Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 7 Agosto 2022

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Domenica della «PREPARAZIONE ALLE NOZZE»

Domenica scorsa le letture hanno presentato la ricchezza come un ostacolo per l’accettazione del regno. La lotta per il denaro è uno dei segni rivelatori più evidenti dell’egoismo umano e della divisione. Secondo Gesù, la ricchezza mette l’uomo nel pericolo più minaccioso di non accorgersi della sua venuta, di non percepire l’ultima chiamata di Dio, di non possedere quella radicale libertà di cuore e di tutte le sue energie che è necessaria per l’accettazione piena del regno di Dio. Per questo egli chiede a coloro che vogliono accogliere il regno di Dio e seguire lui più da vicino, di dare in elemosina i propri beni e diventare poveri essi stessi. Il termine della donazione sono i poveri. L’uomo per «avere» è disposto a tutto, anche a derubare il fratello: la donazione libera e gratuita è il segno di una «inversione» di marcia. È il segno della venuta del Regno che è «comunione degli uomini fra loro e con Dio» e non opposizione.

Nella sua riflessione morale l’uomo ha sempre visto nell’avere, nella ricchezza, un pericolo di alienazione. In tutta la storia del pensiero e delle religioni c’è un appello al distacco dai beni materiali in vista della liberazione e della realizzazione della persona.

La povertà evangelica non è su questa linea; non la nega, ma la trascende. Non è moralistica né centrata sull’uomo, ma sulla persona di Gesù. La povertà evangelica è una conseguenza della fede in Gesù e nell’avvento del Regno di Dio. Gesù ha voluto essere povero e ha predicato la povertà non soltanto come liberazione spirituale o morale, ma come condizione della incarnazione redentrice, passaggio necessario verso la risurrezione e preparazione al suo ritorno (Fil 2,5-11; 2 Cor 8,9-15: «9Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. 10E a questo riguardo vi do un consiglio: si tratta di cosa vantaggiosa per voi, che fin dallo scorso anno siete stati i primi, non solo a intraprenderla ma anche a volerla. 11Ora dunque realizzatela perché, come vi fu la prontezza del volere, così vi sia anche il compimento, secondo i vostri mezzi. 12Se infatti c’è la buona volontà, essa riesce gradita secondo quello che uno possiede e non secondo quello che non possiede. 13Non si tratta infatti di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. 14Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: 15Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno»).

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L’appello di Gesù alla povertà è radicato nella sua persona. Egli sa e dichiara che con lui ed in lui è giunto il Regno di Dio. Questo fatto, quando è conosciuto attraverso l’annuncio, invita a prendere posizione, costringe a una decisione assoluta.

Non si tratta semplicemente della scelta tra il bene e il male di fronte a cui la coscienza dell’uomo si trova in ogni istante, e neppure dell’affermazione o negazione di Dio. Si tratta di una realtà ben più profonda e decisiva: in Gesù, Dio fa all’uomo la suprema e definitiva offerta della salvezza, e perciò con la sua iniziativa lo spinge a prendere una decisione definitiva.

«Seguire Cristo significa incontrare i poveri sulla propria strada. L’aver dato da mangiare all’affamato, vestito l’ignudo, visitato il malato o il carcerato, sarà titolo determinante al momento del giudizio definitivo. E quel giudizio finale è già in atto oggi su ogni nostra giornata. Con esempi tratti dal suo ambiente, Gesù ha voluto far capire che solo chi sente la fame, la nudità, la ristrettezza, il bisogno, l’abbandono sofferto dagli altri e fa di tutto perché ne siano liberati, è l’uomo del Regno. Ma decidersi per i poveri non basta. Gesù chiede di più, e cioè che ciascuno di noi si faccia volontariamente “povero”. È il programma di vita proposto da lui e che i suoi seguaci dovranno vivere nello spirito delle beatitudini» (CdA, pag. 32).

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La povertà evangelica volontaria perciò non è tanto un programma di «giustizia sociale» e nemmeno una pratica ascetica, anche se non esclude questi valori, ma è un atto di fede e d’amore. Seguire Cristo nella povertà evangelica è anche attenderlo nella gioia come la sposa attende lo Sposo per la festa delle nozze.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 73,20.19,22.23

Sii fedele, Signore, alla tua alleanza,

non dimenticare mai la vita dei tuoi poveri.

Sorgi, Signore, difendi la tua causa,

non dimenticare le suppliche di coloro che ti invocano.

Nell’antifona d’Ingresso, dal Sal 73,20a.l9b.22a.23a, SC, la supplica epicletica iniziale è rivolta al Signore affinché tenga presente sempre la sua alleanza fedele, per la quale Egli si è impegnato in eterno a favore del popolo suo (105,45; Lv 26,44-43), come promise una volta per sempre ad Abramo (Gen 17,7.8; vedi 12,1-3), e confermò per bocca dei suoi santi Profeti (Gen 33,21) (v. 20a). Per questo si chiede ancora che non abbandoni mai le anime dei poveri “suoi”, stretti a Lui dal vincolo dell’alleanza fedele (v. 19b; 9,17; 67,11). L’Orante si fa perfino più ardito nelle immagini. È come se il Signore dormisse, e perciò gli chiede di alzarsi, per pronunciare finalmente il verdetto nel tremendo giudizio instaurato dai nemici contro i suoi fedeli. L’Orante ricorda al Signore che in fondo questo processo contro i suoi fedeli in realtà è intentato contro di Lui, l’Alleato principale che forma una stretta comunità di vita con essi (v. 22a).

Così non deve lasciar cadere nel vuoto e nella dimenticanza successiva la voce di quanti sinceramente e con ansia Lo cercano, e cercano solo Lui (v. 23a).

Canto all’Evangelo Mt 24,42.44

Alleluia, alleluia.

Vegliate e tenetevi pronti,

perché, nell’ora che non immaginate,

viene il Figlio dell’uomo.

Alleluia.

Il canto all’Evangelom componendo Mt 24,42.44, ci ricorda la promessa del Signore che verrà in modo irrevocabile e inevitabile. Non precisa l’ora. Per questo ammonisce la sua comunità, e anche i singoli fedeli, affinché veglino, stiano pronti e così si facciano trovare. Solo chi attende il Signore è capace di apprezzare il momento presente, di conoscerne il significato e la ricchezza, perché sa collocarlo nella giusta prospettiva, sa collegarlo alla venuta del Signore. L’attesa del Signore apre gli occhi del fedele e gli fa vedere gli uomini e le cose del mondo come sono nella loro realtà profonda. La vita si illumina perché già la presenza di Gesù proietta su di esso la luce di una venuta ancora più perfetta: Gesù viene ancora, viene sempre, fino alla seconda venuta nella gloria.

Nella I lettura (Sap 18,3-9) l’autore sapienziale rievoca sotto forma di «teologia della storia» l’evento antico dell’esodo. Questo secondo il Disegno divino si svolse durante la notte. Il Signore allora dispose in modo mirabile che la notte fosse luce di vita per gli Ebrei, mentre al contrario fosse una tenebra di morte per i nemici inseguitori. Quei padri della loro salvezza imminente erano stati premurosamente preavvisati dalla Parola fedele del Signore (Es 11,4; 12,12.29), affinché nella fiducia totale in Lui potessero stare tranquilli (Sap 18,6; Es 6,8; 13,5; 32,13; 33,1) (v. 6). Così in quella notte decisiva per la loro esistenza di allora e del futuro essi ricevettero dal Signore come una medicina vitale (Es 14,13). Infatti, erano tribolati e perseguitati, e tuttavia erano giusti e innocenti davanti al Signore, mentre i nemici, che erano iniqui e colpevoli persecutori, furono puniti secondo giustizia (v. 7).

Il tratto ripetuto subito dopo in forma chiastica: i nemici degli Ebrei ebbero addosso una rovina enorme, mentre gli Ebrei, preavvertiti provvidenzialmente, ebbero la gloria (v. 8). Infatti i figli dei giusti, i patriarchi, offrivano in segreto, a causa della cruda proibizione egiziana, i sacrifici al Signore (Es 12,21-28), poiché vivevano contro tutto e tutti la Legge santa. Essi perciò erano disposti santamente a subire il bene e il male, perché erano giusti, e nella terra della persecuzione già anticipavano il canto delle lodi dei loro Padri antichi al Signore (v. 9). Si preparavano così alla Venuta del Signore, che quella notte finalmente passò in mezzo al suo popolo.

L’autore ora vive in Egitto, dove i suoi padri sono stati perseguitati, ma è un uomo libero. Egli celebra la notte pasquale; sedendosi a tavola per spezzare il pane nella sua casa, non deve più chiedere che gli egiziani siano annientati: la gioiosa certezza di far parte del popolo dell’alleanza, l’alleluia dei commensali e il sacrificio della cena pasquale gli provano che la promessa di Dio è stata mantenuta. Anche oggi i cristiani partecipano al bene e al male del Paese in cui vivono. Essi vi abitano però come testimoni della chiamata di Dio e, ogni volta che la comunione li riunisce, Dio offre loro pane e libertà.

La notte evoca immagini e sensazioni molto diverse, a seconda della mentalità e del genere di vita. Può essere il tempo dell’oblio, della distensione, del piacere; o il tempo della paura, in cui si cammina rasente ai muri e ci si chiude in casa per timore dei ladri; o il tempo del riposo, dell’incontro, della riflessione, della preghiera; il tempo di affidarsi alle grandi forze di rinnovamento fisico e spirituale che la notte nasconde nel suo silenzio. La notte, temuta, desiderata, misteriosa! Diverse generazioni cristiane sono vissute nella convinzione che il Cristo sarebbe tornato nel cuore della grande notte pasquale, immagine della lunga attesa durante la quale la Chiesa veglia alla luce delle Scritture. In un primo tempo si pensava che questo ritorno fosse vicino. Ma il corso della storia ha fatto vedere ben presto che la veglia sarebbe stata lunga: già Luca insiste sul fatto che la parusia si fa attendere e che non possiamo conoscere il momento della sua venuta. Il Signore verrà come un ladro e coglierà tutti di sorpresa. La sua venuta imprevedibile rischia di trovarci impreparati: «Anche voi tenetevi pronti!».

Il periodo dell’attesa non è un tempo vuoto durante il quale la nostra fedeltà potrebbe affievolirsi. Anche nel nostro secolo l’importanza, se non l’imminenza, del ritorno del Signore deve dominare la nostra vita, per il semplice fatto che quest’esistenza va verso la fine, mentre avanza la vita senza fine. Nella faticosa oscurità della fede, anche quando le tenebre dell’ateismo sembrano dilagare nel mondo, e il «piccolo gregge» sembra diminuire a vista d’occhio, bisogna vegliare attivamente e senza paura, nella speranza e nell’attesa del Signore, che verrà alla nostra tavola per servirci.

II Salmo responsoriale: Sal 32,1 e 12.18-19.20 e 22,1

Con questo Inno di lode e con il versetto responsorio: «Beato il popolo scelto dal Signore» (v. 12b), l’assemblea si acclama come “beata”, il popolo scelto dal Signore quale inalienabile eredità divina.

Il Salmista pronuncia il primo imperativo innico ai giusti, affinché esultino nel Signore (Sal 31,11), poiché per coloro che sono retti di cuore, ossia attuano i divini precetti di giustizia, la lode è il mezzo più conveniente di celebrare il loro Signore (v. 1).

L’esordio, vv. 1-3, è un seguito di «imperativi innici» a esultare, lodare, celebrare, inneggiare, cantare al Signore il «cantico nuovo», quello di vittoria e d’esultanza d’Israele al Mar Rosso (Es 15,1-18), antico e sempre nuovo, ossia ultimo. Di questo il v. 4 dà la motivazione, che prosegue per tutto il corpo del Salmo.

L’Orante celebra il Signore perché la Parola sua è retta, giusta. Essa proclama solo la Bontà divina, l’intervento soccorritore provocato dalla Fedeltà divina che non deflette (v. 4a). La Fedeltà divina indicibile produce opere perfette (v. 4b; Dt 32,4; Dn 4,34; Ap 15,3). Infatti, per il bene degli uomini che ama, il Signore può essere fedele solo a se stesso, alla Parola della promessa che esce dal Cuore suo, Parola creante e operante, Parola trasformante.

Egli non può essere affatto «fedele all’uomo», con tutti i suoi peccati e apostasie e ripensamenti e capricci e viltà. Solo i simili sono fedeli ai simili.

I motivi per glorificare il Signore proseguono al v. 5a. Il Salmista grato acclama al Signore che ama solo «giustizia e giudizio», due termini sempre connessi che indicano la sua carità e l’intervento per ristabilirla in specie a favore dei poveri e degli oppressi a causa del Nome suo. Questo è un tratto biblico, che parte dal desiderio originale del Signore, che Abramo abbia un popolo riconosciuto tra le nazioni perché è l’unico che segue le Vie del Signore, ossia pratica «giustizia e giudizio» (Gen 18,19). Tema poi costante (Sal 10,8; 36,28; 44, 8; 98,4; 145,9; e Mt 23,23), che sarà trasmesso con lo Spirito del Signore al Re messianico (Is 61,1; vedi la Messa crismale). Ma del Signore la misura di questo agire non può essere data, bensì solo dichiarata, poiché l’immensa la Misericordia divina, che è la «morale dell’alleanza» rigorosamente attuata dal Signore, riempie la terra (Sal 103,24; 118,64), e consiste d’altra parte nella sua Gloria (Is 6,3). Anche questa trasmetterà al Re messianico (Is 11,9; vedi Domenica II d’Avvento). E la Misericordia perenne, l’istanza ultima e prima di ogni salvezza (Ab 3,3). È motivo grande della lode al Signore (v. 5b).

I vv. 6 e 9 cantano il Signore che opera con la Parola e con lo Spirito, e perciò su questo Salmo i Padri hanno esercitato profonde riflessioni.

I giusti fanno parte del popolo, di cui il Dio è il Signore, rivelatosi una volta per sempre, dal Roveto ardente, a Mose come «l’Esistente», il Vivente in eterno (v. 12a; Es 3,14). Questo è un tema che ricorre come motivo costante e consueto nella Scrittura (Sal 143,15; Dt 4,7-8; 33,29).

Ma far parte di questo popolo privilegiato non è per iniziativa, né per merito dei fedeli, in quanto per il divino Gratuito imperscrutabile solo il Signore li ha scelti come suo possesso peculiare, come la sua eredità personale e gelosa, e in eterno (v. 12b; Es 19,3-6; Sal 64,5; Dt 7,6; 32,9).

Chi «teme il Signore», ossia vuole con tutto il cuore adempiere alla sua Volontà rivelata, adesso sa dall’Orante che ha il privilegio unico, meraviglioso, della perenne Presenza del Signore con lui. La metafora è bellissima, gli Occhi del Padre buono sono fissati con amore struggente sui piccoli figli bisognosi di tutto. Quel Volto divino si volge sempre e solo verso i figli (v. 18a), si preoccupa di essi, pronto a intervenire per esaudirli (Sal 33,16; 10,5; 140,8). Lo sa bene chi soffre (Gb 36,7). Lo ripete il sapiente ai giovani (Sir 15,20; 34,19; Sap 3,1). Lo canta tutta Sion, a questo invitata dall’Orante (Sal 146,11). E lo conferma la fede apostolica (1 Pt 3,12). Così chi spera solo nella divina Misericordia, si trova confermato (v. 18b).

II primo effetto di questi Occhi divini è l’intervento misericordioso. E anzitutto questo produce lo scampo dalla morte che sta sempre in agguato (v. 19a), poi si configura come il Convito divino, con il Cibo che salva dalla fame e porta alla vita (v. 19b; 38,10-11; 36,19.25; 110,5; Gb 5,20; Lc 1,53, il Magnificat).

La risposta del Salmista a nome della comunità orante si fa proclamazione dell’adesione volenterosa, di fede, al Signore (v. 20a), tante volte richiamata (Sal 24,3; 61,2; 105,13; 129,4), e ribadita con forza e con gioia dai Profeti (Is 8,17). E non può essere altrimenti, poiché solo nel Signore si trova l’Aiuto e il Protettore (v. 20b; 113,9-11), non esistendo negli uomini nessuna speranza, neppure nei capi dei popoli (145,2d; 117,9). Per la loro natura, dagli uomini non può partire mai la salvezza (117,8; Is 2,22). Così che, smentendo l’ottimismo pelagiano che si fonda «sull’uomo», Geremia dirà la parola più forte dell’AT: «maledetto l’uomo che confida nell’uomo» (Ger 17,5).

Il Salmo termina con un’epiclesi: a quanto sperano gli uomini, corrisponda sempre la divina Misericordia (v. 22). Così è completato lo schema stupendo di questo inno, che a rileggerlo si presenta così: la Misericordia divina dell’alleanza opera:

  1. I) con la Parola (v. 4);
  2. II) con la Parola e lo Spirito del Signore (v. 6);

III) con la Parola creatrice (v. 9);

  1. IV) attuando il Disegno eterno (v. 11);
  2. V) con l’assiduo sorvegliare gli eventi umani (v. 13);
  3. VI) con la Mente divina fissa sugli uomini amati (v. 15);

VII) con gli Occhi provvidenti (v. 18).

In tutto questo suona l’unica nota, l’Amore divino fedele, perenne, efficace.

In questa Domenica XIX che possiamo titolare della «preparazione alle nozze» il Cristo Signore battezzato dallo Spirito Santo adempie sempre la missione affidatagli dal Padre passando tra gli uomini anunciando l’Evangelo e operando ogni forma di bene. Nell’Evangelo di Luca che si proclama in questo Tempo tutto avviene sempre lungo la “salita a Gerusalemme” (9,51-19,28). Con la parabola del “ricco scemo” aveva mostrato come “arricchire la propria vita in Dio”. L’istruzione ai discepoli sui beni del mondo era poi proseguita avvertendo quanto fosse vano affannarsi solo per i fatti della vita quotidiana, senza affidarsi anche al Signore Buono e Misericordioso che provvede tutto a tutti (vv. 22-34), La certezza del dono, che il Padre ci ha fatto nel Figlio, vince ogni timore (v. 32). Per questo santo abbandono nel Signore non resta molto tempo: occorre avere fiducia ma anche vigilare e prepararsi (vv. 35-48).

L’esistenza cristiana è attesa di colui che deve tornare: lo sposo! Il discepolo non ha qui la sua patria. La casa della sua nostalgia è altrove. Straniero e pellegrino sulla terra (1 Pt 2,11), non ha quaggiù una città stabile, ma cerca quella futura (Eb 13,14), dove sta colui che attende (Fil 3,20).

La comunità di Luca è cosciente che il Signore non verrà tanto presto. Il momento del suo ritorno sarà la notte, figura della morte personale, anticipo della notte cosmica. Ma il tempo dell’attesa non è vuoto. È il tempo della salvezza, in cui la Chiesa testimonia il suo Signore davanti a tutto il mondo. La storia diventa il luogo della decisione e della conversione, della vigilanza e della fedeltà alla Parola, che ci trasforma a immagine del Figlio.

La nostra vigilanza non è uno scrutare nel buio. È un tenere accesa davanti al mondo la luce del Signore, continuando la sua missione tra i fratelli. Quando camminiamo come lui ha camminato, prestiamo i piedi al suo ritorno. Culmine ed origine di tutta la vita cristiana è il Signore-Morto-Risorto-Asceso al cielo-Donante lo Spirito Santo-che Ritorna fra gli uomini.

Questo brano ricco di termini eucaristico-pasquali, si mette in quest’ottica e chiama tutti, specialmente chi nella comunità ha qualche ministero, a vivere da amministratore fedele e saggio, libero da ogni avidità e attento al servizio dei fratelli.

Esaminiamo il brano

32 – «non temere»: Medio Imp. presente negativo (nel vostro interesse non continuate ad avere paura). Riprende il tema dell’inizio del capitolo. La paura è il contrario della fede (8,24s.50). Il timor di Dio, principio di sapienza, è il tener conto della sua paternità nella propria vita quotidiana. Circa il rapporto fede e paura è molto istruttiva la storia di Giovanni di Karèach e compagni, narrata in Ger 42-43: chi non teme Dio, fa del timore il suo dio.

«piccolo gregge»: Richiama il tema del pastore che si prende cura della pecore (Sal 22; Ez 34; Ger 23,1-6). I discepoli, anche se sono «miriadi di folle» (v. 1), restano sempre un gregge col carattere della piccolezza; perché il suo pastore si è fatto più piccolo di tutti (9,48b). La Chiesa resterà sempre «piccolo» gregge e non avrà mai la pretesa di diventare forte. Tante pecore insieme non faranno mai un lupo!

«al Pade vostro è piaciuto»: Si ribadisce la paternità di Dio.

«di darvi il suo Regno»: Il Padre conosce il nostro vero bisogno: essere ciò che siamo, cioè suoi figli. Questo è il Regno che ci ha donato in Gesù.

33 – «vendete ciò che avete»: Attivo imp. aoristo (è un’azione nuova). Luca tiene conto che i discepoli vivono in una storia concreta dove ci sono beni e denaro, ricchi e poveri. Sono nel mondo, anche se non del mondo (Gv 17,11-16). La soluzione offerta non è rigettare i beni come fossero cattivi, o almeno abolire il denaro. Suggerisce invece di farne l’uso opposto a quello dettato dalla paura della morte. In questo modo tornano ad essere come Dio li aveva pensati: da possesso di una eredità che divide i fratelli, diventano dono che li unisce tra di loro e con il Padre. In questa economia la creazione è buona come era al principio: tutti i beni tornano ad essere mezzi utili al fine.

«date»: Attivo imp. aoristo (ancora un’azione nuova).

«elemosina»: Luca, sulla linea dell’AT, propone ai cristiani l’elemosina come soluzione per vivere con giustizia in un mondo ingiusto (cf. 3,11; 5,11.28; 6,30; 7,5; 11,41; 14,1333; 16 tutto; 18,22; 19,8; At 2,44ss; 4,33ss; 5,lss; 936; 10,2.431). Facilmente può essere interpretata male da chi contrappone giustizia e carità, facendo di questa l’avallo dell’ingiustizia. Elemosina in ebraico ha la stessa radice di sedaqah, che significa proprio giustizia. Per l’uomo biblico non è giusto che uno possegga e l’altro sia nella penuria, perché siamo fratelli. La terra promessa non è un’eredità da spartire dopo la morte del padre, ma un dono del Padre vivente da condividere.

Bisogna inoltre tenere presente che l’elemosina ha il suo vero senso di giustizia solo in un’economia di sobrietà, in cui si lavora e si consuma per vivere e non si vive per lavorare e per consumare. Si suppone una società che sappia perché vive e distingua i fini dai mezzi!

In questa luce si può ricomprendere e rivalutare l’elemosina come l’anno sabbatico calato nel quotidiano. Se la terra è del Signore, lo è anche quanto essa contiene (Sal 23,1). Come quella va ridistribuita, così anche i suoi frutti vanno quotidianamente condivisi. Tra i fratelli, diritti e doveri non sono uguali: i diritti sono proporzionali a quanto uno non ha, i doveri a quanto ha. Per questo ognuno dà secondo quanto ha e riceve secondo quanto gli occorre (At 4,34s). Così si realizza il sogno della terra promessa, in cui nessuno è bisognoso (At 4,34 = Dt 15,4).

L’elemosina biblica è esigenza di una giustizia superiore, dettata dalla misericordia. Questa fa uguaglianza senza appiattire previamente qualità e bisogni. Qui l’Evangelo dà un orizzonte diverso da quello di una pura analisi socio-economica, che riduce l’uomo ai bisogni che ha. Chiede una nuova moralità. Non si tratta di un moralismo più esigente, ma di «Evangelo». È la buona notizia che Dio ci è Padre in Gesù. La nostra azione ha un nuovo fondamento; la nostra vita cessa di essere un accumulo inutile per soddisfare il bisogno, o un’insoddisfazione angosciante per il bisogno di accumulo.

«fatevi borse»: Attivo imp. aoristo (ancora un’azione nuova). Gesù che proibì ai discepoli di portarne (10,4; 22,35), ora dice qual è la borsa che devono avere. Questa non invecchia, neanche nel momento decisivo (cfr 22,36). È anzi l’inizio del mondo nuovo. In essa si ripone solo ciò che si tira fuori, si accumula solo ciò che si dona.

«un tesoro inesauribile nei cieli»: (cfr 6,45; 18,22). Chi tesorizza per sé, perde la vita e non arricchisce davanti a Dio (v. 20s). Chi invece dà, arricchisce davanti a Dio della ricchezza stessa di colui che è ricco in misericordia (Ef 2,4). Il tesoro vero non è ciò che hai, ma ciò che dai: questo non viene meno neanche nella morte (v. 20) Perché chi dà al povero, fa un prestito a Dio (Pr 19,17).

«dove i ladri non arrivano …»: Questo tesoro non occorre né custodirlo né curarlo. Non è oggetto d’affanno e d’angoscia, perché nessuno può sottrarcelo o distruggerlo. È nostro e non viene mai meno: è la nostra somiglianza di figlio col Padre.

34 – «dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore»: L’errore dell’uomo è quello di non avere il cuore dov’è il vero tesoro. Tutti i discorsi del c. 12 hanno alternativamente come auditori discepoli e folle. Valgono per ogni uomo, chiamato a diventare, da alunno della morte, discepolo della vita.

35 – «siate pronti»: attivo imp. presente (ordina di continuare un’azione già intrapresa).

«con la cintura ai fianchi»: È la tenuta di lavoro, di servizio e di viaggio. Prescritta anche per la cena pasquale (Es 12,11) significa che il “cammino dell’Esodo” si realizza nel lavoro e nel servizio quotidiano di chi, celebrando l’eucaristia è associato al mistero del suo Signore che si fece servo dei fratelli (cf. Gv 13,4ss).

Questo è l’atteggiamento corretto per attendere il Signore. Non c’è da guardare in cielo, ma da testimoniarlo sulla terra. La missione del Signore diventa la stessa del discepolo! Ciò che Gesù «fece e insegnò» (At 1,1) è quanto egli impara e fà, insegnando agli altri a fare altrettanto, finché tutti diventiamo figli del Padre. Gesù ritorna tra i suoi allo stesso modo in cui se ne è andato (cf. At 1,11).

«lampade accese»: lett. “ardenti“; non era così agevole accendere le lampade come pensiamo noi moderni e quindi per non fare attendere il padrone al buio, dovevano essere accese anche molto tempo prima. Il pensiero verrà ampiamente commentato poi nella parabola delle “dieci vergini” (Mt 25,lss; si legga anche Lc 8,16; 11,333436). La vita del discepolo, accesa alla luce del suo Signore, illumina anche gli altri. È luminosa, perché testimonianza del Risorto.

I «lombi cinti» rappresentano l’identità del discepolo che serve in umiltà come il suo Signore; la «lampada ardente» la sua testimonianza per gli altri.

36 – «siate simili a coloro che aspettano il loro padrone»: L’uomo è ciò che attende. II cristiano attende il suo Signore, lo sposo che viene per formare con lui un’unica carne e gli uomini, la sposa gli aprono subito, perché lo desiderano.

«quando torna (finisce) le nozze»: La vita terrena di Gesù è stata il tempo delle nozze (5,34). La sua morte è la fine della celebrazione nuziale e linizio dell’unione matrimoniale. Sulla croce (talamo nuziale) Dio si è fatto una sola carne con noi nella nostra morte, per farci un solo spirito con lui nella sua risurrezione. È l’unione che celebriamo quotidianamente nell’eucaristia, nostra vita presente e anticipo della futura.

«arriva e bussa»: Altra allusione eucaristica (cf. Ap 3,20): il Signore si invita a cena nella nostra casa (il nostro cuore). La sua venuta escatologica è vissuta quotidianamente nel banchetto eucaristico.

37- «Beati»: La beatitudine del Regno (6,20) è qui detta di chi conduce una vita pasquale. La sua sorgente è l’eucaristia (cf. 14,15), dove la storia di Gesù si fa nostro presente e ci rapisce nel nostro futuro.

Chi non conosce il Signore cerca la beatitudine in ciò che possiede. Il discepolo sa che la sua vita è il Signore, che per lui si fa riposo, cibo e bevanda, gaudio.

«troverà ancora svegli (vigilanti)»:gr grēgoréō. Il credente veglia nella notte del mondo. E il mondo conosce molte notti. Veglia perché sa che in questa notte avviene qualcosa di grande: il Signore passa. È la sua pasqua.

«si cingerà»: Il Signore si cinge per servire (gr. diakonéō) chi è cinto: serve i suoi servi. Servire significa amare. Nell’eucaristia si celebra l’amore mutuo tra Dio e uomo, che ha nel servizio di Dio all’uomo la sua sorgente (cf. 22,27; Gv 13,4-15).

«li farà mettere a tavola»: lett. ‘li farà sdraiare’’ (gr. anaklínō). Altro termine eucaristico e pasquale, che indica il riposo, la mensa e la salvezza: la comunione di vita beata che lui ci concede.

«passerà»: Il Signore passa, fa grazia della vita ai suoi, le cui case sono segnate dal sangue dell’agnello (Es 12,23.13).

«a servirli»: Gesù nell’ultima cena, istituendo l’eucaristia, dichiara il senso di tutta la sua vita: «Io sono in mezzo a voi come colui che serve» (22,27). In questo servizio il Signore fa giustizia di tutti gli idoli: liquida le nostre false immagini e ci rivela chi è il Signore (Es 12,12).

38«nel mezzo della notte o prima dell’alba»: lett. “alla seconda o alla terza veglia”. I romani dividevano la notte in quattro veglie (turni delle sentinelle di tre ore) e per noi oggi sarebbero mezzanotte e le tre.

Non si parla della prima veglia della notte (le ore 18), che è quella in cui si celebra l’eucaristia. In questa prima veglia si riceve forza per vegliare attraverso tutta la notte.

La notte è ampia quanto la nostra vita, con le sue difficoltà. L’eucaristia ci rende capaci di condurre una vita luminosa e pasquale, fino a quando sorgerà il sole.

39«a che ora»: Il discepolo non ignora l’«ora»: è il presente! L’eucaristia gli dona di vivere ogni ora quotidiana alla luce dell’«ora» pasquale, in attesa del ritorno del suo Signore. Il tempo è pieno, gravido di eternità.

«il ladro»: Chi fa dipendere la vita da ciò che ha, vive la morte come un ladro che ruba tutto (cf. v. 20). Chi attende il Signore, sa che la venuta di questo ladro in realtà è l’incontro desiderato. È l’aprire a colui che bussa per entrare in comunione con lui.

40 – «tenetevi pronti»: lett. “diventate preparati”. Attivo imp. presente. Non si è, ma si diventa preparati (cf. 6,36): tutta la vita è preparazione all’incontro.

«nell’ora che non pensate»: Il momento della fine ci resta ignoto. Sappiamo però che segna l’incontro con «il Figlio dell’uomo» che viene, e sappiamo che tutta la vita è un cammino verso lui.

41 – «per noi o anche per tutti»: Il c. 12 è «innanzi tutto» per i discepoli. Vale però anche per le miriadi di folle (v. 1). Vale per ciascuno in modo diverso, secondo la responsabilità (vv. 42-46) e la conoscenza che ha del Signore (vv. 47-48),

42 – «disse il Signore»: È il Signore che parla e da Buon Maestro spiega con un sistema infallibile: le parabole.

«l’amministratore»: il gr oikonomos è proprio di Luca (cf 16,13.8) tra gli evangelisti. Paolo lo userà per indicare gli apostoli (1 Cor 4,ls) e in Tt 1,7; e 1 Pt 4,10 viene attribuito agli episcopoi e a chi ha ricevuto un particolare carisma di servizio verso i fratelli. L’uomo non è «possidente» (vv. 16-21). È un economo, che amministra beni non propri. Tutto ciò che è ed ha non è suo. È dono di Dio, e deve restare tale per essere quello che è.

«fedele e saggio»: sono le qualità che lo caratterizzano. Fedele è l’amministratore che agisce secondo la volontà del Signore; saggio colui che la comprende. Esemplare è l’amministratore «infedele» al quale si aprono gli occhi e dice: «So che farò», e viene lodato dal Signore come saggio (16,4.8; vedi invece Dom. scorsa in 12,20!).

«porrà sopra la sua servitù»: Il discorso è rivolto innanzitutto a colui che nella comunità è responsabile di non lasciar mancare il pane. Sappia di essere servo e non padrone, sia del pane che della Parola, sia dei fratelli che della loro fede (cf. 1 Cor 1,24).

«per distribuire»: La sua responsabilità è quella di «dare» ciò che a lui è stato dato, come il pane nella moltiplicazione dei pani (9,16), come il suo corpo nell’ultima cena (22,19),

«a tempo debito»: in gr kairòs . È il tempo di Dio per la salvezza: oggi. È il momento in cui non deve mancare il cibo che tiene vigilanti nella notte. Declina il giorno, viene la notte e maggiore è la necessità del suo pane (9,12; 24,29; cf. 11,5-8).

«la razione di cibo»: lett “la misura di grano”, Il responsabile è come Giuseppe, figura di Cristo: egli provvede la misura di grano ai fratelli che l’hanno venduto come schiavo, perché non manchi loro il cibo (Gen 47,12,14).

43 – «Beato, ecc.»: La sorte dell’amministratore fedele e saggio, che ha tesorizzato davanti a Dio (vv. 21b.33s; 16,9ss), è quella di avere per dono tutto quanto è Dio per natura. La misericordia l’ha reso suo figlio ed entra nella gioia del suo Signore (Mt 25,21.23), partecipando all’amore Padre/Figlio (cf. 10,21s). Questa è la vita eterna (10,25.28), che non dipende da ciò che si ha (v. 15), ma da ciò che si dà (v. 33). Per questo chi perde la vita per il Signore, la salva (9,24).

45 – «tarda a venire»: lett. “temporeggia” La chiesa di Luca sa che il Signore non tornerà tanto presto. Ma il suo ritardo non deve dar luogo a un rallentamento della fedeltà e della vigilanza: «Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). Non facciamo come gli «empi che trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia del nostro Dio» (Giuda 4).

«pestare, mangiare, bere, ubriacarsi»: Il mangiare e bere dello stolto possidente (v. 19), non è un «godere», ma un ubriacarsi; il suo non è il «riposo» della terra promessa, ma un calpestare in schiavitù i fratelli.

46 – «giorno e l’ora»: Restano ignoti. Eppure sono il mistero di ogni giorno e di ogni ora del giorno.

«lo punirà con rigore»: lett. il gr dichotoméō = “lo taglierà in due“. Non in senso letterale infatti è tradotto esprimendo la severità della punizione ma è anche la conseguenza dell’alleanza violata: «Gli uomini che hanno trasgredito la mia alleanza, perché non hanno eseguito i termini dell’alleanza che avevano conclusa in mia presenza, io li renderò come il vitello che spaccarono in due passando fra le sue metà» (Ger 34,18; cf. Gen 15,10).

La venuta del Signore sarà il giudizio che evidenzia la realtà. La vita di chi non attende lo sposo è già lacerata e il suo cuore diviso (cf. 1 Cor 7,34). L’uomo è fatto per fare una carne sola con Dio.

Chi non lo ama, resta senza sposo, tagliato dalla sua metà.

47-48a – «ora quel servo che conoscendo, ecc. »: Uno è responsabile in proporzione alla conoscenza che ha della volontà di Dio.

48b- «ora a chiunque fu dato molto»: il passivo teologico rimanda a Dio senza nominarlo. Tutti abbiamo ricevuto un grande dono. Ci sarà quindi chiesto molto. Esattamente quanto fu donato, accresciuto dai frutti di un buon investimento (cf. 19,11ss). Il dono è fecondo come l’amore. Se resta sterile, non è ricevuto come dono d’amore. Il credente è chiamato a prendere seria coscienza delle sue responsabilità davanti a Dio: deve testimoniarlo come Gesù e con Gesù davanti a tutto il mondo. Così diventa ciò che è, figlio dell’Altissimo ed entra in possesso di tutti i beni del suo Signore (v. 44).

Tutti siamo preavvertiti e chiamati a riappropriarci della nostra vocazione – responsabilità personale; solo così possiamo lavorare al meglio.

II Colletta

Arda nei nostri cuori, o Padre,

la stessa fede che spinse Abramo

a vivere sulla terra come pellegrino,

e non si spenga la nostra lampada,

perché vigilanti nell’attesa della tua ora

siamo introdotti da te nella patria eterna.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano