Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 9 Aprile 2023

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L’evangelo della Veglia Pasquale anno A 

Mt 28,1-10 (leggi 28,1-15) 

Benedetto il Padre che glorifica il Figlio con lo Spirito Santo per i secoli eterni nella santa Chiesa. Amen. 

La Resurrezione del Signore nostro, il Dio e Salvatore Gesù Cristo, opera congiunta del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, ma con speciale funzione dello Spirito Santo è l’annuncio culmine dell’evangelo di Dio. Essa è la Rivelazione primordiale di Dio agli uomini (At 2,36; Rm 1,3-4; 1 Cor 15,3-5); è il centro della fede del N. T. e il contenuto originante della fede dei fedeli. Nel N. T. non esiste alcuna descrizione della risurrezione di Gesù; ci sono solo racconti della tomba trovata vuota e delle apparizioni del Gesù risorto. E tuttavia, dal punto di vista cristiano, la risurrezione di Gesù è il presupposto non solo di questi racconti ma dell’intero Nuovo Testamento: «Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» (1 Cor 15,14). Ora, accostandosi ai testi che parlano, e in modo ricco, di Cristo Risorto con lo Spirito Santo, largamente distribuiti lungo tutto il N. T., se ne percepisce il vocabolario denso e vario, e si comprende la cura degli autori del N. T. di far comprendere come la Resurrezione realizzi per intero la Promessa antica, l’A. T. (At 13,32-33). 

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Le pericopi evangeliche della Veglia pasquale sono l’unico elemento variabile di una struttura liturgica sempre uguale a se stessa, almeno per ciò che riguarda il Lezionario, e che affida al testo evangelico il compito di dare la tonalità specifica a quella Pasqua. È così che nella sequenza fissa delle otto letture dell’Uno e dell’Altro Testamento si inserisce, secondo un ritmo triennale, l’annuncio di risurrezione ora di Matteo, ora di Marco, ora di Luca (cfr la Piccola sintesi in fondo alla lectio). 

L’Evangelo della Resurrezione ha oggi una solennità inaudita. L’ultimo capitolo di Matteo è come la sintesi, ed insieme la grandiosa conclusione dell’intero libro. Questo infatti era cominciato con un “titolo” che è molto di più che un’indicazione di contenuto: è la proclamazione della realtà di Gesù Cristo, che riassume tutta la storia della salvezza quale Figlio regale di David e Figlio di Abramo, ossia portatore della sua Promessa e Benedizione che è lo Spirito Santo (Mt 1,1, e Gal 3,13-14). Il titolo per sé suona: “Libro della génesis di Gesù Cristo Figlio di David Figlio d’Abramo” (1,1). Ora, génesis traduce l’ebraico tôl˘ed¯ah, “generazione”, sequela storica della filiazione di padre in figlio. Però il termine è assai più ricco e comprensivo, indicando insieme: la creazione nuova (cf. la Genesi come 1° libro della Santa Scrittura), la nascita, la generazione nella carne, la storia. 

L’Evangelo di Matteo mostra come il Figlio di Dio, battezzato dallo Spirito Santo, passa per il mondo annunciando l’Evangelo del Regno, operando le “opere del Regno”, dando culto al Padre, riportando tutto al Regno del Padre con l’opera principale: la Croce e la Resurrezione per il Dono inconsumabile dello Spirito Santo. Morto e sepolto per i peccati degli uomini un venerdì della Parasceve, Cristo al terzo giorno “fu risvegliato secondo le Scritture” (1 Cor 15,3-8) e adesso vive. La pericope è divisa in 3 momenti:  

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  1. l’evento al sepolcro vuoto (vv. 1-10),  
  1. la reazione delle guardie e delle autorità davanti al fatto del sepolcro vuoto (vv.11-15),  
  1. la manifestazione del Risorto ai discepoli e l’invio di questi alla missione al mondo. 

Molti tratti del racconto matteano della resurrezione trasformano l’evento in teofania: ci fu un gran terremoto, il personaggio celeste è un angelo, le sue vesti sono bianche come la neve, il suo aspetto è come la folgore. Sono tratti teofanici, che significano che la risurrezione di Gesù è una manifestazione di Dio dentro la storia dell’uomo. 

Viene notata l’apertura del sepolcro (“la pietra rotolata via”) e viene detto che il sepolcro è vuoto (“venite a vedere il luogo dove era deposto”), ma la risurrezione come tale non è descritta. Nelle teofanie si vede ciò che circonda o accompagna l’azione di Dio, ma non l’azione stessa. Il mistero di Dio resta intatto. Non così, invece, nel racconto che si legge nell’evangelo apocrifo di Pietro: “La notte in cui spuntava la domenica, mentre i soldati a due a due facevano a turno la guardia, una gran voce risuonò nel cielo, e videro aprirsi i cieli, e due uomini scendere rivestiti di grande splendore e avvicinarsi alla tomba. Quella pietra che era stata appoggiata alla porta, rotolandosi via da sé si scostò da una parte, e la tomba si aprì ed entrambi i due giovani entrarono… Poi di nuovo videro tre uomini uscire dalla tomba, e due sorreggevano quell’altro, e una croce li seguiva; e la testa dei due si spingeva sino al cielo, mentre quella di colui che conducevano per mano sorpassava i cieli. E udirono una voce dai cieli che diceva: Hai predicato ai dormienti? E una risposta si udì dalla croce: Sì(Vangelo di Pietro IX-X). 

Si tratta, senza dubbio, di una narrazione non priva di fascino, ed è bellissimo e teologicamente ricco il particolare della croce che segue il Risorto. Ma la descrizione dettagliata dell’uscita di Gesù dal sepolcro mostra l’inattendibilità del racconto. Esprime il desiderio dell’uomo che vorrebbe vedere anche il lato invisibile dell’azione di Dio. Dio agisce nel mondo, la sua azione lascia tracce visibili, ma il suo agire resta invisibile.  

Le 4 redazioni evangeliche della Resurrezione mostrano come un imbarazzo dell’autore, e quasi una reticenza, benché motivati. Esse all’unanimità mostrano che è avvenuto l’Evento, il fatto storico principale della Vita del Signore. Non ne fanno per nulla un fatto «metaistorico», «metaempirico», sfuggente, come a qualcuno sembra, alla presa dell’indagine storica. Gli evangelisti narrano che si sono svolti alcuni fatti che denunciano il Fatto concretissimo avvenuto ma tacciono totalmente sul “come”. Il come della Resurrezione è avvolto e nascosto dalla manifestazione di Dio, la massima teofania dell’intera Scrittura. Dicono dove, quando, chi, perché, non come. Dicono anche «a chi», le Donne, subordinatamente i discepoli. Tutti sembrano  contentarsi di questo. E con totale ragione. Prevale invece una fretta: che il Fatto, ormai avvenuto per sempre, sia annunciato. 

Se si confrontano i 4 testi evangelici della resurrezione si ha che i fatti del sepolcro vuoto e le apparizioni alle sole Donne fedeli sono raccontati in meno di 50 versetti complessivi. Tali vv. sono: 

  1. 10 per Matteo (28,1-10); 
  1. 8 per Marco (16,1-8) 
  1. 10 per Luca (24,1-10); 
  1. 18 per Giovanni (20,1-18). 

Anche se chiaramente basato su Mc 16,1-8, il racconto matteano della tomba di Gesù trovata vuota (Mt 28,1-15) è una versione rielaborata ed ampliata, anzi la rielaborazione di Mc 16,1-8 è piuttosto una revisione radicale. 

La prima parte (28,1-8) è una rielaborazione in cui Matteo sembra soprattutto preoccupato di ripulire il racconto di Marco. Matteo è attento a fare il nome delle stesse due donne che costituiscono il principio di continuità tra la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù (Mt 27,55.61; 28,1), contrariamente all’incoerente elenco di Marco (15,40.47; 16,1). Nella versione di Matteo le donne, che di buon mattino, vengono al sepolcro sono due, non tre. E non vengono per imbalsamare Gesù, ma semplicemente per visitare la tomba (il verbo greco è theorein, vedere, guardare, soffermarsi). 

La seconda parte (Mt 28,9-15) non ha un suo corrispettivo in Marco. È suddivisa in due episodi:  

  1. l’apparizione del Gesù risorto (28,9-10)  
  1. e l’intesa tra i capi dei sacerdoti e le guardie (28,11-15).  

Se Mt 28,9-10 è un condensato dell’apparizione a Maria Maddalena di Gv 20,11-18, Matteo l’ha rielaborato con un accento particolare sulla risposta delle donne al Gesù risorto: esse gli si avvicinano (proselthoúsai) e lo adorarono (prosekynésan) (Mt 28,9). Poi il Gesù risorto affida alle donne lo stesso messaggio che l’angelo aveva dato loro davanti alla tomba. Questo doppio riferimento alla Galilea come il luogo in cui i discepoli potranno vedere Gesù serve a preparare il campo per l’apparizione culminante di Mt 28,16-20. 

Il secondo episodio (Mt 28,11-15) riprende la storia della sorveglianza alla tomba. Come mai le guardie si trovassero sul posto è stato descritto in Mt 27,62-66. Matteo ha già spiegato che all’apparizione dell’angelo presso la tomba le guardie, spaventate dal seismos, sono state tramortite dalla paura (Mt 28,4). Questo passo vuole spiegare perché le guardie non abbiano confermato la testimonianza di Maria Maddalena e dell’altra Maria: sono state comprate dai capi dei sacerdoti e dagli anziani perché dicessero che il corpo di Gesù era stato trafugato dai suoi discepoli 

Esaminiamo il brano 

v. 1. «Dopo il sabato»: È l’alba del “primo giorno del sabato”, ossia della settimana, il lunedì ebraico e la Domenica cristiana. È una legge biblica che al “primo giorno” il Signore operi, dia inizio alle sue opere: la creazione (Gen 1,1ss), la rivelazione (Ez 1,1ss), e così via, mentre al sabato Egli usa custodire il santo riposo (Gen 2,1-3). Dunque questa Domenica è giorno dell’inizio principale di ogni opera e di ogni rivelazione del Signore, come lo è la Resurrezione del Figlio. 

L’indomani, cioè il giorno dopo la preparazione”, è una maniera piuttosto curiosa per indicare il sabato (il giorno che segue la preparazione del sabato!), ed è tanto più curioso l’evento che si dice aver avuto luogo di sabato. Comunque, la scansione temporale segna uno stacco narrativo, e gli eventi che ruotano intorno al sepolcro fanno già da cornice al racconto della tomba vuota. Opsé, come preposizione significa “dopo”, ma come avverbio vuol dire “tardi”: si potrebbe anche tradurre “il sabato tardi”. Té epiphoskoúse è “all’inizio” del primo giorno della settimana, che ebraicamente iniziava la sera del sabato: potremmo dire “al crepuscolo”. Ma tutti gli altri evangeli sono concordi nel situare la visita delle donne al mattino presto: «di buon mattino» (Mc 16,2); «di buon mattino» (Lc 24,1); «quando era ancora buio» (Gv 20,1).   

«Maria di Magdala e l’altra Maria»: Un gruppo di Donne fedeli vengono al sepolcro.  Maria Maddalena e l’«altra Maria» rimangono i capisaldi della continuità durante tutta la passione. Esse avevano seguito Gesù nel suo itinerario messianico e missionario, lo avevano assistito (Lc 8,1-3), soprattutto non lo avevano abbandonato alla Croce (Mt 27,56), insieme alla Madre. Erano restate anche alla sepoltura (Mt 27,61). Dopo il riposo sabatico prescritto, si muovono. La loro fedeltà amante è premiata, poiché in un certo senso le Donne fedeli hanno il diritto di vedere per prime il Risorto, di avere da Lui la Parola definitiva, da riportare ai discepoli. È la permanente missione delle donne fedeli nella Chiesa: essere testimoni della Resurrezione nella Comunità, come gli Apostoli lo sono al mondo. Forse questo fu dimenticato già nelle prime generazioni cristiane, ma non da Matteo (v. 1). 

Matteo tralascia di dire che il motivo per cui sono andate alla tomba era per imbalsamare Gesù (vedi Mc 16,1), forse perché nel suo racconto questa operazione di preparazione del corpo di Gesù per la sepoltura era già stata descritta (vedi Mt 26,12). I Giudei inoltre erano soliti vegliare la tomba di una persona amata fino al terzo giorno dopo la morte per assicurarsi che la sepoltura non fosse stata prematura (vedi Semahot 8,1). 

Dal momento poi che il sepolcro è custodito dalle guardie (cfr 27,62-66), le due Marie non hanno più la possibilità di andare a ungere il corpo di Gesù: quindi non si recano al sepolcro munite di oli aromatici, ma ci vanno solo per “vedere la tomba”, attratte dalla memoria di colui che vi è stato sepolto. Ci vanno “dopo il sabato, all’alba del primo giorno”. Le Donne perciò vengono al “sepolcro”, il táphos, che in genere può indicare il sepolcro regale. Esso era di un uomo nobile, era nuovo, adesso è circondato di cura e di onore regali. 

v. 2 «Ed ecco, vi fu un gran terremoto»: Matteo usa il termine seismós («terremoto») non solo nell’episodio della tempesta sedata (8,24) ma anche in contesti apocalittici: nel discorso escatologico (24,7) e nella risurrezione dei santi (27,54). La risurrezione di Gesù è qui rappresentata come un evento apocalittico. E utile qui ricordare anche il racconto di Mc 16: “strada facendo, le donne si chiedono chi potrà rotolare via la pietra, molto grande, posta all’ingresso del sepolcro”. I discepoli, che dovrebbero aiutarle, sono completamente estranei al racconto. Ma arrivate sul posto, vedono che la pietra era già stata rotolata via. Registrano il fatto, senza sapere né come né da chi. Matteo invece presenta l’evento in atto, nel suo svolgersi. Siamo in ripresa diretta. La tomba era sigillata e custodita: quindi nessuno poteva averla aperta. Dev’essersi prodotto un evento di tutt’altro genere. E le donne, prima di vedere, sentono un “boato”: è sempre lo stesso apocalittico seismós, come in 27,51 (“la terra si smosse”). La resurrezione è un evento di natura apocalittica, come la morte in croce: sono, anzi, due eventi che si illuminano reciprocamente. 

«Un angelo del Signore»: Avviene allora la Teofania, nei segni noti all’A.T. del terremoto e dell’intervento dell’Angelo del Signore disceso dal “cielo”, che indica qui la Divinità. Nella Teofania al sepolcro, descritta dai quattro Evangelisti, ci sono variazioni quanto alla figura dell’Angelo: possono essere due Angeli, oppure un Giovane splendente, o due Giovani. La Chiesa Madre, quella dei giudeo-cristiani, nei suoi più antichi documenti restati fino a noi, parla qui un linguaggio simbolico: l’Angelo o il Giovane sono Cristo stesso, mentre l’altro Angelo o l’altro Giovane è lo Spirito Santo.  

v. 3 «Il suo aspetto»: Rispetto a Mc 16,5 («vestito d’una veste bianca») Matteo dà una descrizione più elevata dell’aspetto dell’angelo. E tuttavia l’angelo non appare così glorioso come il Cristo trasfigurato («il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce») secondo Mt 17,2. La descrizione di Matteo è comunque precisa. Infatti l’Angelo della teofania ha un aspetto visibile come folgore, e la sua veste è come neve. La folgore è la luce, elemento costante nelle teofanie. Il colore bianco splendente della veste, che si ritrova alla Trasfigurazione (cf. Mt 17,2, e par.), indica la vittoria. Per Marco (16,5), il Giovane splendente sta seduto nel sepolcro “alla destra”, indizio significativo della glorificazione alla Destra del Padre, quando ormai il Risorto possiede il dominio sulla morte-sepolcro. Inoltre la “seduta alla Destra” è propria del Re messianico (Sal 109,1; Mc 16,19) e del Figlio dell’uomo (v. 3). 

Come gli angeli hanno svolto un ruolo importante nel racconto dell’infanzia nel comunicare e nel chiarire la volontà di Dio, così qui l’angelo spiega cosa è accaduto e dice alle donne cosa devono fare. Per Matteo il misterioso «giovane» (neaniskos) di Mc 16,5 è un «angelo», al quale attribuisce anche il compito di rotolare via la pietra dall’entrata della tomba (vedi Mc 16,3: «Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?»). L’angelo del Signore non discende dal cielo per risvegliare Gesù o per condurlo fuori dal sepolcro, ma semplicemente per far rotolar via la pietra e per mostrare alle donne il sepolcro vuoto. Non apre il sepolcro perché Gesù esca. È già uscito. Lo apre per mostrarlo alle donne: “Venite a vedere il luogo dove giaceva” (28,6). La prima funzione dell’angelo è di spiegare alle donne il significato di ciò che vedono. Le tracce dell’azione di Dio nel mondo richiedono sempre una “parola” che le interpreti. Per comprendere pienamente il segno occorre una rivelazione: non, certo, una rivelazione che trasfiguri il segno, bensì una rivelazione che apra gli occhi di chi guarda. Non basta che le donne vedano che il sepolcro è vuoto. L’assenza del cadavere deve essere spiegata, e lo fa l’angelo. Tuttavia ci poniamo una domanda: in qual modo risolvere il fatto che gli evangelisti non citano lo stesso numero di angeli, di sante donne, attorno alla tomba? 

In Matteo: «Un angelo del Signore si accostò» e «Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro» (28,1-2); in Marco: «Un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca» e «Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome» (16,1.5); in Giovanni: «Due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù» e solamente «Maria di Magdala» (20,1.12); in Luca: «Ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti» e per le donne mirrofore: «Erano Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo» «le altre che erano insieme» (24,4.10). Commentando questa icona, L. Uspenski ci dice: 

«Queste differenze non costituiscono una contraddizione. I Padri della Chiesa, per esempio san Gregorio di Nissa e san Gregorio Palamas, pensano che le donne mirofore andarono al sepolcro più volte, e ogni volta il loro numero era diverso: così ogni evangelista parla solamente di una di queste visite. Nel vangelo di Luca non si dice il loro numero; questo spiega perché in certe icone il loro numero raggiunge la cifra di cinque, sei e più. Tuttavia nella maggioranza delle icone il loro numero non supera quello indicato nei vangali di san Matteo e san Marco, cioè due donne secondo l’uno e tre secondo l’altro». 

Ma al di là di tutte queste questioni sollevate dall’esegesi, vogliamo ora riferire una tradizione sconosciuta all’Occidente secondo la quale, come ci dice san Gregorio Palamas, il Cristo risorto sarebbe apparso per la prima volta non a Maria Maddalena o alle altre donne mirrofore, ma alla sua santissima Madre. 

«Gli evangelisti hanno annunciato con parole velate quel che io vi rivelerò per amore di voi tutti. La prima che ricevette la buona novella della risurrezione del Signore, tra tutti gli esseri umani, è, come conveniva, la Madre di Dio; la ricevette dal Signore stesso. Ella seppe che era risorto, godette della sua divina parola e non si limitò a vederlo coi suoi occhi, né a sentirlo con le sue orecchie, ma fu la prima e la sola a toccare con le sue mani i piedi immacolati, benché gli evangelisti non dicano tutto ciò chiaramente, non volendo esporre la Madre al martirio, né dare agli infedeli l’occasione di sospettarla…». 

Per spiegare la sua affermazione, san Gregorio Palamas fu l’esegeta di Matteo 28,1-8. Per lui, l’altra Maria che stava con Maria di Magdala era la Madre di Dio. Mentre la terra tremava, Maria si rallegrava senza impaurirsi dello spettacolo. L’angelo annunciatore era Gabriele stesso, che già da principio le aveva detto: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio» (Lc 1,30). 

Il timore aveva preso Maria Maddalena che corre da Pietro e Giovanni. Maria invece, che era piena di gioia, va a trovare le altre donne e torna con loro al sepolcro. Ed ecco che Gesù venne incontro a loro dicendo: «Salute a voi» (cf Mt 28,6-8). 

«Vedete dunque che molto prima di Maria Maddalena la Madre di Dio vide colui che per la nostra salvezza ha sofferto, è stato sepolto ed è risorto nella carne? “Ed esse, avvicinatesi, gli cinsero i piedi e lo adorarono” si dice (Mt 28,9). Come in compagnia di Maria Maddalena la Madre di Dio fu la prima a sentire la buona novella della risurrezione e a comprendere la potenza di queste parole, così, venendo con le altre donne incontro al suo figlio e suo Dio, prima di tutte vide e riconobbe il Risorto e cadendo ai suoi piedi li toccò e divenne sua apostola presso gli apostoli. Maria Maddalena, tornando più tardi con Pietro e Giovanni alla tomba e rimasta sola a singhiozzare, finisce per riconoscere il Signore quando lui la chiama per nome: mentre cadeva ai suoi piedi e cercava di abbracciarli, lo sentì dire: “Non toccarmi” (Gv 20,17). Da questo apprendiamo che quando Gesù era apparso prima a sua Madre e alle donne che erano con lei fu solo alla madre che presentò i piedi da toccare, benché Matteo estenda questo fatto anche alle altre donne, perché non voleva, per i motivi che ho detto sopra, esporre chiaramente la parte avuta dalla Madre di Dio in quelle circostanze»1. Attraverso questi testi comprendiamo che non conviene separare la gioia che la risurrezione di Cristo provoca nel cuore delle sante donne e dei discepoli dalla gioia che essa provoca nella Madre di Dio, come del resto canta la liturgia della domenica di Pasqua: 

«Rallegrati, dimora santificata, divino tabernacolo dell’Altissimo, Madre di Dio: è attraverso di te che ci vien data la gioia e noi esclamiamo: tu sei benedetta tra le donne, Regina immacolata» (Ora pasquale, tono 4). 

v. 4 «le guardie furono scosse»: La reazione delle guardie alla teofania è classica, se ne ritrovano gli elementi già nell’A.T.: è il terrore incontrollabile davanti al Divino, che provoca scuotimento e perdita del dominio di se stessi, così da diventare “quasi morti” 

Matteo ribadisce l’idea di un picchetto di soldati messi a guardia della tomba di Gesù per impedire il furto del suo corpo (vedi Mt 27,62-66; 28,11-15). Il verbo «furono scosse» (eseisthésan) deriva dalla stessa radice di «terremoto» (seismós) di Mt 28,2. L’apparizione dell’angelo e il terremoto spiegano bene come mai le guardie siano rimaste scosse e impotenti a fare la guardia al corpo di Gesù.  

Attenzione: Matteo non sta descrivendo la resurrezione di Gesù (nessun evangelo canonico lo fa), ma ci offre delle chiavi di comprensione dell’evento. Non afferma che Gesù sia risorto in questo preciso momento, quando la pietra del sepolcro è stata ribaltata via: però ci dice che le guardie commissionate dai sommi sacerdoti erano perfettamente inutili. Non è sigillando il sepolcro che si possono irretire le energie della resurrezione: basta molto meno, la semplice apparizione di un angelo, per tramortire le guardie. 

La manifestazione di Dio ha due esiti contrastanti per le guardie e le donne. Spaventa (fobos) le guardie lasciandole nella loro incredulità. Di fronte alla risurrezione di Gesù, che è una vittoria sulla morte, le guardie cadono come morte, inerti come un cadavere (nekros). I segni della manifestazione di Dio (il terremoto e l’angelo) le chiudono alla verità. Matteo dà molta importanza al tema delle guardie, facendone una presenza centrale nei racconti della risurrezione. Sono la figura dell’incredulità e, al tempo stesso, della menzogna, alla quale spesso l’incredulità è costretta a ricorrere. Non accettando i fatti nel loro vero significato, l’incredulo spesso è costretto a manipolarli. 

I segni di Dio sorprendono e spaventano anche le donne (anche per loro si parla di paura) aprendole però alla fede. Le donne rappresentano la figura della fede, precisamente di una fede che accetta di convertire il proprio modo di guardare e di cercare. Queste donne vengono, si spaventano, guardano, gioiscono, corrono. Tutto il contrario delle guardie che invece sono del tutto statiche e inerti. Secondo Marco le donne lungo la strada verso il sepolcro pensavano alla pietra da rotolare e parlavano fra loro. Nel racconto di Matteo, invece, le donne sono silenziose e le possiamo immaginare chiuse nel loro dolore. Vengono al sepolcro per una visita, non per qualcosa da fare. A muoverle è semplicemente l’affetto. Per loro il Crocifisso è una persona. E se il loro cammino di andata è come vuoto e silenzioso, privo di ogni dettaglio, il cammino di ritorno è invece ricco di precisazioni: partono in fretta, corrono, piene di gioia. 

v. 5 «L’angelo disse alle donne»: E qui si innesta la seconda funzione dell’angelo: invitare le donne a cambiare la direzione del loro sguardo e della loro ricerca: “So che cercate Gesù il Crocifisso, non è qui, è risorto infatti, come aveva detto” (28,6).  

Le donne sono venute per “vedere” una tomba, un vedere che naturalmente non è una pura curiosità, bensì una ricerca (vedi verbo theorein; come appunto dice anche l’angelo) e un affettuoso desiderio di mantenere viva la memoria del loro Signore. Ma l’angelo invita le donne a cercare altrove e a guardare altrove: “Non è qui”. L’Angelo si rivolge solo alle Donne e “rispondendo”, curioso verbo, proprio dove le Donne non avevano parlato, e con motivo.  

«Voi non abbiate paura!»: È l’esortazione classica, che risuona in tutta la Scrittura, fino all’Annunciazione alla Vergine Maria: “”Non temete!. Da parte di Dio gli amici di Dio non debbono avere paura né sensi di colpa.  

«So che cercate Gesù, il crocifisso»: L’Angelo prosegue rivelando che sa del motivo della venuta al sepolcro, “cercare Gesù il Crocifisso”. È il titolo dell’Umanità del Figlio di Dio, insieme il titolo del suo più profondo abbassamento alla condizione umana, la crocifissione accettata e subita, ed insieme il titolo perenne della sua gloria. L’Apocalisse descrive infatti l’Agnello, che è il Servo sofferente di Is 53,7-8, con i segni perenni, eterni, le stigmate della crocifissione (Ap 5,6), ma sulla sua Umanità di Risorto. Va qui considerata ancora una volta la croce nel suo realismo. Supplizio di ferocia insaziabile, di devastazione dell’uomo, la croce era stata inventata dagli Assiri e Babilonesi, era passata ai Persiani, altro popolo noto per la sua efferata crudeltà, poi ai Cartaginesi, da cui i Romani, che per durezza non erano secondi a nessuno, l’avevano assunta per farne un supplizio deterrente. Esso infatti era applicato agli schiavi, ai ribelli politici, ai ladroni di strada, ossia a persone che in qualche modo non erano cittadini romani, o erano stati privati di cittadinanza. L’applicazione del supplizio era pubblica. Il condannato perdeva anche ogni diritto, era dunque spogliato di ogni avere e considerato “cosa” da torturare, da schernire, da far soffrire all’estremo limite; gli si propinava l’aceto per rianimarlo e così prolungare le sue sofferenze fisiche e psicologiche; al contrario, per pietà si davano ai condannati misture di mirra, un alcaloide con effetti di droga, ossia perdita della conoscenza e della sensibilità. Gesù conobbe l’aceto; la mirra, però, non volle berla per non perdere la coscienza dell’offerta totale al Padre. Il condannato era poi totalmente denudato e inchiodato sulla croce. La nudità per gli Ebrei era la massima delle vergogne. Anzi era anche ritenuto l’estremo “segno” della punizione escatologica che il Signore poteva affliggere al suo popolo ribelle, così minacciavano i Profeti. “Il Crocifisso” è portatore per sempre di tutto questo. Mentre per gli antichi, e fino al medio evo germanico, la croce era la massima vergogna, il massimo disonore, il massimo fallimento, per Dio però, come testimonia soprattutto Giovanni, la croce è il massimo onore. È la pazzia di Dio, secondo S.Paolo (1 Cor 1,17-31). Lui, così, le Donne fedeli cercano, consapevoli ed accettanti. 

L’annuncio pasquale è, grosso modo, lo stesso che in Marco: 

  1. voi cercate Gesù il crocifisso (ho estauroménos: e continua ad essere tale anche da risorto!);  
  1. non è qui, “è risorto” (eghérthe, da un verbo, al passato, che ha il significato generico di “risvegliarsi”);  
  1. vedete il luogo (il sepolcro vuoto, che non è la prova della resurrezione, ma un suo “segno”);  
  1. annunziatelo ai discepoli (che rientrano nel racconto come destinatari di una parola di perdono: essi sono riabilitati dall’annunzio delle donne);  
  1. vi precede in Galilea (dove “precedere” ha il doppio senso di “esserci già, e quindi aspettare”, ma anche di “tornare alla vostra guida”). 

v. 6 «Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto»: Si osservi la successione e il legame fra il sepolcro vuoto e la risurrezione: “Non è qui, è risorto infatti“. Non è il sepolcro vuoto che rende plausibile la risurrezione, ma è piuttosto la risurrezione che rende plausibile che il sepolcro sia vuoto. 

Alle donne l’Angelo dona l’annuncio supremo, in tre parole:  

  1. La prima è: “Non sta qui”. Il sepolcro, il luogo orrido della tenebra, dell’immobilità finale, della morte, della putredine e del dissolvimento, non può racchiudere il Figlio di Dio. Il luogo del Figlio è la Destra del Padre, nella Gloria dello Spirito Santo, dove stanno la Vita e la Gioia. È il Regno dell’eternità, dove il Crocifisso vuole che stiano anche i suoi fedeli, che godranno della preparazione eterna: cf. Mt 25,31-34.  
  1. La seconda parola è quella centrale che ha anche causato la prima, ed è la suprema divina rivelazione: “Infatti fu risvegliato, come parlò!”. Egéirô è il verbo del resuscitare, propriamente, risvegliare dal sonno della morte. All’aoristo passivo (êgérthê), indica insieme un’azione storica, puntuale, avvenuta una volta per sempre, e l’azione del Padre sull’Umanità del Figlio mediante la Potenza dello Spirito Santo. Il “come parlò” mentre stava ancora con i discepoli fa conoscere l’aspetto operativo della Resurrezione. Questa infatti non è un evento casuale, come improvviso, bensì fa parte, quale culmine, del Disegno divino annunciato lungamente e insistentemente. Già nel “Non sta qui” si sente l’eco dei preannunci dell’A.T., come nel Sal 15 (citato poi più volte negli Atti: da Pietro, cf. At 2,25-28; da Paolo, At 13,35). E però Cristo stesso lo aveva predetto. Infatti nella seconda fase del suo ministero messianico, la svolta decisiva che si inizia con la Trasfigurazione, Cristo aveva preannunciato la sua morte e resurrezione: cf. Mt 16,21-23; 17,21-23; 20,17-19. Aveva proseguito durante la Cena: 26,31-32. Lo aveva ribadito, sia pure sotto forma simbolica, davanti al sinedrio: 27,64. Così i discepoli potevano riflettere, e poi conservare la memoria per le generazioni. È un invito a guardare la vita che Gesù ha vissuto e le cose che ha detto. È proprio qui che bisogna guardare se si vuole capire. Nulla di strano se Gesù è risorto. Non l’aveva già detto? La vita di Gesù aveva in sé la promessa della risurrezione. Una vita come la sua non poteva essere abbandonata da Dio alla morte! Gesù è risorto proprio perché è stato crocifisso. 
  1. Viene la terza parola dell’annuncio del Risorto: “Venite, vedete il luogo dove giaceva” (v. 6). È il sepolcro vuoto, però prima realmente occupato dal morto “giacente”, verbo classico per indicare la deposizione, quello che oggi si chiama la tumulazione della salma. L’Ade, canta la Liturgia, non fu capace di trattenere la Preda divina, anzi il sepolcro fu la base di partenza del Risorto che depredò l’Ade delle sue vittime (cfr Tropario bizantino di Pasqua2).  

v. 7 «Presto»: La fretta dell’angelo (‘presto, andate”) diventerà la fretta delle donne: per indicare ambedue le frette viene usato lo stesso avverbio (ταχύ, tachý). L’annuncio è urgente e la notizia non tollera indugi. Ma a far correre le donne contribuisce certo anche la gioia: chi è triste cammina lento e pensoso, chi è pieno di gioia corre. 

«andate a dire ai suoi discepoli»: Visto il particolare interesse che Matteo mostra per Pietro, è sorprendente che egli ometta l’accenno esplicito a Pietro che si trova in Mc 16,7 («dite ai suoi discepoli e a Pietro»). Al detto dell’angelo invece Matteo aggiunge: «È risorto dai morti». 

«in Galilea; là lo vedrete»: La frase ricorda al lettore la promessa fatta da Gesù in Mt 26,32 che dopo la risurrezione avrebbe preceduto i suoi discepoli in Galilea. Secondo Luca 24 e Giovanni 20 le apparizioni del Gesù risorto si verificano nella zona di Gerusalemme. In Mt 28,16-20 e in Giovanni 21 Gesù appare in Galilea. Il testo di Marco 16 termina con il versetto 8; Marco 16,9-20 è un’aggiunta posteriore. 

«ecco io ve l’ho detto»: L’espressione kai idou («ed ecco»), ripetuta quattro volte, pone in rilievo le due manifestazioni teofaniche e le parole di rivelazione: la comparsa dell’angelo (28,2) e del Risorto (28,9); l’incontro fissato in Galilea per i discepoli (28,7) e la solenne consegna dell’annuncio dell’inviato dal cielo (28,7). Marco 16,7 recita: «come vi ha detto», che Matteo ha già usato in Mt 28,6. Qui la modifica potrebbe avere lo scopo di controbattere l’accusa che sono stati i discepoli a inscenare l’intera sequenza degli eventi. L’Angelo sigilla le sue parole con una formula solenne: “Ecco, io parlai a voi”, che richiama le formule profetiche dove il Signore dice: “Ecco, Io parlai”. È parola definitiva, sigillata, irreformabile. Essa va ascoltata ed obbedita. 

v. 8 «con timore e gioia grande»: Mentre in Mc 16,8 il timore riduce le donne al silenzio, in Mt 28,8 la gioia che provano le induce a riferire ai discepoli ciò che hanno visto. 

L’espressione di Matteo suscita qualche perplessità: “paura (fobos) e gioia grande (charàs megàles)”. Sembrano due sentimenti che non possono coesistere. La paura è probabilmente un ricordo di Marco, che Matteo ha voluto mantenere: “Fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento, e non dissero niente a nessuno perché impaurite” (16,8). Pur conservando la traccia di Marco, Matteo ha però radicalmente mutato la scena: la fretta delle donne non è causata dalla paura, ma dalla gioia, e non stanno in silenzio ma annunciano. Tuttavia se la traccia del timore è rimasta, è perché Matteo vi scorgeva un significato, non una contraddizione. Anche se riempie di gioia, l’incontro col divino è sempre accompagnato da un’ombra di timore (si ricordino qui le reazioni alle teofanie divine nei racconti biblici e le parole “non temere…” che le accompagnano). 

v. 9 «Gesù venne loro incontro»: Con l’apparizione di Gesù alle donne lungo la strada inizia una parte che è propria di Matteo: l’incontro delle donne con Gesù, il tentativo di inganno da parte del Sinedrio, la missione degli undici. 

«Salute a voi»: Chàirete è di più che “salute a voi” – come spesso viene tradotto – è di più che “buongiorno”, è l‟imperativo del verbo rallegrarsi: Chàirete, rallegratevi. È il corrispondente di quello che l‟angelo Gabriele dice a Maria: «Chàire – rallegrati» (Lc 1,28). È l‟invito alla gioia pasquale: gioite, esultate, rallegratevi.  

Ed esse, avvicinatesi, gli cinsero i piedi e lo adorarono.  

L’apparizione di Gesù alle donne suona come una versione condensata di Gv 20,11-18. I termini tipicamente matteani «avvicinatesi… gli abbracciarono i piedi e lo adorarono» esprimono il giusto atteggiamento da tenere davanti al Signore (vedi Mt 28,16-20). L’“accostarsi”, prosérchomai (e altri verbi) è tipico di Matteo, che così vuole significare insieme che Gesù è Re a cui si rende omaggio, è Giudice da cui si accetta l’assoluzione dai peccati, è Dio da adorare. Matteo ha adattato il racconto alle proprie esigenze, in particolare quella di sottolineare che il giusto atteggiamento verso Gesù è l’adorazione (vedi Mt 2,1-12). 

L’apparizione del Risorto (28,9-10) è raccontata molto sobriamente. Tuttavia alcuni particolari meritano attenzione: 

  1. Non è più l’angelo che affida alle donne la missione di avvertire i discepoli, ma è Gesù stesso. La missione è identica, cambia però la figura di chi invia.  
  1. Anche la fede delle donne nella risurrezione si approfondisce e arriva, si può dire, al suo punto più alto: non è più il sepolcro vuoto che le convince, né il messaggio di un angelo, ma l’incontro con Gesù in persona.  
  1. La fede poggia, alla fine, sull’esperienza di un incontro personale con il Risorto. 
  1. L’iniziativa è di Gesù: è Lui che va incontro alle donne, non le donne che lo cercano.  
  1. Nulla è detto sulla loro ricerca e sui loro pensieri. Si racconta però la loro reazione meravigliata: si accostano, gli afferrano i piedi, si prostrano davanti a Lui. Una reazione pronta e calda, piena di affetto e di venerazione. La fede è riconoscimento e slancio. 

v. 10 «i miei fratelli»: I discepoli sono qui chiamati “miei fratelli“. È l’unico passo in cui Gesù chiama così i suoi discepoli. Questi uomini hanno camminato dietro a Gesù come discepoli, ora sono diventati “suoi fratelli”. La relazione si è dunque approfondita. La Croce e la Risurrezione non hanno allontanato Gesù, ma avvicinato. 

«che vadano in Galilea»: C’è una sorprendente somiglianza tra il messaggio dell’angelo e l’ordine dato dal Gesù risorto, al punto da sembrare un doppione (due versioni dello stesso fatto). La ripetizione serve allo scopo di mettere ancora in maggiore evidenza l’apparizione culminante in Galilea (Mt 28,16-20). 

L’evangelo di Marco termina, come si è detto, in 16,8, con la paura delle donne e nessuna apparizione del Risorto (la cosiddetta “finale canonica”, Mc 16,9-20, è fuori considerazione, perché manifestamente posteriore). A meno di ammettere – cosa assai improbabile – che sia andata perduta la finale originaria dell’evangelo, ci deve pur essere qualche ragione di una tale sospensione del racconto. Una spiegazione plausibile è che Marco considerasse la parusia del Signore risorto come un evento talmente imminente da apparire come l’unica vera cristofania. Così il suo evangelo termina su una nota di attesa altamente drammatica, ovvero non si preoccupa neppure di essere concluso, ma lascia tutto lo spazio all’imminente parusia. D’altra parte, lo stesso Marco contiene almeno un cenno a un evento futuro che esso non narra: l’incontro con il Risorto in Galilea (Mc 16,7), che non a caso alcuni esegeti di Marco interpretano come una promessa del ritorno del Messia. Matteo, da parte sua, sviluppa proprio questo tema dell’apparizione in Galilea, ma lo fa in termini teologici molto personali, come il vero epilogo non solo delle apparizioni post-pasquali, ma di tutto il suo evangelo. Benché ci possano essere tradizioni storiche di apparizioni in Galilea (cf. Gv 21), la finale matteana non ha un carattere tradizionale, ma è una costruzione teologica, una sintesi dottrinale dell’evangelista Matteo. Senza essere del tutto inaspettata, ma essendo preparata dall’annuncio dell’angelo (28,7) e dello stesso Gesù (26,32; 28,10), questa conclusione, nella sua particolare posizione strategica, contiene degli elementi originali, che fanno luce su tutta la narrazione precedente, sull’intero progetto teologico matteano. Tutto si capisce veramente solo a partire dalla fine. Il Gesù che appare sul monte ai suoi undici discepoli, è anzitutto il Kyrios. Il termine non è esplicito, ma risulta dall’adorazione dei discepoli che si “prostrano” davanti a lui (proskyneo: cf. 14,33 e passim). E il “Signore” della chiesa, colui che è oggetto di adorazione e di preghiera da parte dei suoi discepoli. Questi, dal canto loro, sono un corpus mixtum (grano e zizzania, pesci buoni e cattivi): “altri invece dubitarono” perfino davanti al Risorto. 

v. 11 «alcune guardie»: Il termine greco (koustodías) preso in prestito dal latino custodia serve a legare Mt 28,11-15 con 27,62-66. Che le guardie facciano rapporto ai capi dei sacerdoti segue da Mt 27,65 dove Pilato dice: «Avete le guardie… assicurate la sorveglianza come meglio credete». Ma non risolve il dubbio se i soldati siano della guardia del Tempio al servizio del sommo sacerdote oppure soldati romani al comando di Pilato. 

«corsero in citta»: Le guardie corrono in città e raccontano alle autorità “tutti gli avvenimenti accaduti”. Ma in realtà non può trattarsi che semplicemente del terremoto e del sepolcro vuoto. Altro non possono raccontare, perché a loro il senso vero degli avvenimenti è del tutto sfuggito. Raccontano i segni, ma senza leggerli. E difatti non raccontano che Gesù è risorto. Tuttavia raccontano cose pericolose, che bisogna assolutamente mettere a tacere. E le autorità hanno un solo modo per farlo: comprare le guardie con il denaro. Hanno comperato con denaro il tradimento di Giuda, e ora vogliono comperare allo stesso modo l’inganno delle guardie. 

v. 12 «dopo essersi consultati»: Il piano dei sacerdoti e degli anziani, che sono stati i principali antagonisti di Gesù fin dall’inizio del racconto della passione, è chiamato symboulion (vedi Mt 12,14; 22,15; 27,7).  

v. 13 «I discepoli…»: Secondo Matteo il piano consisteva nel corrompere le guardie perché dicessero che il corpo di Gesù era stato trafugato dai suoi discepoli. 

v.14 «noi lo persuaderemo»: I capi dei sacerdoti e gli anziani sono convinti che anche Pilato vuole evitare l’insorgere di qualsiasi entusiasmo popolare e possibili tumulti alla notizia della tomba vuota.  

«vi libereremo da ogni preoccupazione»: gravi pene colpivano il soldato che, mancando alla consegna mentre era di guardia, si addormentava. Perciò i capi del popolo cercano di accomodare la faccenda, minimizzandola. L’importante è che la voce si diffonda, che dia credito al rapimento del cadavere di Gesù da parte dei discepoli. 

v. 15 «fino ad oggi»: L’espressione fa pensare che sia trascorso un notevole lasso di tempo tra il fatto e la data di composizione dello scritto. Indica inoltre che la diceria è ancora viva e che deve essere confutata dal versante cristiano. Il denaro non può comunque impedire che la verità si faccia strada. La verità è più forte del denaro. Matteo con questo episodio intende suggerire, fra le altre cose, anche questa: l’inganno delle autorità non è riuscito a fermare la verità di Gesù. Ha solo mostrato quanto la menzogna sia ridicola, anche se -quando l’evangelista scriveva – ancora circolava fra il popolo. Testimonianza contraddittoria, perché le guardie sono costrette a dire ciò che non possono aver visto. Se il terremoto li ha tramortiti, come possono aver visto che il cadavere è stato rubato? Contraddirsi è sempre il destino della menzogna. 

Piccola sintesi 

Lo scopo di questa piccola sintesi  è quello di comprendere il peculiare significato di un testo biblico utilizzato in ambito liturgico. Rifletteremo come l’evangelo della resurrezione di Matteo si inserisce nella struttura che lo sostiene, e mostrare come i significati sprigionati dal testo sacro sia causato dalla relazione dell’annuncio con il suo ambito di proclamazione o, detto altrimenti, dal fondamentale rapporto che intercorre tra testo e contesto, dinamica messa ben in evidenza dalla ricontestualizzazione liturgica. Questo lavoro, se il Signore lo concederà, sarà ripetuto per i brani di Marco e Luca negli anni liturgici corrispondenti. Per questo motivo, all’analisi del testo evangelico aggiungeremo qui alcune riflessioni di carattere metodologico con·l’intento di fornire al lettore quegli strumenti che gli saranno utili, non solo per una comprensione qui più approfondita della lettura liturgica del brano della risurrezione ma, più in generale, per poter acquisire una modalità di lettura valida per ogni testo proclamato dal lezionario. 

Chiunque abbia provato a meditare un testo biblico tratto dal Lezionario della Messa o, ancor più, abbia tentato di guidare un’assemblea nel fare esperienza di Dio che parla alla sua Chiesa mediante la proclamazione liturgica, si sarà più volte imbattuto nella problematica di come mettere in relazione le letture proposte. Avrà inoltre riscontrato, con una certa meraviglia, che i testi liturgici non corrispondono del tutto a quelli riportati nella Bibbia. Talvolta mancano dei versetti, in altre occasioni il naturale finale narrativo è omesso, non di rado si aggiungono brevi parole introduttive per riallacciarsi a un tema o ad una circostanza specifica. Un biblista, per esempio, si troverà certo a disagio quando la notte di Pasqua dovrà proclamare Mc 16, 1-7, consapevole che lo sconvolgente e pregnante v. 8 di questo capitolo finale di Marco è stato omesso. Stessa cosa avverrà nella Solennità dell’Annunciazione (25 marzo) quando si scoprirà che la profezia di Is 7,10-14 si conclude con poche parole estrapolate dal capitolo successivo: «7,14Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele, 8,10perché Dio è con noi». 

Chi abbia un pò di dimestichezza con i testi biblici non può non rimanerne sorpreso, talvolta disorientato, sollevando ben presto delle obiezioni a tale modalità di maneggiare la Scrittura. La liturgia non agisce unicamente sui testi – mediante questi piccoli ma significativi ritocchi – , ma interviene principalmente sui contesti, ricollocando i brani biblici in situazioni comunicative mutate. Si prenda per esempio l’utilizzo liturgico di Mt 1,18-25. La prassi odierna riserva il testo della cosiddetta annunciazione a Giuseppe per diverse occasioni. Tra queste il  18 dicembre, sottolineandone il carattere profetico (abbinato a Ger 23,5-8), e la Messa vigiliare del Natale (abbinato a Is 62,1-5), accentuandone invece il carattere di compimento gioioso. Il brano è poi impiegato in altri contesti celebrativi con diseguali accenti tematici: nella solennità di san Giuseppe, dove l’attenzione è focalizzata sullo sposo di Maria; nella memoria del Santissimo nome di Gesù, ove l’accento cade sul significato del nome; infine nel Comune della Vergine Maria. Lo stesso testo, in ragione del contesto, acquista una cangiante valenza semantica. Un’osservazione simile potrebbe essere fatta, tra gli altri, per il testo delle beatitudini matteane (Mt 5, 1-12), proclamato dalla liturgia nella Solennità di Tutti i Santi, nella Commemorazione dei Fedeli Defunti, nelle liturgie dei matrimoni, nelle memorie dei martiri, e nella IV domenica del Tempo Ordinario A. 

Esempi del genere potrebbero moltiplicarsi, ma questi possono essere sufficienti per comprendere un meccanismo costantemente all’opera nella comunicazione e, dunque, nella trasmissione della Rivelazione, la quale non prescinde dalle parole e dalle modalità umane. Cos’è allora che rende fruibile ed eloquente un testo in così svariati contesti di proclamazione? E soprattutto, cos’è che permette di esplicitare la sua potenzialità semantica, di regolarla, di variarne gli accenti, pur in un arco non infinito di significati? 

Non è nostra intenzione trattare qui principi dell’ermeneutica liturgica della Bibbia, per la quale rinviamo a specifiche trattazioni. Tuttavia ci pare opportuno offrire almeno alcuni basilari chiarimenti sul problema appena suscitato, per poi connetterlo alla nostra prospettiva: il rapporto tra testo scritto e contesto d’uso. 

Il contesto che determina il tipo di comunicazione trasmessa non è più ristretto all’ambito letterario della Scrittura – che il biblista cerca sempre di salvaguardare – ma ampliato a quello liturgico offerto dal Lezionario e dalla celebrazione, che diviene prioritario per la rilettura liturgica del testo biblico. I Praenotanda del Messale Romano vi fanno esplicito riferimento3

La liturgia, dunque, non fa altro che evidenziare e sfruttare un principio che è costantemente all’opera nella comunicazione umana, la quale può essenzialmente essere compresa come quella capacità di due o più interlocutori di convergere su un contesto proprio. Questo principio vale in ordine ad una qualsiasi comunicazione sia questa un’opera d’arte o un film, al pari di un racconto biblico o un’omelia.  Mutato il contesto, il significato del testo acquisirà nuova, talvolta imprevedibile, luce. Tale meccanismo non è d’altronde ristretto alla prassi liturgica, ma appartiene intrinsecamente alla letteratura biblica. Dal punto di vista letterario, la rilettura di tradizioni note in contesti mutati è ciò che ha dato origine al testo sacro. All’origine della comunicazione sta sempre la parola in contesto. Il cambiamento dello sfondo in cui il testo viene collocato fa sì che una parola, una frase, un brano biblico assumano significati diversi. Così dei motivi già presenti nei testi vengono esaltati, assumendo valore tematico, e temi centrali vengono attenuati, divenendo ora motivi di complemento4

In sintesi, comprendere il peculiare significato di un testo biblico utilizzato in ambito liturgico significa avere la capacità di saper cogliere quello scarto semantico che viene a verificarsi ogni qualvolta si traspone un testo dal proprio ambito letterario a un nuovo contesto che, nel nostro caso, è la relazione a una rete organica di racconti biblici, ma anche all’apparato eucologico e celebrativo dell’azione liturgica. 

Su questa basilare proposta teorica offriremo solo brevi spunti. È bene però tenere presente questo percorso metodologico e soprattutto il fatto che la destinazione liturgica rimane l’ultimo e proprio contesto comunicativo (ermeneutico) del testo biblico. Ecco scongiurato un sommario giudizio sull’atteggiamento liturgico nei confronti della Scrittura, occorre, d’altra parte, auspicare un maggior dialogo tra biblisti e liturgisti nell’approfondimento della ricerca, affinché la Scrittura proclamata nel Rito sia sempre più l’evento di un Dio che continua a consegnarsi all’uomo nella fragilità della parola umana. 

La nostra pericope evangelica, pur con suddivisioni più dettagliate, è ragionevolmente divisibile in due frangenti con tre episodi su ogni fronte, come spesso è solito articolare i suoi racconti Matteo. In modo particolare, Matteo 28 presenta un’unità piuttosto compatta. Come in Lc 24, se pur in modo più sobrio, Matteo percepisce la necessità di articolare maggiormente la conclusione marciana, delineando un breve percorso di cui l’annuncio alle donne presso il sepolcro costituisce il primo fondamentale passo. 

A questo livello di collocazione della pericope matteana, va dunque notata subito una significativa diversità tra il valore che essa ha nel testo evangelico e l’uso che ne fa la liturgia. Se 28,1-10 nell’Evangelo di Matteo è il primo passo per la comprensione della risurrezione del Figlio dell’uomo, la liturgia, al contrario, ne usufruisce come climax narrativo e celebrativo della Veglia pasquale. La tensione verso un compimento, presente nel contesto matteano, viene a cadere nel percorso delle letture liturgiche che trovano in questa proclamazione il loro culmine. Il comando del Risorto in 28,10 viene così ad assumere maggiore peso in quanto su queste parole di Gesù termina il percorso del Lezionario, mentre nel contesto dell’opera matteana ha ancora la sfumatura di passaggio, preludendo al glorioso incontro degli Undici in Mt 28,16-20. La corsa all’annuncio (v. 8), interrotta dall’incontro con il Risorto (v. 9-10), diviene paradigmatica di ogni esperienza di fede, soprattutto per quei discepoli che ora, facendo memoria di quanto Yhwh ha compiuto nella storia di salvezza; sono chiamati a incontrare il Cristo vivo prima di annunciare in verità una parola di fraternità, di perdono e di vita (28,10). 

Ma vediamo innanzi tutto la fisionomia del testo e la sua articolazione. Elementi dello sfondo e del primo piano narrativo sono ben articolati, offrendo equilibrio e armonia alla composizione, particolare che favorisce già una comunicazione, la quale, contrariamente a quella di Marco, non ha toni drammatici o paradossali, bensì rassicuranti. Della linea dello sfondo fanno parte le coordinate temporali, la descrizione dell’angelo e la paura degli uomini, parallela a quella delle donne che tuttavia è contrassegnata da gioia (v. 8). Nell’asse principale della narrazione si trovano, invece, l’identità delle due discepole; la loro intenzione di muoversi per «Vedere il sepolcro»; l’intervento angelico; la reazione delle guardie, immobili come morte, a cui si oppone quella della Maddalena e dell’altra Maria che corrono a portare l’annuncio. Segue poi in quest’asse l’incontro con il Risorto che arresta la corsa delle discepole e infine l’adorazione di Gesù da parte delle due donne. La linea del discorso è occupata per la sua totalità (diversamente da Mc 16,3) dalla parola angelica e da quella di Gesù, caratteristica, ci pare, non indifferente, soprattutto se connessa alla particolarità che evidenzieremo al v. 5. Fin da adesso notiamo già che nel contesto della risurrezione narrata da Matteo a nessuno è data voce se non al messo celeste e al Risorto. L’espressione umana di obiezione o d’incomprensione non trova qui spazio. 

Com’è tipico del Primo Evangelista, la parola di Gesù in 28,10 conferma autoritativamente la rivelazione appena offerta, qui mediante la voce angelica, altrove mediante la Scrittura. Dell’esteso annuncio angelico spicca senz’altro la tonalità gioiosa e il raddoppiamento della parola di risurrezione («è stato risuscitato»: 28,6.7). Tale tonalità è rafforzata in 28,9 dove le prime parole del Risorto invitano le donne, quasi fosse un ordine, a rallegrarsi (cfr. imperativo chairete). 

I soggetti femminili che muovono i loro passi all’alba del primo giorno dopo il sabato sono gli stessi già menzionati, nella scena del sepolcro (27,61) e, prima ancora, nell’episodio della crocifissione (27,55-56) dove, come nel nostro testo, sono soggetti del «vedere». Là da lontano (27,55: «vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano»), qui invece nell’azione di avvicinamento al sepolcro («vennero per vedere il sepolcro»). Le donne non hanno perso d’occhio due fondamentali punti di riferimento per la comprensione di questo Messia: la sua passione e la sua morte, la croce e il sepolcro. 

La conclusione solenne dell’annuncio angelico («ed ecco io ve lo dissi») dà particolare peso alle parole e al compito assegnato alle donne in Matteo. Esse, diversamente da Marco e Luca, sono costituite testimoni attendibili: non sono solo le prime a ricevere l’annuncio angelico, ma le prime a cui il Risorto si fa incontro. 

Il messaggero celeste, rivolgendosi a Maria di Magdala e all’altra Maria, sembra andare incontro a un’inespressa richiesta di chiarimento da parte delle due donne che hanno assistito a una manifestazione dai toni apocalittici (28,2-3) e alla reazione atterrita delle guardie che divengono, innanzi a loro, «come morte» (28,4). L’angelo replica dunque al loro sgomento: «non abbiate paura, voi»; ribatte a un timore visibilmente espresso dal loro atteggiamento. La paura umana innanzi all’incomprensibile – spesso palpabile intorno alla tomba di una persona amata – non è banalizzata o sminuita da Dio, ma riceve risposta. Tuttavia, è posta su un altro piano rispetto alla rivelazione, l’unica alla quale Matteo dà effettivamente voce, omettendo ogni altra parola. Il limite imposto alla paura dalla parola dell’angelo diviene passo previo all’accoglienza di una novità. Innanzi all’Altro che si fa incontro in modo inatteso, occorre prima di tutto fugare il timore o quantomeno impedire che esso rinchiuda in una paralisi mortifera la capacità di scelta e di comprensione da parte degli uomini. Nonostante il «comando» divino, il v. 8 («lasciato in fretta il sepolcro, con paura e gioia grande») rivelerà chiaramente che questo forte timore, di fatto, non è·scomparso. E tuttavia è stato affiancato da «gioia grande», da qualcosa di tangibile e profondo che fa sì che esso non divenga totalizzante. La paura innanzi all’incomprensibile, dunque, non scompare, ma in virtù dell’apertura alla Parola di novità (28,6-7) viene ridimensionata e posta su altro piano:·non è più l’unica realtà presente nell’orizzonte della decisione umana. Accogliere la rivelazione ha a che fare con il superamento del timore a cui Dio risponde (v. 5), restituendo dignità alla debolezza e all’incapacità di comprendere da parte dell’uomo innanzi a ciò che lo sorpassa. Tale superamento avviene mediante il perentorio richiamo all’affidabilità della parola del Messia. La paura della morte resta – anche per chi, come le due donne, accoglie il messaggio della risurrezione – nondimeno la fiducia nella Parola del Signore non permette che tale. timore paralizzi il discepolo impedendogli l’annuncio: esso è possibile, nonostante la paura e il limite umano. La corsa delle donne diviene espressione di questo superamento; e proprio nel responsabile cammino di annuncio, Gesù risorto si fa incontro. 

Piccola conclusione 

Le Donne videro tutta la Realtà divina della Resurrezione, che si compendia nella Semplicità del Divino: che «il Crocifisso» è ormai il medesimo che «il Risorto». Per questo i 4 testi evangelici sono grandiosi. Nelle pieghe narrative essi racchiudono più di quanto le generazioni cristiane possano mai comprendere ed esprimere nella fede e nell’amore e nell’adorazione. Essi vanno letti sempre, tutto l’anno, instancabilmente, in specie però al Vespro del sabato e alle Lodi della Domenica. Non vanno lasciati come confinati alla Notte della Resurrezione. Se ne deve parlare sempre. Si debbono spiegare, come per secoli e secoli non si è fatto più, al popolo santo del Signore. Se ne deve fare il centro dell’annuncio nella Diocesi e nella Parrocchia, ai bambini, ai giovani, agli anziani. Soprattutto, la migliore «lettura» di essi è quella celebrativa. Non un’unica volta l’anno. La possibilità che si dà adesso, di celebrare 1′ «ufficio vigiliare» con la proclamazione delle 8 pericopi della Resurrezione nella Liturgia laudativa delle Ore, precisamente all’Ufficio della Lettura, come consigliato, e purtroppo non reso obbligatorio, dall’Institutio Generalis Liturgiae Horarum ( = IGLH), diventi la pratica costante. Questo dettato dice così: 

“Inoltre, poiché nel Rito romano, considerati in specie quanti incombono nell’opera dell’apostolato, l’Ufficio della lettura è sempre della medesima brevità, coloro che vogliano protrarre la celebrazione della vigilia domenicale, delle feste e delle solennità, procedano nel modo che segue. 

Prima si celebri l’Ufficio della lettura come sta nel libro della Liturgia delle Ore, fino alle Letture comprese. Poi dopo ambe le Letture, e prima del Te Deum, si aggiungano i cantici, che per questo sono indicati nell’Appendice del medesimo libro; quindi si legga l’Evangelo, sul quale, secondo l’opportunità, si può fare l’omelia, poi si canta l’inno Te Deum e si dice l’orazione. L’Evangelo nelle solennità e feste si prenda dal Lezionario della Messa, invece, nelle Domeniche, dalla serie del Mistero pasquale, la quale è riportata nell’Appendice del libro della Liturgia delle Ore” (IGLH 73).  

Tali Evangeli della Resurrezione, variamente disposti nei «tempi forti», nella serie più razionale e ordinata del Tempo per l’Anno sono gli 8 seguenti: 

1)Mt 28,1-11.16-20; 

  1. Mc 16,1-20; 
  1. Lc 24,1-12; 
  1. Lc 24,13-35; 
  1. Lc 24,35-53; 
  1. Gv 20,1-18; 
  1. Gv 20,19-31; 
  1. Gv 21,1-14. 

Al Mattutino di ogni Domenica il Rito bizantino da sempre ha la serie degli «11 Evangeli ‘eotini’ [mattutini]», che vale la pena di elencare per utili comparazioni tra un obbligo ultramillenario e la timida proposta del Rito romano: 

1)Mt 28,16-20; 

  1. Mc 16,1-8; 
  1. Mc 16,9-20; 
  1. Lc 24,1-13; 
  1. Lc 24,12-36; 
  1. Lc 24,36-53; 
  1. Gv20, 1-11; 
  1. Gv 20,11-19; 
  1. Gv 20,19-31; 
  1. Gv 21,1-12; 
  1. Gv 21,14-25. 

Questi Evangeli sono accompagnati da diversi e ricchi tropari «della Resurrezione». Tanta benedizione divina che oggi visita i fedeli, non si deve lasciar cadere solo per pigrizia, accidia, aridità. Tanta ricchezza non deve spaventare affatto. Essa va colta sia tutta insieme, come sta, sia a poco a poco. Crescendo per essa. 

Christòs Anésti Alithòs Anèsti Zi ke vasilèvi is pàndas tus eònas. Cristo è Risorto È veramente Risorto Vive e regna per tutti i secoli. 

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano