Il contesto del cap. 10, in cui si inserisce il nostro brano, è tutto incentrato sul discorso autorivelativo di Gesù che comincia con la proclamazione di essere l’unico mediatore possibile: “io sono la porta delle pecore” (vs. 7), per continuare con l’affermazione di essere colui che ci guida verso il Padre attraverso l’ascolto della sua Parola e il mistero pasquale della sua morte e risurrezione: “io sono il buon pastore” (vs. 11).
L’immagine di Dio-pastore del suo popolo era già ampiamente presente nelle Scritture veterotestamentarie e dunque la rivelazione di Gesù all’inizio di questo brano si presenta subito come una rivendicazione messianica. Tuttavia, ancora una volta, profondamente diverse sono le caratteristiche di Gesù-Messia rispetto alle attese del popolo eletto.
La bontà del pastore del nostro brano consiste, infatti, nel “deporre” (tìthemi) la vita con libertà, in uno svuotamento che è rivelativo della misericordia e della cura del Padre nei nostri riguardi. Il potere più grande del pastore è proprio questo: deporre la vita; non un abbandonarsi alla morte ma un rischiare consapevolmente per la salvezza delle pecore. Gesù che si spossessa della sua vita manifesta la volontà del Padre di farsi prossimo alle sue creature, in una scelta di essere senza potere, in cui si dovrebbe estrinsecare anche la pastoralità della chiesa.
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La centralità del “deporre la vita” è resa evidente non solo dall’insistenza con cui viene ripetuto nel testo (5 volte in pochi versetti) ma anche, e soprattutto, in quanto condizione che rende possibile che anche le altre pecore che non sono dello stesso ovile possano essere condotte e possano affidarsi al Pastore e quindi appartenergli.
L’opposizione tra Gesù Buon Pastore e i falsi pastori si attua nel rapporto di conoscenza tra il pastore e le pecore. Una conoscenza, cifra interpretativa del brano, che deriva da una presenza e da una esperienza, basata sull’ascolto, da una relazione profonda.
Tutte le pecore che ascolteranno la sua voce, indipendentemente dalla loro provenienza, in una prospettiva universalistica di salvezza, apparterranno alla comunità di Gesù.
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Non c’è una volontà di separazione, di ergere steccati, ma l’unico discrimen è dato dall’ascolto.
Inoltre, il Pastore è pronto a lasciare le novantanove pecore per andare a cercare l’unica che si è perduta, differentemente dal mercenario che non si prende cura delle pecore. L’appartenenza nasce da una conoscenza-amore che può realizzarsi solo a partire dall’ascolto della voce del Pastore. Le pecore infatti prendono consapevolezza di essere del Pastore quando riconoscono la sua voce.
La conoscenza reciproca tra le pecore e il pastore viene messa in relazione con la conoscenza reciproca tra Gesù e il Padre. Questo rapporto è espresso con kathòs che esprime non soltanto l’analogia tra le due tipologie ma il fatto che il primo è a fondamento del secondo. L’amore del Padre per il Figlio, infatti, precede ed è fondativo dell’amore tra il Pastore e le pecore.
Ciò fa sì che il tipo di conoscenza tra noi e Gesù non sia un’esperienza psicologica o una conoscenza intellettuale, per come può essere il rapporto tra un maestro e i suoi discepoli, ma si fonda e trova il suo modello nell’amore reciproco e nell’intima comunione che unisce Gesù e il Padre.
Gesù è in grado di deporre liberamente la vita per le pecore perché prima di tutto è stato lui a ricevere dal Padre una forza infinita di amore, è proprio l’amore che Gesù ha ricevuto dal Padre che lo rende capace di amare e che invita l’uomo a farsi spazio dell’amore di Dio: “Da questo ormai noi conosciamo l’amore: Lui, Gesù, si è espropriato della sua vita per noi”. (I Gv 3, 16).
Gv 10, 11-18 | Comunità Kairos 103 kb 3 downloads
Introduzione alla lectio divina di Gv 10,11-18 Domenica 21 aprile 2024 – IV di Pasqua …A cura di Monica per la Comunità Kairos.