Nel IV Vangelo il percorso di Gesù lungo il libro dei segni si è appena concluso con il segno eclatante della resurrezione di Lazzaro. Da lì la situazione è precipitata: condanna a morte e ordine di cattura lo attendono nella Gerusalemme dell’ultimo appuntamento pasquale.
Là, al suo ingresso, la folla lo ha accolto festante mentre i farisei hanno commentato irati: ecco che il mondo è andato dietro a lui (v 19). Infatti anche proseliti ellenisti, saliti per l’adorazione al tempio, tentano ora di vedere Gesù. E lui non eluderà, come appare, la loro richiesta, ma la elaborerà nel profondo. Lo vedranno. E non nel contatto superficiale, quasi predatorio, di una effimera gratificazione personale, ma, in un cammino di sequela, in quel riconoscimento di fede che conclude il capitolo, al v. 45: “chi contempla me, contempla colui che mi ha mandato”.
D’altro canto, questa presenza dei gentili definisce una svolta: l’apertura alle genti che si verificherà presto nella comunità. Gesù non è colui che è già stato riconosciuto dai Samaritani come Salvatore del Mondo (4,42)? … il Pastore bello che ha altre pecore da altri ovili (10,16) e per le quali offre la sua vita? … il reo appena condannato dal Sommo Sacerdote a morire non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio dispersi (11,52)?
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La sua persona, casa della relazione con il Padre e dimora dello Spirito, sostituirà il tempio. Non prima però del passaggio stretto finale: È giunta l’ora … che il Figlio dell’uomo sia glorificato. Più volte nel IV vangelo “glorificato” è usato per crocifisso. E alle soglie ormai dell’ultima cena, Giovanni costruisce qui un brano sinfonico, con modulazione di più temi, già dei sinottici, ma colorati dalla sua particolare lettura: È giunta l’ora, la consapevolezza in Gesù della morte vicina, rimanda ai triplici annunzi di Passione – Resurrezione da Marco in poi. Ma mentre quelli ridondano di realistica crudezza, il Gesù di Giovanni offre una visione trasfigurata del suo prossimo destino. La drammaticità vi viene stemperata, quasi obliata, nella luminosità anticipata della Gloria. È il modo di gustare la morte di chi la agisce e non la subisce, di chi obbedisce a una pienezza che lo abita nella libertà. Così la morte viene ingoiata dalla resurrezione, il dolore dal fulgore.
In questo Vangelo non troviamo parabole, ma la consapevolezza che Gesù ha maturato della sua missione vi viene narrata da un’immagine lieve, povera, il chicco di grano, destinato a morire alla terra per produrre molto frutto. Con semplicità vi è adombrato il senso finale della suo vivere e del suo morire, unificato in una umile forza. Se in Marco il seme figura la parola e la sua espansione, qui è proprio allusivo allo stesso Gesù, parola incarnata e affidata alla terra per una missione di fecondità vitale se solo accetta di disfarsi in quell’humus, che è la terra degli umani. L’alternativa, la sterilità, se non accettasse di donarsi, è letta da un “rimane solo”, perfetta interpretazione di una mancata solidarietà con gli umani. Sterilità di una vita: un mancato dono di sé, una mancata relazione, una mancata comunione.
Da qui quei paradossi, già tramandati, della vita che si guadagna perdendola e si perde conservandola! Da qui l’invito alla sequela per il discepolo servo.
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Poi il tempo concluso. L’ora, già tante volte elusa, è giunta. Un fremito appena, “Adesso l’anima mia è turbata”, sostituisce l’agonia del Getsemani, per sciogliersi nella richiesta fiduciosa al Padre di una sua manifestazione di Gloria.
A lui resta da dare ora la massima espressione dell’Amore, quella dell’Uomo completo, che nella sua umanità invasa dallo Spirito arriva a offrire la vita per i fratelli tutti, con tale completo abbandono e ubbidienza al Padre, da vedersela restituita dalla fonte stessa dell’Amore. Questa sarà la gloria di Gesù. Perfetta visibilità e peso dell’amore di Dio, offerti a noi. Vivente sulla croce, espressione serena e vesti regali è il Crocifisso icona dell’ortodossia, la chiesa che più ha fatto suo questo vangelo.
La croce è diventata il trono della salvezza, non più maledizione, rifiuto del cielo e della terra, ma, come predetto a Nicodemo (3,14), luogo dell’innalzamento verso il cielo di chi dal cielo è disceso: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Tutti insieme per un esodo finale di Salvezza.
Perché ognuno è seme, progetto divino in cui è inscritto un dinamismo pronto a manifestarsi, se rompendo con coraggio il guscio di protezione dentro cui si trincea, a difesa del poco o nulla che è, saprà realizzarsi nel donarsi. Questa la sequela del discepolo servo nell’itinerario pasquale.
“E nessun servo di Gesù sarà mai dispensato dal seguire il Maestro fino a quel punto, sino a questo passaggio angusto, alla strettoia pasquale, a queste gole della tentazione e della morte in cui noi entreremo a nostra volta quando sarà giunta la nostra ora. E attraverso di esse Gesù ci salverà. Infatti, è per questa ora di turbamento, e allo stesso tempo di immensa fiducia, che anche noi esistiamo!”1
Gv 12, 20-33 | Comunità Kairos 103 kb 2 downloads
Introduzione alla Lectio divina di Gv 12,20-33 – V domenica di Quaresima 21.03.2024…A cura di Monica per la Comunità Kairos.