dio della storia fino al punto massimo di tale convinzione che è la fede nell’incarnazione. La storia impone la guarigione della memoria. I profeti post-esilici, da questo punto di vista, sono emblematici perché alzano la loro voce per consolare (Is 40,1-31).

Ministero dell’ascolto e ministero della consolazione: quando la comunicazione passa attraverso il “cuore”, quando è impastata a sapienza del vivere e sapienza della vita, diviene ministero della misericordia.