«DOMENICA DI ZACCHEO»
Nell’Evangelo Gesù che comunica l’amore gratuito di Dio al peccatore Zaccheo attua le parole profetiche del libro della Sapienza che descrive l’amore di Dio per le sue creature: «Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento. Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato». Zaccheo si converte, l’incontro con Cristo apre il cuore e le mani del capo degli esattori.
Il gesto esteriore del dare, come ogni gesto umano, è di per sé ambiguo. Il dono di un uomo chiuso in se stesso, tutto proteso alla affermazione di sé è egoismo camuffato. La beneficenza molte volte può essere la copertura dello sfruttamento, anzi il mezzo per continuarlo. Il gesto di Zaccheo invece, che restituisce il quadruplo a coloro che aveva defraudato e dà la metà dei suoi beni «ai poveri», nasce da una «conversione» interiore, da un cambiamento di rotta, avvenuto nell’incontro con Gesù.
Incontrando l’Amore, scoprendo d’essere amato, uno diventa capace di incontrare gli altri. Li guarda con occhi diversi, non più come soggetti di cui godere, ma come persone da amare. E questo perché finalmente riesce a guardare se stesso e la sua vita con gli occhi di coloro a cui egli aveva fatto ingiustizia. Allora anche il denaro cambia direzione: al gesto dell’arraffare si sostituisce il gesto del dare liberamente e gratuitamente. E così il denaro da oggetto di preda diventa segno di comunione. Cristo evangelizza tutti, divenuto ospite di Zaccheo, illumina questo cambiamento e lo interpreta nel senso di grazia e di liberazione: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa». Cristo è veramente l’evangelizzatore di tutti: poveri e ricchi. La sua preferenza va ai poveri, agli ultimi: «Mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio» (Lc 4,18).
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«La salvezza operata da Cristo è totale e integrale. Si estende cioè a tutto l’uomo e a tutti gli uomini; include la liberazione dal peccato e dalla morte e il progressivo possesso di tutto ciò che è bene e autenticamente umano. La libertà portata da Cristo è libertà non solo “da” servitù interiori e condizionamenti esterni, ma è soprattutto libertà “per” essere di più, per amare, per edificare la pace, nella comunione con Dio e con gli uomini fratelli» (CdA, pag. 104).
L’evangelizzazione dei ricchi sfruttatori comporta la denuncia coraggiosa della loro situazione e l’appello ad una conversione effettiva. Anche i ricchi possono diventare cittadini del regno, a condizione che facciano come Zaccheo.
Oggi però si pone un problema grave particolarmente acuto in certe zone: che fare quando il ricco non fa come Zaccheo, non si converte, quando la mancanza di amore di alcuni scende su molti come fame, sottosviluppo, oppressione?
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E possibile amare insieme la vittima e il carnefice? L’amore dei poveri non impone la eliminazione violenta degli sfruttatori? «Ma quelli che eliminano violentemente per amore dei poveri, sono poi sicuri di non agire per una aggressività distruttiva? Una volta eliminati con la violenza i peccatori, sorgerà “automaticamente” quella generazione di santi che sanno amare?
L’esperienza storica e la ragione dicono di no. L’uomo nuovo, l’uomo capace di amare sarà ancora il risultato di una “conversione interiore”».
Questo processo sarà tanto più vero e radicale quanto più sorgerà in chi ha peccato il disgusto per quello che ha fatto, insieme alla visione delle gravi conseguenze del suo agire male.
L’Evangelo non ci dà norme sul «come fare giustizia». Ciò non vuol dire che il cristiano debba adagiarsi coll’accettare le situazioni e la società così com’è. Ammoniva Paolo VI: «La situazione presente deve essere affrontata coraggiosamente, devono essere combattute e vinte le ingiustizie che essa comporta. Lo sviluppo esige delle trasformazioni audaci, profondamente innovatrici. Riforme urgenti devono essere intraprese senza alcun ritardo. Ciascuno prenda generosamente la sua parte».
E in fondo il comandamento dell’amore ad esigere una attiva e radicale trasformazione del mondo. Ma altro è affermare una esigenza rivoluzionaria, altro è imboccare la strada che si esprime nel ricorso alla violenza. La differenza tra le due vie è proprio nella scelta operata dall’amore e per amore come vedremo fra poco.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 37,22-23
Non abbandonarmi, Signore mio Dio,
da me non star lontano;
vieni presto in mio aiuto,
Signore, mia salvezza.
Nelle tre suppliche dell’antifona d’ingresso si addensa la tensione del fedele orante per la “Presenza” del Signore. La prima, in senso negativo, chiede che il Signore non lo abbandoni mai, neppure per un istante, e la seconda che mai si allontani da lui, neppure per poco (v. 22). Al contrario, la terza epiclesi chiede al Signore che si affretti a venire in aiuto del suo fedele; che questi senta la sua Presenza, l’unica Forza che lo porta alla salvezza (v. 23).
La scelta dei versetti qui è qui certamente indicativa della situazione verso cui stiamo camminando, la parte ormai terminale dell’Anno liturgico: l’attesa della Venuta finale, che sarà il tema dell’ultima Domenica. L’orante che ora è il fedele che celebra il suo Signore, deve fare sua questa supplica.
Il canto all’Evangelo ci fa pregare che per l’eccesso del suo amore infinito verso «il mondo», ossia verso gli uomini peccatori, il Padre ha inviato la Realtà più cara della sua Vita divina nello Spirito Santo, il Figlio Unico, che «non risparmiò» per noi, dice Paolo (Rom 8,32). E così chi crede in Lui, e non commette peccati, non perirà, ma avrà la Vita eterna, «e con abbondanza» la avrà (Gv 10,10).
Canto all’Evangelo Gv 3,16
Alleluia, alleluia.
Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito;
chiunque crede in lui ha la vita eterna.
Alleluia.
La splendida introduzione liturgica trova poi racchiuso nel racconto di Zaccheo tutto l’insegnamento di amore a cui si è tentato di accennare.
L’amore non ha paura di compromettersi, di far pensare male, di scandalizzare, Gesù è venuto per coloro che si sentono peccatori, vuole incontrare la povera gente a costo di scandalizzare e sconvolgere la gente benpensante. Per questo motivo accetta di parlare con la samaritana, con la donna adultera, si lascia avvicinare dalla Maddalena, si lascia tradire da Giuda, entra nelle case dei pubblici peccatori, che si sentono a loro agio con lui.
Come è cambiata la nostra mentalità!
Ci siamo costruiti una chiesa in cui è proibito rischiare, in cui è vietato scandalizzare i benpensanti, in cui però si può scandalizzare i poveri, i peccatori. Nella chiesa tante volte si sentono al proprio posto gli uomini che si credono giusti (cfr Evangelo XXX Dom. annum C), mentre si sentono rifiutati gli uomini peccatori finché non saranno divenuti anch’essi dei «giusti».
Riprendiamo una citazione: «Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento. Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata» (Sap 11,23-24). Il libro della Sapienza contiene ai cc. 11-19 una lunga riflessione sull’Esodo; di questa meditazione sapienziale oggi la lettura liturgica ci propone lo splendido paragrafo sull’amore invincibile di Dio per le sue creature anche se peccatrici.
Il sapiente d’Israele fa riflettere tutti sulla reale condizione dell’uomo davanti al Signore eterno ed infinito: rivolto a Dio, ma parlando agli uomini, al Signore ricorda che tutto il cosmo davanti a Lui è come polvere sulla bilancia (immagine che viene da Is 40,15), come l’umida molecola della rugiada sul prato pronta ad evaporare (11,22; Os 6,4; 13,3). Il brano della Sapienza è dunque la spiegazione del comportamento di Gesù verso Zaccheo, verso i peccatori, verso cioè tutti gli uomini, verso ognuno di noi.
Dio ha fiducia nell’uomo, anche in ognuno di noi, nonostante noi stessi, nonostante la nostra miseria, nonostante i nostri peccati. Dio ama tutte le cose che sono, non rifiuta nulla di ciò che ha creato, se non le amasse infatti non potrebbero rimanere in vita. Anche il castigo viene dato da Dio attraverso la sua pazienza e il suo Amore: Dio non stronca, Dio non impone, Dio sa aspettare.
Questo è l’amore capace di convertire, questo è l’amore che conquista il mondo. Poiché l’amore è stato il movente della creazione e di ogni azione di Dio, si riflette nel mondo intero la bontà di Dio; «tutto è buono» esclamò Iddio osservando la sua opera creatrice (Gen. 1,31).
Agli uomini che aprono la loro intelligenza ed entrano nella contemplazione risalta ancora di più la Bontà di Dio: l’Onnipotente ha misericordia perenne di tutte le sue creature [cf. Sal 144,9 (salmo responsoriale); Sir 2,23; 18,4.12) e nasconde e annulla sotto il velo della misericordia i peccati degli uomini, al fine che essi possano convertirsi.
In ogni creatura passa il soffio vivificante di Dio, ogni essere è oggetto dell’amore efficace di Dio che scommette sempre sulla vita e sulla possibilità di bene dell’uomo anche quando l’uomo stesso non ha più fiducia in se stesso.
«Non fosse per la vigilante pietà di Dio, mi sembra che al primo prendere coscienza di se stesso l’uomo ricadrebbe in polvere» scriveva Georges Bernanos nel famoso “Diario di un curato di campagna”.
Dio è il Dio della vita, un Dio che sempre crea e ama, un Dio eternamente fiducioso nei confronti delle sue creature, un Dio che ha la passione del perdono.
Il Salmo responsoriale: Sal 144,l-2a8-9.10-lL13cd-14, Inno
Con il Versetto responsorio, v. 1 adattato: Benedirò il tuo nome per sempre, Signore, l’Orante vuole benedire in eterno il Nome divino. «Benedire è farsi tornare la benedizione per unirsi al Benedetto». L’insistenza litanica del ritornello deve farsi azione continua nella vita di fede. Questo Salmo con l’identico taglio è stato cantato nella divina liturgia della Domenica V di Pasqua C. Questo mirabile Inno di lode, incontrato ormai diverse volte sotto varie “scelte” e “tagli” (sforbiciate spesso inabili), celebra il Signore come Persona, quale Sovrano magnifico e benefico, poi come risplendente di gloria nei suoi titoli, e infine come giusto, santo e onnipotente nelle sue opere.
Il Salmo, quasi come un programma, inaugura la serie dei Sal 144-150, detta anche «Hallel mattutino», poiché questo complesso già dalla Sinagoga era usato nella preghiera che apre la giornata, tradizione poi proseguita nelle Chiese cristiane. Esso celebra il Signore nello splendore inaudito della sua Regalità benefica per gli uomini. Perciò l’Orante esordisce con il coortativo innico rivolto a se stesso, e proclama la volontà di esaltare il Dio dell’alleanza, il Re (Sal 98,5.9), e di benedire il Nome suo in eterno (v. 1; al v. 21, in finale, rivolge uno iussivo innico a «tutta la carne», ogni vivente, affinché benedica il Nome). E in parallelismo sinonimico rinnova la sua intenzione: Lo benedirà ogni giorno, loderà il Nome in eterno (v. 2; Sal 145,2).
L’inno di lode celebra dunque il Signore come Persona, nei suoi titoli divini e nelle sue opere grandiose. Tra questi titoli, risaltanti sono quelli che aprono il canto. Alla lettera: «Gratificante e Tenero il Signore, Magnanimo e Grande in misericordia» (v. 8). L’origine di tali titoli non possono essere che la gesta divina onnipotente e originaria, l’esodo. In forza dell’esodo il Signore si crea il suo popolo, al quale si rivela in tutta la sua magnificenza e onnipotenza. Ma si rivela in particolare nella terribile teofania del Sinai, a Mosè, in una visione dove Egli stesso nasconde il suo eletto per ripararlo dall’immane e irresistibile irraggiare la sua Gloria (poiché chi vede Lui, muore, Es 33 20), poi gli grida i suoi titoli, tra i quali stanno questi quattro (Es 34,6). I medesimi tornano altre volte nel canto dei Salmi (Sal 85,5.15; 102,8). Gratificante significa che il Signore fa sempre grazia; Tenero significa che ha i sentimenti della madre per il figlio (così l’aggettivo verbale ebraico ra-hùm, tradotto in greco con eleèmón); Magnanimo significa che trattiene l’ira e dà spazio alla pazienza; Grande in misericordia significa che è sempre fedele alla morale dell’alleanza, consistente nell’éleos, ebraico hesed, l’amore soccorrevole e pietoso.
La lode prosegue magnificando il Sovrano universale come «il Soave» verso tutti (Sal 99,5, Domenica IV di Pasqua), esaltandone la Bontà infinita e incondizionata. Della Bontà precisamente l’aspetto preminente, l’efficacia più sublime, quella che risalta su ogni altra opera divina, è la misericordia, stessa radice del titolo Tenero (v. 9).
L’Orante prosegue con uno iussivo innico (forma imperativale della 3a persona), con il quale invita tutte le opere del Signore stesso affinché confessino Lui (v. 10a). Nell’esasperato razionalismo in cui oggi si è avvezzati, appare abnorme che delle “opere” create e inanimate possano cantare al Signore. Il tratto invece è frequente nella Scrittura (Dan 3,57: «Benedite, opere tutte del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli» è il canto dei tre giovani nella fornace; Sal 18,2; 102,22, etc), e si spiega con il fatto duplice, che le opere divine, in specie la creazione e la sua meraviglia dispiegata dell’universo, sono un annuncio primordiale della Potenza divina; in secondo luogo, la creatura deve poter partecipare alla lode divina mediante l’uomo, che se ne fa interprete e per così dire gli presta la voce, coro magnifico quando è eseguito. Alle opere laudanti il Salmista chiama ad aggiungersi volenterosamente i santi del Signore, questi prestatori di voce alla creazione, e interpreti anche di se stessi (v. 10b). Il Signore in effetti è circondato in gloria dai suoi santi, creature angeliche e creature umane (Sal 67,36; 139,9.16; 46,3); e tra essi Egli troneggia, domina e tutto regge e governa nella maestà come «il Temibile», da temere e da adorare (Sal 88,8-9). Si tratteggia perciò qui la corte celeste (Sal 102,20.21), già adombrata nel cantico della vittoria al Mar Rosso (Es 15,11).
Questi protagonisti della lode hanno un solo contenuto da svolgere, la Gloria regale e la Potenza divina (v. 11), e lo possono esporre nel solo modo concesso a creature, “parlando”, esponendo, proclamando, spiegando. In tal modo compiranno opera missionaria. Gli uomini saranno informati in ogni angolo dell’universo delle azioni gloriose del Signore, e della Gloria maestosa del suo Regno, che significa la condizione di perfetta salvezza degli uomini (v. 12).
E lo scopo della creazione (Sal 104,1.2.4), e dello stesso Israele (Dt 3,24).
La nota finale di questo «Regno» è l’eternità (v. 13a; Sal 9,8), poiché è la condizione essenziale del Signore, l’Eterno per definizione (anche Sal 101,13, e 9,37). In conseguenza, anche l’esercizio di questa divina sovranità si estende lungo le generazioni degli uomini (v. 13ab). Su questa immutabile stabilità divina, precisamente, si fonda la speranza di tutti gli uomini.
Così introdotti si comprenderà il valore, nella narrazione lucana, della conversione di Zaccheo, l’odiato esattore delle imposte romane. Insieme alla parabola del samaritano e del Padre misericordioso, questo racconto si può considerare «un Evangelo nell’Evangelo», nel senso che ne esplicita gli elementi fondamentali. L’incontro tra Gesù e Zaccheo realizza la salvezza, impossibile a tutti, ma non a Dio (18,27), preso il quale nulla è impossibile (1,37).
Gesù (battezzato dallo Spirito Santo per la missione a cui è inviato dal Padre – cioè l’annuncio dell’Evangelo e le opere del Regno) prosegue per il suo esodo a Gerusalemme, dove si esalterà la lode del Padre attraverso la Croce e la Resurrezione. Il cammino è ormai al termine, Gesù con i discepoli si trova a Gerico ed a un ultimo episodio prima dell’ingresso regale nella Città del Grande Re. È questo un episodio chiave, soluzione di quanto precede e preludio di quanto seguirà. Nell’incontro con Zaccheo, riportato solo da Luca, abbiamo un compendio entro cui si uniscono i vari fili «dell’Evangelo di misericordia».
Nel racconto ogni parola è allusiva del tutto e lascia risuonare ciascuno dei temi cari all’evangelista della salvezza universale, da quelli della mangiatoia di Bethlem a quelli del legno del Calvario.
Le espressioni più cariche di risonanza sono per ordine: passare, pubblicano, ricco, affrettarsi, oggi, bisogna, dimorare, accogliere, gioire, mormorare, riposare, peccatore, dare ai poveri, salvezza, cercare, ciò che è perduto. Il centro dell’episodio è il «desiderio di vedere» di Zaccheo e lo sguardo di Gesù verso di lui; da questo incontro di sguardi, scaturisce «oggi» la salvezza. Zaccheo, l’insalvabile per eccellenza, mostra di avere l’unica prerogativa richiesta per la salvezza: vede la propria miseria e «cerca di vedere» la misericordia del Signore che passa. La storia di Zaccheo è quella di una ricerca che approda ad un incontro e ad una meta. Rileggendo l’episodio potremo notare come tutto il racconto sia costruito su verbi di movimento che non delineano solo un ambito spaziale, quello di Gerico e delle sue strade, ma si configurano come la trama di un pellegrinaggio verso la salvezza:
- Gesù «entra ed attraversa la città» in cui Zaccheo conduce la sua grigia esistenza di burocrate;
- Zaccheo «cerca di vedere» Gesù sforzandosi di incunearsi tra la folla;
- poi «corre avanti» e, per poterlo vedere, «sale» sul sicomoro nell’attesa che il Cristo «passi di là»;
- quando finalmente «giunge», Gesù «alza lo sguardo» e inaugura per quell’uomo il vero viaggio spirituale che ha come meta la salvezza;
- «scendi subito perché devo fermarmi a casa tua»;
- Zaccheo, allora, «scende in fretta» e «accoglie» Gesù «a casa sua».
Con la sua quindicina di vocaboli di movimento il racconto diventa la narrazione di una conversione che nel linguaggio biblico è espressa sempre con immagini di ritorno, di incontro tra Dio e uomo. Per Zaccheo è cambiamento radicale, infatti, non c’è nessuno che, una volta incontrato il Signore, non abbia la vita travolta, coinvolta e sconvolta: «Io dò la meta dei miei beni ai poveri, se ho frodato restituisco il quadruplo».
Queste parole non sono una semplice confessione delle labbra ma la ritrattazione autentica di un’intera vita, l’alba di una nuova esistenza. La conversione oltre che ri-orientamento verso Dio è contemporaneamente un atto sociale e comunitario. Fare l’esperienza del perdono vuol dire incamminarsi su una strada di gioia e di donazione che non ha nulla a che vedere con le morbide pieghe del sentimento o con un generico impegno rituale e spirituale.
La Chiesa voluta da Cristo è quella in cui tutti vengano accolti e il suo desiderio è di avere discepoli che escano per andare «a cercare e a salvare ciò che era perduto». Se il peccato è una realtà paralizzante, il perdono è invece vivificante: «Ecco io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).
Esaminiamo il brano
1 «Entrato in Gerico»: Dopo aver guarito il cieco Gesù entra nella città di Gerico con i discepoli e la folla che lo segue. Dall’archeologia risulta che la città sia fra gli agglomerati umani più antichi. Città florida e potente fu distrutta e ricostruita pervicacemente più volte nonostante la maledizione di Giosuè «Maledetto davanti al Signore l’uomo che si alzerà e ricostruirà questa citta di Gerico» (Gs 6,26). La città era situata in un’oasi amena per ambiente e vegetazione; i regnanti vi soggiornavano spesso per il suo clima mite.
Al tempo di Gesù era una una stazione di transito importante, un centro di smistamento commerciale e quindi luogo redditizio per esigere tributi e pedaggi imposti dalle autorità e riscossi dai pubblicani. Tutti i pellegrini diretti a Gerusalemme attraversavano la stupenda oasi larga circa 5 Km e incastonata nella fossa del Giordano a 300 metri sotto il livello del mare; il territorio circostante arido e quasi lunare giustifica forse in parte il nome che in ebraico significa «santuario della luna».
2 «Ed ecco un uomo di nome Zaccheo»: la scena è simile all’ingresso della peccatrice nella casa del fariseo Simone (cf. Lc 7,37). Zakchaios è forse la forma grecizzante del nome ebraico Zakkai. Questo nome significa “puro”, “innocente” (vedi Fitzmyer, Luke, 1223). Ironia di Luca? Siccome il piel[1] del verbo significa “rendere innocente” o “dichiarare innocente”, “non colpevole”, si può proporre piuttosto di comprenderlo in questo senso: infatti, dopo la confessione di Zaccheo, Gesù lo dichiarerà salvato (“oggi la salvezza è entrata in questa casa”).
Il nome ebraico Zakkai significa il «puro» di certo però riferito al Signore, come dire «Dio è santo»; se però è l’abbreviazione di Zaccaria significa «Dio ricorda». Gesù è il “Dio che salva”; egli si ricorda di tutto ciò che è perduto e tratta come puro ogni immondo, perché ha il potere di purificare con il suo amore (cf. 5,13a).
«capo dei pubblicani»: agli occhi di tutti è un peccatore, tema questo ricorrente in Luca (cf. 3,12; 5,27.29.30; 7,29.34; 15,1; 18,10.11.13).
«ricco»: se come pubblicano era escluso dalla salvezza secondo la Legge, in quanto ricco lo è secondo l’Evangelo (cf. 18,24ss; 12,13-21; 14,15-24.25-33 ecc.). Zaccheo rappresenta per Luca un peccatore della peggior specie, il caso impossibile per eccellenza.
3 «cercava di vedere»: (in gr. horáō) l’evangelista vuole guidarci alla visione di Gesù «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete» (10,23-24). Anche Erode cercava di vederlo (9,9) ma con la curiosità di chi vuol “giocare” con una cosa (cf. 23,8ss). il desiderio di Zaccheo è assolutamente povero e senza alcuna pretesa ma lo scopriremo autentico.
«Gesù chi era»: Ecco la domanda che preoccupa Zaccheo. Ha sentito parlare di Gesù, gli sta a cuore assolutamente vederlo. Non solo lo vedrà, ma gli parlerà, lo accoglierà in casa sua, offrendogli vitto e alloggio. Come Abramo suo padre, riconosce nel suo ospite la visita di Dio. Lo chiama “Signore” e lo tratta come tale. Lo sentirà dichiararsi contemporaneamente Figlio dell’uomo e Salvatore. L’attesa di Zaccheo è colmata ben oltre ciò che si poteva attendere.
4 «salì su un sicomoro»: non poteva salire su un terrazzo; nessuno avrebbe accolto in casa un peccatore immondo. Non rimane altra scelta che un albero. Il racconto sembra percorso da un filo d’ironia bonaria: impressiona vedere questo funzionario mentre si aggrappa ad un tronco, incurante del ridicolo e mosso da un’ansia autentica. Anche Gesù sale a Gerusalemme per essere elevato sulla Croce, l’albero del Regno, che accoglie tutti.
5 «Gesù alzò lo sguardo»: (gr. anablépō) Gesù guarda Zaccheo non dall’alto, ma dal basso. Così, simbolicamente, il peccatore è posto in alto, mentre il Santo di Dio, si è abbassato sotto la sua condizione umana, da dove agisce (cf. Fil 2,6-8:
«egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio7ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce»).
L’amore è umile; così, colui che si è fatto il più piccolo di tutti, alza gli occhi verso Zaccheo che pur essendo piccolo sta più in alto di lui, come anche tutti i discepoli (cf. 6,20). Gesù si è abbassato più di tutti per poter servire tutti (9,48; 22,27). L’amore fa considerare l’altro superiore a se stesso (Fil 2,3).
«Gesù…gli disse: Zaccheo»: Dopo il fariseo Simone e Marta (7,40; 10,41) è la terza persona che Gesù chiama per nome; seguiranno Simon Pietro e Giuda (22,31.34.48). È segno di amicizia. Gesù chiama per nome solo chi sta convincendo della sua miseria, ed è chiamato per nome solo da chi è convinto della sua misericordia (17,13; 18,38; 23,42).
Notiamo e riconosciamo la famosa triade vocazionale: Gesù passa – vede – chiama. Ancora una volta si tratta di una vocazione (cf altre chiamate 5,1-11 Simon Pietro; 5,27-28 Levi ecc.).
«scendi subito»: è l’urgenza salvifica finché dura quest’oggi (Eb 3,13-15; 2 Cor 6,2); ricorda Maria che corre a portare il Salvatore ai monti di Giuda che l’attendono (1,39).
«oggi»: (semeron) è ripetuto due volte (vv. 5.9) perché l’oggi della salvezza è qui ed ora per chi l’accoglie come Zaccheo.
«devo fermarmi»: (il gr. dei, lett. bisogna) questa espressione legata alla morte di Gesù come compimento delle Scritture (cf. annunci di passione), è qui applicata al suo dimorare con Zaccheo. Notiamo il gr. ménō, il rimanere del Signore che è il dimorare poi del discepolo nel suo Signore (cfr Gv 1,38;6,56; 15,4-7 ecc.)
6 «lo accolse»: è il gesto fondamentale dell’amore: Dio che accoglie non desidera altro che essere accolto! La parola hypo-déchomai si trova solo qui e in 10,38 l’episodio dell’accoglienza di Marta e Maria dove Gesù è accolto come Signore e Maestro. Nell’ascolto della sua Parola (la parte migliore) e nelle opere che dall’ascolto della Parola scaturiscono. Altrove si trova nella forma semplice déchomai, con lo stesso significato (2,28; 8,13; 9,5.48.53; 10,8.10; 16,4.6.7.9 ecc.).
«pieno di gioia»: (kàiron) è la gioia della salvezza, riverbero in terra di quella che esplode in cielo dal cuore di colui che vuole che tutti gli uomini siano salvati. È un tema caro a Luca (1,14.28; 6,23; 10,20; 13,17; 15,5.9; 19,37; 24,52). È possibile vedere qui un riferimento al racconto di Gen 18 in cui Abramo dà ospitalità ai tre uomini che gli appaiono alle querce di Mamre. Vi si ritrova la stessa sollecitudine: come Zaccheo (Lc 19,4), Abramo “corre” (Gen 18,2.7), come Zaccheo (5b.6), egli “si affretta” (6) così come la moglie (6) e il servo (7). Da notare nei due racconti la presenza di un albero (la quercia e il sicomoro, entrambi alberi sacri). Da notare soprattutto che i tre uomini del racconto della Genesi sono identificati fin dall’inizio con il Signore (Gn 18,1).
7 «tutti mormoravano»:è la caratteristica dei farisei che ora è estesa a «tutti», escluso solo il peccatore che ha incontrato il suo salvatore.
«è andato ad alloggiare»: sembra che Gesù desideri «addirittura restare» con Zaccheo, forse pernottare da lui come in una locanda (verbo katalyò = riposare) se non abitarvi per qualche tempo.
Il verbo katalyò richiama il luogo della duplice nascita di Gesù (katàlyma):
- quella nella carne, quando si presenta agli uomini nella mangiatoia (2,7),
- quella nello Spirito, quando si dona ai discepoli nell’eucarestia (22,11: «Direte al padrone di casa: Il Maestro ti dice: Dov’è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?»).
- 8 «do la metà…»: La conversione di un uomo di denaro. Ecco infatti Zaccheo che solennemente, in piedi, fa a Gesù la sua dichiarazione di conversione: non una bella dichiarazione di principio, ma piuttosto una dichiarazione dei redditi.
Zaccheo rimane un uomo di denaro nel cuore stesso della sua conversione: non paga con parole, ma con cifre! Le sue parole sono delle percentuali. Il cambiamento, la conversione non è cosa di sentimenti, ma di danaro: il cuore cambia, il denaro cambia di mano. Egli pronuncia con lo stesso movimento un duplice giudizio, che ha rubato e che restituirà, giudizio al tempo stesso sul passato e sul futuro riuniti nell’ora, l’oggi della conversione, della salvezza.
Zaccheo si sente assolto e tornato tra i sudditi a pieno titolo e per questo osa esprimere i suoi propositi nuovi al suo Signore. Zaccheo è tornato ad essere un ebreo fedele ai precetti severi della Legge: chi ruba ha il sacro dovere, davanti al Signore, di restituire il maltolto, con gli interessi proporzionati (Es 22,1; Nun 5,5-7; 2 Sam 12,6; Lv 5,20-24). Zaccheo va oltre le richieste della Legge.
9 «Oggi la salvezza…»: È la salvezza in persona che è entrata da Zaccheo, Gesù il Salvatore. La salvezza per Zaccheo certamente, ma di conseguenza per i poveri e per quelli che erano stati spogliati. Zaccheo cercava di vedere Gesù, tutta l’azione di Gesù consiste nell’aprirgli gli occhi sugli altri; rinviato a se stesso, egli è in realtà rinviato ai suoi fratelli, quelli che, come lui, hanno bisogno di essere salvati.
Queste parole richiamano l’annuncio della nascita (2,11) e il senso di quanto Gesù dirà al ladrone in Croce (23,43). Queste parole sono cantate nella liturgia bizantina alla fine della grande dossologia ogni Domenica, ossia del «Gloria a Dio nei cieli altissimi»: “Oggi è venuta al mondo la salvezza. Inneggiamo a colui che è risorto dalla tomba ed all’autore della nostra vita; distruggendo infatti con la morte la morte, ha dato a noi la sua vittoria e la sua grande misericordia”.
«anch’egli è figlio di Abramo»: Abramo è il nostro padre nella fede. Dio può suscitare figli di Abramo dalle pietre (3,8); perfino il cuore più duro può accogliere il Signore: è sufficiente che sia illuminato per vedere la propria miseria e umile per invocare il Nome della misericordia.
10 «il Figlio dell’uomo»: è il figlio di Davide e il Kyrios, il Cristo e il Signore. Chi alza gli occhi su di lui è salvò! L’identità profonda di Gesù, ancora nascosta anche ai discepoli (18,34) è rivelata a un arcipeccatore.
«salvare ciò che è perduto»: un richiamo alle parabole della misericordia (c. 15); il tema centrale di Luca che invita tutti ad essere misericordiosi come il Padre (6,36). Ora Gesù può entrare in Gerusalemme e compiere ciò per cui è venuto. Zaccheo è l’anticipo. La salvezza, per tutti impossibile, è già donata ad uno al quale era “più impossibile” che a tutti.
L’amore di Gesù, il suo silenzio, la sua condiscendenza, il suo autoinvito ha sconvolto Zaccheo, che forse non si era mai sentito amare da nessuno. È l’amore che salva, ma l’amore si manifesta dove se ne sente il bisogno, la salvezza si realizza dove c’è disperazione, la liberazione di Dio si attua dove qualcuno si accorge di essere oppresso.
Questo racconto deve incidere nella nostra vita, deve metterla in discussione, deve cioè convertirci. Abbiamo forse creato un cristianesimo di élite, di gruppi privilegiati, di persone «perbene», mentre non ci preoccupiamo di coloro che attendono la salvezza consapevoli della loro miseria e della loro povertà. Abbiamo creato luoghi e situazioni privilegiate in cui vorremmo si manifestasse l’amore di Dio, mentre Gesù ha insegnato che l’amore si manifesta nelle case dell’uomo, è necessario cercarlo sulla strada, lungo il comune cammino di ogni nostro fratello.
Oggi, per accostarsi all’angoscia e allo smarrimento del mondo, ci vogliono dei cristiani difficili; dei cristiani che non si lasciano prendere dall’impazienza, che non distribuiscono benedizioni affrettate, ferendo sia la dignità del cristianesimo che la dignità dei non cristiani, che vedono in questo modo di fare un’annessione ingenua o violenta. In vista di una consacrazione futura di tutto l’apporto positivo del mondo moderno, bisogna che i cristiani si familiarizzino con tutto ciò che non è nato da loro, in un lungo processo di accostamento e di scoperta, con un atteggiamento attento, aperto, umile e mai socialmente chiuso, … devono muoversi come un esercito che va a combattere in campo aperto, senza mai perdere il contatto col terreno d’azione, e dialogare con coloro che vogliono raggiungere. Come colui che sedeva alla tavola dei pubblicani e viveva in mezzo ai pescatori del lago di Tiberiade, con grande scandalo dei farisei.
(E. Mounier)
II Colletta
O Dio, che nel tuo Figlio sei venuto a cercare
e a salvare chi era perduto,
rendici degni della tua chiamata:
porta a compimento ogni nostra volontà di bene,
perché sappiamo accoglierti con gioia nella nostra casa
per condividere i beni della terra e del cielo.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
[1] Una delle sette coniugazioni del verbo ebraico.
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano