Siamo ancora nel tempio, là dove si sono ormai concluse le controversie con gli esponenti dei gruppi religiosi: “E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo” (v 34). Gesù campeggia in questo suo ultimo approccio con le folle, nel suo ultimo insegnamento, che sarà anche un pegno per la sua futura comunità. E Marco ce lo racconta in due quadri.
Nel primo, Gesù mette tutti in guardia da una casta di insegnanti della Legge tre volte prestigiosa: per gli studi, per l’acquisita posizione di potere nella società teocratica e quindi per il possesso dell’autorità civile. Costoro qui sono ritratti come narcisisti che possiedono le chiavi della Torah, ma vivono esclusivamente per la loro immagine, per il primato teologico e per il prestigio sociale, mentre nella vita sono incoerenti, dicono e non fanno, e divorano le case delle vedove. Centrati sul loro io, si scordano del Dio di cui vivisezionano le Parole. Vivono davanti a se stessi, per raccogliere per sé stessi.
Monito pesante che impegnerà da due millenni tutti i maestri cristiani. I rischi di un autocompiacimento del sapere che diventa fine a se stesso o di una strumentalizzazione della Parola hanno sempre attraversato e attraversano il cristianesimo.
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Non è nuovo Marco alla critica degli scribi, già dal primo apparire del Nazareno: “Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come chi ha potere, e non come gli scribi” (Mc 1,21). Gli scribi infatti facevano l’esegesi dei testi. Lui faceva l’esegesi del Padre. Nota Girolamo che se essi dicono: sta scritto, lui dice: In verità vi dico. Perché Lui è il Regno che viene, pienezza dell’amore del Padre. E all’amore ci si arrende non nella fissità di una norma, ma nella creatività di una risposta d’amore. Questo è il cuore dell’insegnamento di Gesù e per questo può richiedere una giustizia sovrabbondante, che dovrà superare quella degli scribi e dei farisei.
Ora giunti alla fine della vita pubblica di Gesù, questa risposta d’amore arriva.
Arriva nel secondo quadro, quando Gesù siede di fronte al tesoro. Scena fortemente simbolica; nel tempio rutilante d’oro siede da Maestro ormai prossimo alla sconfitta voluta da quel mondo potente. In silenzio, ma osservando nel profondo come i fedeli compiono la loro offerta rituale. Il suo è il guardare al di là di quanto appare. È forse un cogliere la triste realtà di una casa di preghiera trasformata in covo di ladri, come lamentava già il profeta Geremia e lui aveva appena ripetuto?
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Ma ecco, nuova protagonista, giunge una vedova silenziosa, persona tre volte emarginata nel suo essere donna, povera e incolta. Attualmente le nostre vedove nella media società godono di un’assicurazione sociale, vivono in sicurezza economica. Nel mondo patriarcale semitico di allora la vedova perdeva, insieme al marito, il suo stato sociale, il clan di appartenenza, diventava povera tra i più poveri, perché privata di protezione sociale. Chi le restava? Le restava solo il Signore, protettore delle vedove, degli orfani e degli stranieri. E a Dio costei, vedova e povera, si è talmente legata nella fede, da giungere a compiere quel piccolo gesto, in apparenza risibile, identificabile però come il sovrabbondante chiesto da Gesù. È il gesto che non è riuscito all’uomo ricco e che è stato già abbozzato da Bartimeo quando ha abbandonato il mantello.
Questa vedova vive per darsi. Lo sottolinea il testo: il gettare vi è ripetuto tante volte, ma una sola volta acquista il suo senso: fare getto di sé. È la profezia di quanto realizzerà Gesù stesso a breve nella sua Passione.
La vedova scivola via dalla scena, ma Gesù idealmente la richiama e, riuniti i suoi vicino a sé, la pone nel mezzo, come aveva già fatto con il bambino, esempio per chi volesse essere il più grande. Qui la offre come esempio di penetrazione del messaggio evangelico perché quello che ha dato in più degli altri nasce dall’essere entrata nella dinamica del dono, da accettare con gratitudine e ricambiare con fede e speranza. Parole semplici di un insegnamento semplice che ha introiettato fino a nutrirsene.
“Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura? Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: Il tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 27).
Riconoscendo nella sua povertà che tutto le veniva dal Signore della vita, tutto di sé a lui affida con l’audacia del cuore. “I poveri evangelizzano la Chiesa”, nella traduzione di papa Francesco. Eccola diventata insegnante affidabile, la vera scriba che la comunità dei suoi dovrà mettere al centro.
Il brano ci impegna, in ogni vita comunitaria, a saper guardare oltre le apparenze, a saper ascoltare, a dare credito all’umile, a chi parla poco o addirittura non parla, ma che nella mitezza della sua persona ha raggiunto la sapienza della vita interiore.
Mentre resta chiara, anche stavolta, la chiave interpretativa teologica, che si gioca tra ricerca di autosicurezza e capacità di abbandono. Così siamo chiamati a riflettere: Dove riposa la mia sicurezza? Che capacità ho di abbandono?
Archivio della Comunità Kairos.