Domenica «della predicazione di Giovanni Battista»
Il messia lungamente atteso sta per venire. Il Giordano, dove Giovanni battezza le folle, non è una piscina miracolosa. Sottomettersi al rito della purificazione senza desiderare il rinnovamento della propria vita e della propria comunità, è cosa senza senso. Né la fede tradizionale né le opere basteranno a giustificare il fariseo. Non vi può essere battesimo (vita nuova) senza cambiamento di mentalità. Il nostro battesimo – al quale dobbiamo continuamente sottoporci – ci deve rinnovare nello spirito di Dio e farci ardere del suo fuoco.
Dio viene, portatore e operatore di salvezza per tutti. Il messaggio che accompagna la sua venuta parla di pace e di riconciliazione. Simbolica è quella presentata da Isaia (prima lettura) tra nemici «naturali» che lottano per la sopravvivenza; reale e simbolica nello stesso tempo quella presentata dall’apostolo (seconda lettura) tra nemici «culturali» che si oppongono per diversa religione.
La riconciliazione, avvenuta nelle comunità cristiane, tra credenti che provenivano dall’ebraismo e dal paganesimo, è sempre soggetta alla provvisorietà, all’equilibrio instabile: esiste nel presente, ma si affida per il domani alla speranza. Essa è tuttavia il segno di un mondo riconciliato in Cristo, dove non contano i privilegi di razza («siamo figli di Abramo»: cf Evangelo) e tutto ciò che separa, ma conta invece l’unica cosa che unisce: la fede nel Cristo Salvatore.
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Isaia ci presenta l’immagine di una società perfetta: un popolo felice e santo, dove le vere esigenze di ogni individuo e quelle della collettività si realizzano concretamente e convivono in armonia. Al centro di queste esigenze sta la pace; la pace viene ottenuta e mantenuta con la giustizia, e la giustizia viene dallo «spirito» di Dio che è l’amore. La società perfetta può sembrare un’utopia, ma Cristo l’ha sancita col proprio sangue, rifiutando di essere il Dio del «tempio» cioè a servizio esclusivo di una casta o di un popolo, e assumendo in pieno il dramma dell’umanità per trasformarla in «novità», in una giustizia perfetta che gli uomini ritengono impossibile perché non sanno rinunciare al proprio «tempio», individualista, classista.
Paolo, nella seconda lettura, fa allusione a conflitti verificatisi nella chiesa primitiva; e ripropone l’esempio e il comandamento di Cristo, d’essere uomini nuovi nell’amore. I cristiani d’ogni tempo hanno tradito la «comunione». Eppure non c’è altro modo d’essere cristiani, se non testimoniando la benevolenza di Dio, vincendo qualsiasi barriera. Dio ha fatto comunione con gli uomini senza tradire la sua «personalità»; così per l’uomo è possibile amare tutti, pur lottando contro il male e restando fedeli alla verità.
La salvezza per l’umanità significa dunque rompere tutte le barriere, uscire da sé per incontrare gli altri, aprirsi alla rivelazione reciproca, perdonarsi e amarsi come persone, come figli di Dio. Così ha agito con noi il Signore Gesù, rispettando le attese e le possibilità di dialogo di ciascuno: nel passato, accostandosi agli Ebrei come realizzatore della «fedeltà» di Dio e ai pagani come portatore di un amore gratuito; oggi, e sempre, suscitando in ciascuno (persona, popolo, generazione…) una risposta originale che diventi poi ricchezza comune. Non è quindi un’utopia sperare in un’umanità riconciliata, nonostante le attuali guerre e divisioni, nonostante gli squilibri e le discriminazioni: perché la salvezza definitiva è opera del Signore che viene e che verrà, e chiede ai suoi amici di collaborare perché il suo progetto divenga sempre più realtà effettiva.
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Questo significa accettare il messaggio del Battista, che oggi è quello della Chiesa e dei suoi vescovi, degli uomini più lucidi e impegnati che sono i profeti del nostro tempo, e produrre frutti di penitenza e di conversione. Il giudizio che ci attende lo prepariamo con le nostre mani: il fuoco inestinguibile distruggerà tutto ciò che non ha solidità perché non fondato sulla «sapienza che viene dal cielo» (I colletta); ed è appunto in questa prospettiva che l’assemblea domanda di saper «valutare con sapienza i beni della terra, nella continua ricerca dei beni dei cielo» (orazione dopo la comunione[1]).
L’Eucaristia offre ai cristiani l’occasione di provare il loro universalismo e di rifiutare una separazione fra i «deboli» e i «forti», poiché a questa mensa il Signore si offre per tutti. È il «vincolo dell’unione»: unione con i fratelli, unione con Dio in Cristo. Il nostro incontro con gli altri deve superare gli stretti confini della pura cortesia e della civile convivenza per non vanificarsi. La categoria sociale fondamentale è il rapporto «io-tu». Ora il «tu» dell’altro uomo è il «tu» divino. Il popolo di Dio tiene desta nel mondo questa speranza quando, pur guardando al futuro, vive nel presente in modo credibile, cioè con fede, carità e ferma speranza.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Cf Is 30,19.30
Popolo di Sion, il Signore verrà a salvare i popoli
e farà sentire la sua voce potente
per la gioia del vostro cuore.
L’antifona d’ingresso è Is 30,19.30 adattato. Il Profeta, dopo avere annunciata la punizione del popolo ribelle (30,8-18), interpella il «popolo di Sion», la Città di Dio, la Sposa diletta del Signore, la comunità che ha diritto all’annuncio favorevole e sfavorevole. La benevolenza del Signore muta il suo destino: Egli stesso viene per salvare, con il suo popolo amato, anche le nazioni pagane, tutti gli uomini che lo vogliano. Questo avverrà attraverso la Manifestazione visibile, ascoltabile, maestosa della Gloria divina. Così le nazioni potranno testimoniare con i discepoli: «E vedemmo la gloria di Lui, gloria come del Monogenito del Padre, ricolmo della Grazia e della Verità» (Gv 1,14). Il Signore che viene in questo modo sovrano vuole provocare non il terrore, ma la Gioia divina nel profondo del cuore dei fedeli.
Canto all’Evangelo Lc 3,4-6
Alleluia, alleluia.
Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
Alleluia.
Nel canto all’Evangelo (Lc 3,4.6.) Giovanni il Battista si fa portavoce della Parola antica contenuta nel «libretto delle consolazioni d’Israele», all’esordio (Is 40,3-4), che mentre annuncia l’inevitabile ritorno del popolo dall’esilio, umanamente imprevedibile, ripropone la divina Presenza nel suo seno stesso. Ma la condizione di questa Venuta Presenza è prepararsi in tutto, affinché il Signore possa venire; in qualche modo, è rendersi degni della Venuta, il cui simbolo è farsi la via nuova del Signore nel deserto, da percorrere insieme con Lui verso la Patria. Solo così «tutta la carne», ossia tutti gli uomini esistenti potranno sperimentare vitalmente la Salvezza divina, che è il Signore stesso. Questo orienta e colora la proclamazione dell’Evangelo di oggi.
I temi che questa seconda domenica d’avvento propone alla nostra riflessione sono quanto mai suggestivi. È anzitutto la profezia di Isaia al cap. 11, 1-10 con l’annunzio del virgulto nuovo che fin dal suo nascere si porrà come segno di attrazione a cui si volgeranno tutte le genti; profezia che la tradizione ebraica e cristiana hanno sempre interpretato in senso messianico.
È l’avverarsi di questa profezia nel brano evangelico (Mt. 3, 1-12) che, mentre ci annuncia la venuta ormai imminente del salvatore atteso, ci invita anche con forza alla penitenza che purifica il cuore, lo rende disponibile all’incontro col messia che viene nel mondo e lo apre alla speranza e all’amore universale.
Questa speranza di Israele ha nell’Evangelo di oggi il primo annunzio della sua realizzazione. Giovanni Battista, il testimone della luce (cf. Gv. 1, 8), la «voce» che grida e chiama a penitenza per preparare nel deserto la via del Signore, annuncia l’imminente venuta del regno atteso.
Il centro dell’Evangelo nella realtà, nell’intenzione di Matteo, nella nostra considerazione odierna, è e resta per sempre il Signore Gesù Cristo. Il brano di oggi, come quello della Dom. III seguente, delinea tuttavia anche un altro «polo» alla nostra attenzione, la figura gigantesca di Giovanni figlio di Zaccaria.
Il Signore stesso dirà che è «il più grande tra i nati da donna» (Mt 11,11; cfr. III Dom d’Avvento). Questa considerazione è espressa nel calendario liturgico e nella iconografia, oltre ad essere cantata e celebrata in numerosi inni ed omelie. Il Battista è il solo, dopo la Madre di Dio, ad avere una classifica simile nel calendario liturgico: a lui è dedicato un intero ciclo di feste:
- non a caso la grande tradizione cattolica celebra, in Oriente come in Occidente, al 24 Giugno, la «nascita », come memoria di Giovanni detto «il Battista »;
- della sua decapitazione ( 29 agosto );
- la Chiesa Ortodossa prosegue con la commemorazione del suo concepimento (23 settembre);
- oltre alla Sinassi[2] ( 7 gennaio ).
È utile annotare come, un antico filone della tradizione, dispone che l’icona detta «la Déésis», «l’Intercessione» perenne, sia dipinta (scritta) in modo che al centro stia in trono il Signore Pantokràtór, colui che tutto regge; oppure che stia sulla croce; alla sua destra sta la Madre di Dio, alla sua sinistra il Battista, ambedue con le mani indicanti il Figlio di Dio che contemplano e pregano quale unico mediatore nello Spirito al Padre.
Maria e Giovanni (variante tardiva: l’evangelista) rappresentano la Chiesa che intercede presso il suo Signore, e indicano che l’adorazione dei fedeli che guardano l’icona va alla Persona vivente di Cristo.
In Cristo i fedeli incontrano il Padre e lo Spirito Santo; Cristo Re e Sacerdote introduce tutti al Padre, come già vi introdusse la Madre sua e il Precursore suo. Dall’icona alla musica: ecco una nota culturale imponente, che riguarda Giovanni il Battista. Si sa che l’inventore della notazione musicale, Guido monaco d’Arezzo, per dare un simbolo grafico e suonante alle singole note, significativamente partì dall’inno al Battista, e dalle iniziali dei versetti trasse il fatidico do-re-mi-fa-sol-la-si-do.
Da allora nelle chiese del mondo, per non parlare fuori delle chiese medesime, la musica è un continuo e gioioso inno al Signore; forse non a caso essa trae i suoni dalla reminiscenza del più grande dei santi, Giovanni.
Matteo dà una presentazione sobria e densa della figura del Battista: è persona maestosa, severa, uomo giusto e pio, santo e buono, inflessibile riscattatore dei diritti di Dio.
«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino», la motivazione che stava al fondo di tutta la sua azione era la venuta prossima di Colui che avrebbe operato il giudizio e battezzato «in Spirito Santo e fuoco».
Giovanni ha inciso profondamente sul popolo con le sue parole, e più ancora con la sua persona e il suo modo austero e penitenziale di vivere. Era una predicazione esigente: non si accontentava di qualche preghiera o di qualche rito in più, e non risparmiava coloro che nella società avevano prestigio particolare, come i Farisei e Sadducei.
L’orizzonte di conversione dell’Evangelo è ampliato dallo splendido brano di Isaia che descrive il regno dell’Emmanuele (cf I lett): allo sforzo penitenziale faticoso che trasforma il cuore e i gesti nella conversione, di cui si parla nell’Evangelo, subentra qui una trasformazione prodigiosa operata dalla presenza e dall’azione del Messia.
Grazie ai doni e alla potenza dello Spirito il mondo viene purificato da quanto ha di feroce e di violento e diventa un nuovo paradiso di pace e di giustizia.
Giustamente Paolo, nel brano della lettera ai Romani, dice esplicitamente che: «Tutto … è stato scritto per nostra istruzione, … perché teniamo viva la nostra speranza». La grazia e il dono di Dio devono essere accolti continuamente; nella sua Parola, fonte di «speranza e consolazione» noi troviamo sostegno nelle difficoltà e forza per portare la croce quotidiana senza perdersi d’animo.
I lettura: Is 11,1-10
La pericope naturale sulla Manifestazione grandiosa, nello Spirito di Dio, del Re davidico, per sé va da Is 10,33 a 11,10; essa poi va letta con 32,15, poiché dal Re lo Spirito del Signore deve essere riversato con infinita abbondanza su tutto il popolo messianico.
Va tenuto conto qui anche del contesto, che è una singolarità di Isaia. Il testo si trova verso la conclusione del «libretto dell’Emmanuele» (Is 6,1 – 12,6). Questo si inizia con la visione teofanica del «Signore delle Seba’ót», il «Santo Santo Santo!» (6,3); si dirige alla profezia della Vergine che partorisce l’Immanuel quale unico Segno di salvezza (7,14); porta al centro l’enunciazione dei Nomi del Figlio nato (9,6); perviene alla descrizione dello Spirito messianico che riposa su Lui (11,1-10), e infine erompe in un «Salmo di lode» al Signore Dio della salvezza (12,1-6; un vero Salmo, che come diversi altri si trova fuori del Salterio). Perciò il testo di oggi è straordinario, e porta con sé innumerevoli richiami, dei quali saranno annotati quelli principali, oltre a una serie di reminiscenze, che l’orecchio docile alla Parola saprà trarre da sé, anche proseguendo per tutto l’anno a tenere desta l’attenzione sulla santa Parola divina che il Lezionario offre.
Questo testo di Isaia nella proclamazione liturgica comprende due brevi pericopi, che contengono due profezie messianiche, e un versetto conclusivo (v. 10), aggiunto forse posteriormente.
- Il rampollo di David (vv. 1-5). Il profeta descrive un personaggio misterioso, un nuovo David (cf. Is. 9,6), che sorgerà quando la dinastia sarà scomparsa per sempre: è il messia, che possiederà la dignità regale e la eserciterà nella giustizia e nella pace (cf. 2 Sam 7,16; Sal 72; 89; 110). Per il compimento della sua missione, egli avrà su di sé la pienezza dello spirito di lahvé. Lo Spirito si riverserà su di lui con l’abbondanza dei suoi doni. Tali doni sono menzionati, nel testo, in numero di 6, mentre il numero tradizionale di 7 deriva dalle versioni greca e latina.
- Pace universale (vv. 6-9). Questi versi famosi contengono una descrizione allegorica della pace del regno messianico. La pace infatti sarà una prerogativa essenziale del regno del nuovo David. Il sovvertimento benefico delle leggi della natura sarà l’effetto della conoscenza di lahvé e della sua legge (conoscenza che, secondo la mentalità ebraica, è pratica e sperimentale).
Queste profezie non sono una utopia, ma nella loro sostanza si sono già realizzate in Gesù, figlio di Davide. Egli è stato «elevato» come un «vessillo» (v. 10), e attorno a lui si sono radunati tutti i popoli. Per la sua presenza, l’umanità si trasfigura a poco a poco in una nuova creazione, in cui regnano la giustizia e la pace. I credenti devono desiderare che l’utopia del regno messianico diventi sempre più realtà; devono comunicare al mondo il desiderio dell’unione con Dio e della sua pace.
Il Salmo responsoriale: 71,1-2.7-8.12-13.17, SR col responsorio: Vieni, Signore, re di giustizia e di pace. Il Versetto responsorio, v. 7, canta la Giustizia divina e la pace perenne che fioriscono alla Venuta del Re, Colui che viene, «il Forte», che battezza con lo Spirito Santo e il Fuoco, adempiendo tutto il Disegno regale divino.
Con i Sal 2; 17; 19; 20; 44; 88; 100; 109; 131; 143, il Sal 71 forma il genere letterario importante e difficile dei «Salmi della Regalità» messianica. Tra essi alcuni (come Sal 2; 44, 71; 109) sono anche tra i più difficili del Salterio, e perfino dell’intero AT In particolare, il Sal 71 sul Re messianico, che è insieme Figlio di Dio (2,7; 88,27-28; 109,4) e Figlio di David (88520-38), e Dio egli stesso (44,7), descrive la vicenda complessa sotto le forme di intronizzazione, della benedizione, dell’arricchimento di doni, che la teologia simbolica desume dai costumi e dall’ideologia regali dell’Oriente.
La figura umana del re in Israele viene sempre interposta tra due posizioni: una, negativa: solo il Signore è il Re del popolo dell’alleanza divina. Una a favore: per sola benevolenza, il Signore chiama a partecipare alla sua regalità universale il «suo Unto», da Lui scelto e consacrato con lo Spirito divino, a partire da David e per sempre, donandogli anche un’alleanza particolare, la quale superando ogni ostacolo andrà al suo effetto. Le catastrofi nazionali causarono una revisione profonda. La seconda visuale ricevette una dinamica messianica, fino al limitare del N. T. Questo è visibile dai Profeti (Isaia I, Isaia II, e quest’ultimo con la figura del Servo regale; Michea; Ezechiele; Zaccaria; Aggeo), fino alla misteriosa figura del Figlio dell’uomo di Daniele. Se ne ha però un riflesso visibile nei libri storici; in specie nella cosiddetta opera storica del Cronista (1 e 2 Cronache), che incentra la narrazione così solenne e ieratica su David e la sua opera per il culto, e sull’attesa di Uno che discenderà da lui, ma sarà eletto e inviato dall’Alto. Allora la sua venuta sarà per Israele l’epoca del ristabilimento finale del culto divino, della santità, della pace. Il suo nome e il suo volto, quando saranno manifestati, segneranno un’era regale senza fine.
Per l’importanza del Sal 71, e anche perché tornerà nel Lezionario diverse volte e con diverse scelte di versetti (e relativi micidiali tagliuzzamenti), sarà opportuno, ma in altra occasione, commentare tutto il canto.
Esaminiamo il brano
1 Il brano tratto dal c. 3 dell’Evangelo di Matteo che fa da ponte tra i cc. dell’infanzia (1-2) e l’inizio del ministero di Gesù (4,12.17) inizia grandiosamente. Il testo greco suona così: «Poi in quei giorni comparve (venne) Giovanni il Battista».
In quei giorni: Viene usata un’espressione dell’AT per segnare l’inizio di un nuovo periodo, non per dare un’indicazione di tempo precisa. In realtà la storia è saltata improvvisamente dall’infanzia di Gesù alla sua maturità. Giovanni il Battista si affaccia sulla scena senza alcuna presentazione; in Luca, Giovanni è una figura di spicco nel racconto dell’infanzia di Gesù, ed in Marco il suo ministero segna «l’inizio del lieto messaggio».
Il verbo paragìnetai (= essere vicino; venne) forma aggancio letterario con il paragìnetai del v. 13, riferito con grandiosità ancora maggiore, a Cristo che per la prima volta appare sulla scena della sua Vita pubblica.
Mt propone diversi paralleli tra il Battista e Gesù: cfr. oltre a 3,1 = 3,13 anche 3,5 = 4,25 ecc. I parallelismi creati dall’evangelista sono finalizzati a collocare senza ombra di dubbio Giovanni nel tempo messianico e a mostrare la superiorità di Gesù sul Battista quale vero Messia (cfr. 3,11.14).
«a predicare»: L’apparizione del Battista non è apparenza. Egli porta il preciso mandato divino, predicare (kèryssò) nel deserto della Giudea. Anche Cristo viene per predicare, kèryssón (4,17, per la prima volta). Il verbo greco, da cui il termine kérygma (indica il messaggio, il contenuto annunciato), vuol dire propriamente «bandire, proclamare» e si usava per esprimere la diffusione di un messaggio per mezzo di un araldo. Il termine passò poi a denotare la predicazione apostolica intenta a diffondere nel mondo il messaggio evangelico.
«deserto della Giudea»: è la regione sassosa e brulla che, ad est dell’altipiano della Giudea, scende verso la vallata del Giordano e il Mar Morto. Il luogo prescelto dal Battista, è il luogo sterile della sete, dell’arsura del sole, delle belve; è frequentato solo da banditi e fuoriusciti.
Occorre tuttavia avvertire che «deserto»è una parola che può trarre in inganno se richiama alla mente i deserti come il Sahara, con chilometri e chilometri di sabbie che si perdono all’orizzonte. Il deserto della Giudea, soprattutto vicino al Mar Morto, presenta anche zone semiaride; in gran parte della sua estensione, però, offre un terreno adatto, in certi periodi dell’anno, al pascolo delle pecore. Da notare che ogni terreno destinato al pascolo e non coltivato a grano o a ortaggi viene chiamato nella Bibbia «deserto». Nel «deserto» luogo di solitudine, in greco érémos. Dio si preparò il popolo dell’esodo (esilio dei 40 anni); solo nella sterminata solitudine e nell’infinito silenzio si può percepire nettamente la Parola divina che ne emerge e vi irrompe e si fa ascoltare (cf Is 43,19; Is 41,18-20).
Anche il Signore dovrà ripetere tale esperienza, «per essere tentato» (cf Mt 4,1-11). Il deserto è anche luogo di rifugio sia per Gesù [cfr. Me 1,35.45 (= Lc 4,42; 5,16) e 6,32.35], per la Chiesa (cfr. Ap 12,6.14) che per i perseguitati in genere [cfr. Es 2,15 (Mose); 1 Re 19,3s (Elia); 1 Mac 2,29-30 (Mattatia e compagni]. La «predicazione nel deserto» che nel nostro linguaggio assume il significato di «parlare a nessuno che ti ascolti», qui assume la forma massimamente positiva: se vuoi ascoltare la Parola, devi recarti nel deserto.
2 Tutto il versetto è di una densità eccezionale. Il verbo «Convertirsi» qui è indicato con metanoéó, cambiamento (metà) di mentalità (nus), corrisponde nel N.T. all’ebraico šub (ritornare), caratteristico della predicazione profetica (cfr. Ez 18,30-32). La conversione riguarda essenzialmente il modo di pensare e come conseguenza, anche il tenore di vita (cf nuova colletta). Si vuole alludere alla mentalità vecchia, di rovina, lontana da Dio e non solo da Dio, e il «voltarsi» decisamente per annullare la separazione del peccato: da se stessi, dal prossimo, dal mondo, da Dio. Non è un caso che la prima parola di Giovanni sia «la prima Parola», e l’ultima, poiché in fondo le altre se ce ne sono di diverse, non fanno che esplicitare questa.
«Convertitevi!» è la prima-ultima Parola del Signore stesso, vedi Mt 4,17; della Chiesa la mattina radiosa ed infuocata della Pentecoste, per bocca di Pietro nella prima predicazione della Chiesa ora nata dallo Spirito: At 2,38; è la Prima-ultima Parola dello Spirito alle «sette Chiese» dell’Apocalisse (7 = numero simbolico per indicare la «pienezza»; leggi Ap 2-3). «convertitevi» il tempo del verbo greco è l’imperativo presente positivo che viene usato quando si vuole sottolineare il comando di continuare un’azione già iniziata.
«il regno dei cieli»: a differenza di Mc e di Lc che hanno sempre “regno di Dio”, Mt parla costantemente di regno dei cieli; l’espressione, una metafora, rispecchia probabilmente l’originale aramaico, in cui il nome di Dio è sostituito, per riverenza, con quello dei «cieli».
Il regno quindi non è da prendere in senso locale (= regno territoriale) ma piuttosto in senso di dominio, cioè quella condizione del mondo e dei sìngoli uomini nella quale Dio regna pienamente su di loro. Si tratta di una metonimia (= nominare il contenente per il contenuto), con la quale viene indicato Dio stesso, senza però nominarlo.
«è vicino»: una parola tremenda, le illusioni sono finite per gli uomini. La Realtà è già qui; la indicherà tra poco: Cristo con lo Spirito (cf scena del battesimo). Cristo stesso lo ripeterà in Mt 12,28.
3 Ora citando dell’AT Isaia 40,3 Matteo lo dice esplicitamente: «È colui annunciato da Isaia». È impressionante qui l’accordo degli evangelisti: tutti e quattro parlano della profezia di Is 40.3. Il testo dice alla lettera: «Ecco uno che grida: Nel deserto preparate la via del Signore, raddrizzate i sentieri suoi!». La profezia di Isaia citata si riferisce in primo luogo agli esuli che ritornavano da Babilonia, ritorno che prefigurava la conversione verso il Messia.
Il NT opera un piccolo spostamento, per adattarlo alla predicazione del Battista: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate…». Chi parla annuncia la parola di Dio: infatti è colui che grida nel deserto. Il contenuto è la preparazione (cf Evangelo Dom. I di Avv.); preparare la Venuta, per stare preparati alla Venuta.
È necessario quindi preparare gli uomini alla sua venuta perché non siano colti di sorpresa dal regno che viene. Proprio questa è la missione di precursore, di cui Giovanni il Battista ha piena coscienza e che lo conduce dal deserto in mezzo alle folle per predicare la penitenza nel momento in cui egli sa, per rivelazione divina, che il messia sta per manifestarsi agli uomini.
La penitenza a cui il Battista ci chiama con il battesimo nell’acqua ci è da lui presentata come la premessa indispensabile per poter accogliere quel battesimo nello Spirito e nel fuoco che solo potrà salvarci dall’ira che incombe su di noi a causa del nostro peccato. Non possiamo appellarci a nulla, non possiamo appoggiarci a nessuna speranza umana né presumere di avere in noi alcuna ragione di salvezza: nulla potrà sottrarci a questa forza nuova di purificazione che sovrasta. Non ci sono davanti a Dio titoli di privilegio:
«preparate »: l’imperativo aoristo positivo ordina di dare inizio a un’azione nuova.
4 Giovanni ha il caratteristico indumento del profeta, come sì legge di Elia in 2 Re 1,8 e in Zc 13,4.
«la cintura di pelle»: era il segno dello stare sempre pronti alla chiamata divina (cf Lc 12,35), come lo furono le 10 vergini (vedi Mt 25,1-12).
«locuste e miele selvatico»: Anche il cibo di Giovanni ha un significato simbolico. Le locuste sono animali distruttori, lasciano la terra desolata, dopo il loro passaggio resta solo da mangiare esse stesse, cibo peraltro ammesso dalla Legge (Lv 11,22). Il miele selvatico è quello che le api depositano in arnie naturali e che si raccoglie senza fatica; non richiede né attività operosa, né lavoro diligente.
Al contrario di quanto spesso si catechizzi, la promessa della «terra dove scorrono latte e miele» (cf Es 3,8; Lv 20,24; Nm 13,27; Dt 8,8; Sir 46,8; Ger 11,5), è la terra del tutto povera: dove si succhia «il miele dalla roccia» (Dt 32,13), dove il latte è quello delle capre selvatiche, dove piove solo due volte l’anno. È la terra benedetta, non grassa come l’Egitto, dove il popolo sa di stare senza sussistenze agricole, alla disposizione del Signore ed alla sua provvidenza.
Giovanni dunque sta nella condizione ottimale davanti al suo Signore.
5-9 Nonostante la durezza della sua vita ed il tratto irsuto verso i visitatori, Giovanni ottiene un successo predicatorio enorme. La gente viene a confessare i peccati in segno di preparazione all’attesa Venuta, e come segno della loro desiderata purità accettavano il battesimo d’acqua nel Giordano, che simbolicamente doveva portare via le loro sozzure.
Esistevano a quel tempo vari tipi di battesimo (da non confondere con le abluzioni rituali del giudaismo per le «impurità» legali) segno simbolico della conversione e della purità voluta (la setta di Qumran battezzava quotidianamente gli adepti; esistevano altre sette battiste).
A giudicare dall’esterno il rito di immersione di Giovanni si presentava del tutto analogo; offriva però una particolarità, era irripetibile e si qualificava soprattutto per la sua prospettiva escatologica, di preparazione all’avvenimento ultimo e decisivo per il destino degli uomini, annunciato come imminente.
5 «da Gerusalemme… la Giudea»: sono due metonimie, viene cioè nominato il contenente per il contenuto (es. la città per i suoi abitanti, la nave per i passeggeri, ecc.).
7«farisei e sadducei»: tra i penitenti del Battista vi sono due categorie che nella vita ordinaria avevano ben poco in comune, i farisei e i sadducei, che qui vengono associati quali rappresentanti del giudaismo ufficiale e impenitente.
«razza di vipere» il pungente appellativo, che richiama Is 14,29 in cui la vipera rappresenta l’ostinazione nel male, mira a scuotere gli animi dalla falsa sicurezza di essere nel giusto. Più tardi le medesime categorie saranno apostrofate da Gesù, alla stessa maniera, per la loro ostinata opposizione (cfr. 12,34; 23,33 e 21,32).
I farisei per la loro sicurezza formale e la loro autosufficienza spirituale; i sadducei per la loro vantata origine sacerdotale e la loro rilassatezza di costumi.
Il richiamo ad Abramo (v. 9) è superfluo se non si vive come suoi discendenti; l’appello alle origini non è valido per la salvezza se non si portano i frutti che la radice comporta.
8« Fate » : l’imperativo aoristo positivo ordina di dare inizio a un’azione nuova.
«conversione»: in gr. metanoias = mutamento di parere.
9«non crediate» l’imperativo aoristo negativo ordina di non dare inizio a un’azione nuova.
10 «la scure sta alla radice»: testi come Is 10,33-11,1 (cf I lett.) ci aiutano a comprendere la profezia di Giovanni.
«viene tagliato e gettato»: il modo con cui si evita di nominare direttamente Dio ci dice che siamo di fronte a un passivo teologico. È questa una forma propria del linguaggio popolare la cui frequenza nel N.T., specie in Mc (151 volte) e in Gv (162 volte), è forse dovuto a influsso aramaico. Il Signore stesso quindi, abbatterà con furore irresistibile ogni alta cima, fino ai colossi tra i cedri del Libano, farà precipitare con immane fracasso tutta la superbia umana dal capo innalzato. Egli si formerà un «Resto» santo, la Radice di lesse, sul quale riposerà la Pienezza dello Spirito. Il taglio adesso però è ancora più radicale, coglierà le radici stesse. La fine dell’albero abbattuto è il fuoco.
11-12 Giovanni dichiara apertamente che il suo battesimo è solo un segno per condurre alla conversione preliminare; ma ecco «colui che viene (il messia)», ma ancora per poco senza nome e volto. Il Cristo che viene ha in mano la pala per separare il grano buono dalla paglia da bruciare come profeticamente era stato annunciato (cf MI 3,19).
11«battezzo… battezzerà»: il presente è il tempo della realtà e descrive un’azione che si sta svolgendo ora, in questo momento, con tendenza a durare verso un immediato futuro. Il futuro è l’unica forma verbale che astrae dal genere dell’azione e indica il tempo, perciò viene usato anche per esprimere la volontà e la possibilità; spesso denota sicurezza e fiducia nel realizzarsi dell’azione indicata.
«per la conversione»: ancora il gr. metanoian = mutare pensiero, pentirsi.
12«Egli ha in mano… »: un’immagine presa dal lavoro agricolo conclude il discorso del Battista per indicare l’inappellabilità del giudizio divino che si compie con la venuta del Messia e le sue conseguenze irrevocabilmente drammatiche per i malvagi.
Il concetto di Messia che ha il Battista è piuttosto apocalittico; Gesù avrà un’altra coscienza di sé e della sua missione come testimonia bene Mt 11,2-15, in cui viene spiegata la linea d’azione di Gesù e riportata la sua stima per il Precursore.
Cristo tuttavia è veramente ministro di salvezza per il suo popolo, il popolo dei circoncisi, perché Dio è fedele alle promesse fatte ai padri; ma è egualmente autore di salvezza per tutte le genti per l’immensità della sua misericordia. Come il cuore di Dio, anche il nostro deve aprirsi egualmente ai vicini e ai lontani per accogliere tutti nella luce dello Spirito che ama in noi con la forza stessa di Dio per dare alla nostra povera e piccola capacità di amare dimensioni universali. Ma perché questo si faccia manifesto agli occhi del mondo bisogna che tutta la chiesa ritrovi quella forza di purificazione e di distacco a cui ci ha invitato l’Evangelo, per poter essere davvero «madre dei popoli» e poter così diventare realmente per loro «segno» dell’amore misericordioso di Dio. Allora la chiesa, nuova stirpe di Davide, si innalzerà veramente come vessillo tra i popoli e le genti tutte si volgeranno a lei con fiducia e speranza realizzando così la profezia messianica che nella Chiesa ha il suo compimento ultimo e pieno.
Ricordiamo ancora la I lettura dove il messia è presentato nel testo di Isaia come il virgulto nuovo che fiorisce dalla radice di lesse; la sua piccolezza, il suo spuntare silenzioso contrastano con la fragorosa caduta dei grandi, elevati alberi del Libano, descritta nei versetti immediatamente precedenti. Questo piccolo virgulto su cui si posa lo Spirito del Signore sarà colui che, rivestito di giustizia, giudicherà nella verità i poveri e i miseri, colui che consumerà l’empio col soffio della sua bocca, colui finalmente che ristabilirà in tutto il creato la pace perduta e l’armonia fra l’uomo e tutte le creature. Al suo nascere la terra si riempirà della conoscenza del Signore; la stirpe di Davide, innalzata come vessillo fra i popoli, attirerà a sé tutte le genti e la sua dimora, per la presenza del messia, «sarà raggiante di gloria».
A questa profezia fa eco la preghiera del salmo responsoriale (Sal 71) che invoca per il re messianico il giudizio e la giustizia stessa di Dio perchè possa governare nella verità il suo popolo, e i poveri e gli oppressi possano trovare in lui un difensore e un liberatore. La giustizia e la pace fioriranno ai suoi giorni e il suo regno si estenderà da un confine all’altro del mondo. Il suo nome rimarrà in eterno; egli sarà benedizione per tutte le genti e tutti i popoli acclameranno a lui. Così Israele per secoli ha atteso e invocato il messia e ci ha trasmesso in questo salmo la sua speranza, la sua invocazione, la sua fede piena di amore.
Solo quando lo Spirito di Dio ci avrà investito con la sua potenza potremo accogliere con cuore aperto il tratto dell’epistola ai romani (15,4-9) in cui Paolo invoca il «Dio della consolazione» perché ci conceda di avere gli stessi sentimenti «secondo Cristo Gesù», per poter glorificare unanimi il Padre celeste, e ci esorta ad accoglierci a vicenda, tutti, «per la gloria di Dio», senza esclusione, come Cristo ha accolto noi.
Insieme, tutti possiamo pregare «Vieni, Signore, re di giustizia e di pace» (cf Rit. al salmo responsoriale). La salvezza di Dio, offerta dall’avvento di Gesù, non distoglie l’uomo dal suo impegno terreno, ma lo stimola nel lavoro relativo alla vita presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già costituisce una prefigurazione del mondo futuro.
I cristiani, «mentre svolgono le attività terrestri, devono conservare il retto ordine, rimanendo fedeli a Cristo e al suo Evangelo, cosicché tutta la loro vita, individuale e sociale, sia compenetrata dallo spirito delle beatitudini, specialmente dallo spirito di povertà» (GS. 72).
A questo scopo i figli di Dio hanno particolarmente bisogno di sapienza. La chiesa oggi prega per ottenerla quale dono del Padre, affinché il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli nel cammino verso Cristo, e i beni della terra siano valutati con sapienza nella continua ricerca dei beni del cielo (colletta e orazioni dopo la comunione[3]).
Questa sapienza è frutto dello Spirito di Cristo.
La liturgia eucaristica oggi deve ravvivare in noi, con la sua grazia, la coscienza di precisi impegni di vita. Ricordiamo le parole del concilio Vaticano II rivolte ai fedeli laici:
«Essi vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli gli impieghi e gli affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale… Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio della loro funzione propria e sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo, a rendere visibile Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della loro vita e col fulgore della fede, della speranza e della carità» (LG. 31).
II Colletta:
Dio dei viventi,
suscita in noi il desiderio di una conversione,
perché rinnovati dal tuo Santo Spirito
sappiamo attuare in ogni rapporto umano
la giustizia, la mitezza e la pace,
che l’incarnazione del tuo Verbo
ha fatto germogliare sulla terra.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
[1]Dopo la Comunione
O Dio, che in questo sacramento ci hai nutriti con il pane della vita, insegnaci a valutare con i sapienza i beni della terra, nella continua ricerca dei beni del cielo. Per Cristo nostro Signore.
[2] Secondo la consuetudine di celebrare, all’indomani di una grande festa, il personaggio principale in questa considerato per il ruolo connesso ai motivo della festa stessa, la Chiesa bizantina festeggia S. Giovanni Battista al 7 gennaio, all’indomani dell’Epifania. Tale tipo di festa è detta «sinassi», o assemblea festiva, e può essere considerata «memoria« Altri esempi sono: il 26 marzo, la sinassi dell’Arcangelo Gabriele (dopo l’Annunciazione) ; 26 dicembre, la sinassi della Madre di Dio.
[3] Colletta: Dio grande e misericordioso, fa’ che il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli nel cammino verso il tuo Figlio, ma la sapienza che viene dal cielo ci guidi alla comunione con Cristo, nostro Salvatore. Egli è Dio…
Dopo la Comunione : O Dio, che in questo sacramento ci hai nutriti con il pane della vita, insegnaci a valutare con i sapienza i beni della terra, nella continua ricerca dei beni del cielo. Per Cristo nostro Signore.
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano