Ritroviamo il Battista anche questa domenica, ma diverso è l’accento posto su questo profeta nel quarto vangelo, che nel Prologo dedica largo spazio a quest’uomo, mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. Essenziale nella sua presentazione, l’evangelista non si sofferma sulla descrizione di Giovanni tipica dei sinottici (il suo modo di vestire o di mangiare).
Basta sapere che proviene direttamente da Dio, e che la sua essenza sta già nel suo nome “Giovanni”, il cui significato in ebraico è “il Signore fa grazia”. L’evangelista lo presenta come un evento salvifico inviato direttamente da Dio per attuare in mezzo agli uomini l’amore, la grazia e la misericordia divine. La sua presenza è quindi motivo di gioia per le comunità di ogni tempo, perché tramite la sua testimonianza volgano lo sguardo a “colui che viene” per salvarci.
Il compito di Giovanni è proprio quello di “testimoniare della luce”, (simbolo per eccellenza del Cristo), perché gli uomini, illuminati da questa luce, possano aderire esistenzialmente ad essa.
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L’evangelista lo vede quindi come il primo testimone nel grande processo alla Parola. Si comprende allora perché il Battista, diversamente dai vangeli sinottici, qui non solo annuncia e prepara, ma capisce e indica, riconosce e testimonia fino a mostrarci l’Agnello di Dio (Gv 1, 29-34). Come in un processo, quando viene chiesto ad un teste di parlare, Giovanni puntando il dito dice: “E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio” (v.34).
Il v.8 contiene in sé una velata polemica, perché molta gente pensava che fosse lui il Cristo (Messia) (At 19,3; Gv 1,20). Pertanto, l’evangelista ci tiene a precisare che il Battista non era la luce, ma solo il suo precursore. Più avanti sarà proprio Gesù che dirà di sé stesso: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).
E ancora: “Questo è il messaggio che abbiamo udito da Cristo e che ora vi annunciamo: Dio è luce e in lui non vi sono tenebre” (1Gv 1,5). Sì, il Battista non è la luce, ma la sua testimonianza lo trasforma in “lampada che arde e splende” (Gv 5,35), “perché tutti credessero per mezzo di lui” (v.7).
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La testimonianza di Giovanni assume un tono di ufficialità, in quanto prodotta davanti ad una delegazione di sacerdoti e leviti, mandata dai giudei, coloro che, per la durezza di cuore, per la loro incredulità non sapranno riconoscere ed accogliere l’inviato di Dio, così che l’evangelista sottolineerà che “Gesù venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11).
Il contesto sembra proprio quello di una sorta di tribunale: da una parte i giudici, provenienti da Gerusalemme, dove si svolgerà, al termine del racconto evangelico (Gv 18-19), un altro processo, parallelo a questo, per accertare la verità sulla persona di Gesù; dall’altra l’imputato, il Battista, che preannuncia il destino di Gesù. Il lessico giudiziario (come confessare, testimoniare, etc.) è molto più usato nel quarto vangelo che in qualsiasi altro scritto neotestamentario così come la parola “testimonianza” (martyria).
Da questo momento si apre un interrogatorio che chiarisce chi Giovanni “non è”, sgombrando subito il campo da tutte le credenze e le attese proprie della tradizione giudaica. Tre sono i “no” che
Giovanni pone su altrettante figure specifiche del giudaismo: il Cristo, Elia (Ml3,23-24; Si 48,10) e il profeta visto dal popolo come il Messia atteso (Dt 18,15). Insomma, Giovanni rifiuta i ruoli che gli vogliono imporre, lasciando intravedere una novità non inquadrabile negli schemi e nei ragionamenti umani.
Incalzato dai suoi interlocutori spiazzati dalle sue risposte, Giovanni si definisce semplicemente «voce di uno che grida» (1,23) poiché ha accettato di compiere un cammino molto rigoroso nelle profondità del proprio essere, non identificandosi con nessun ruolo e con nessuna immagine che la vita gli abbia cucito addosso. Lui è solo una voce, un grido che deve risvegliare le coscienze. Il vero testimone indica il Signore, che è la Parola.
Ma di quale voce sta parlando il Battista? La stessa di Isaia che annuncia la consolazione.
«Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati. Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio» (Is 40,1-3).
Si sta parlando del tempo dell’esilio di Israele a Babilonia, visto dai profeti come un castigo per la sua infedeltà alla Torah. Ebbene, Giovanni annuncia – come aveva già fatto Isaia – che l’esilio è finito, il castigo è terminato, e per chi accoglie la conversione attraverso il battesimo, una grande consolazione è pronta.
Ma i farisei non gioiscono a questo annuncio e pongono ancora un’ultima domanda che riguarda proprio il ruolo e il significato del suo battesimo. Inutilmente Giovanni cerca di spostare l’attenzione dei suoi interlocutori su un Altro, “uno che voi non conoscete”, che si colloca nel quotidiano presente dell’uomo, e a cui lui non è “degno di sciogliere i legacci del sandalo”.
Con queste parole l’evangelista prefigura già il perfetto amico dello sposo. “Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire” (Gv 3,30).
E’ un atto di accusa che Giovanni muove ai farisei, esperti nelle cose di Dio, ma ciechi sul compiersi del disegno di Dio nella storia, perché chiusi nelle loro sicurezze e nelle loro certezze teologiche.
Un monito sempre attuale, perché nel nostro oggi quando prevale l’ ”io”, la società, la chiesa, diventano povere di testimoni. La luce vera, Gesù, ci chiede di diventare noi stessi luce. D’altra parte, scrive San Paolo, noi siamo “figli della luce” (Efesini 5,8-9). E quindi, ancora oggi Giovanni continua a essere voce che ci chiama per diventare noi stessi, con le nostre azioni, con il nostro atteggiamento, annuncio del Vangelo, perché la luce di Dio rischiari sempre le tenebre del mondo.
Ecco che allora la domanda “Tu, chi sei?” è decisiva per ciascuno di noi. Tocca alla comunità cristiana sostituire il Battista nell’additare al mondo un Cristo già presente nel mondo. Ognuno di noi è un uomo mandato da Dio, testimone della luce di Dio che ha immesso splendore e bellezza nell’esistenza. Potremo così gioire “pienamente nel Signore” (61,10) se alimentiamo l’intensità del desiderio che le tenebre vengano presto rischiarate dalla sua luce.
Gv 1, 6-8.19-28 | Comunità Kairos 12 kb 5 downloads
Introduzione alla Lectio divina di Gv 1,6-8.19-28, III domenica di Avvento B – 17…A cura di Annalisa per la Comunità Kairos.
Immagine di Dimitris Vetsikas da Pixabay