Domenica “delle tre parabole”
L’Evangelo di questa domenica ci presenta le ultime tre parabole del Regno raccolte da Matteo nel capitolo tredicesimo, detto appunto “discorso parabolico”. Il regno costituisce l’oggetto primario della predicazione neotestamentaria. Giovanni Battista e Gesù iniziano la loro predicazione con l’annuncio di gioia: «Il regno di Dio è vicino». La Buona Novella proclamata da Gesù è, in definitiva, la venuta del regno. Che cosa ci vuol dire Gesù? Come nelle precedenti parabole, Gesù non fa ricorso a idee astratte ma consegna delle immagini, affinché gli ascoltatori accolgano facilmente la parola, la conservino nel cuore e, ricordandola, la attualizzino nel loro quotidiano.
Queste immagini mirano ancora una volta a far comprendere la dinamica del regno dei cieli, il modo in cui Dio può regnare ed effettivamente regna in quanti sono capaci di ritornare a lui, di convertirsi e di aderire alla buona notizia portata da Gesù Cristo. Domenica scorsa paragonando il regno al seme, al granello, al lievito, Gesù ha detto che questo regno è già presente, ma è ancora lontano dalla sua attuazione definitiva. Il regno si edificherà gradualmente grazie alla fedeltà dei discepoli al comandamento nuovo dell’amore senza confini. Si tratta di un regno che non è di questo mondo, anche se la sua costruzione comincia quaggiù. È un regno universale aperto a tutti, perché è il regno del Padre, comune a tutti gli uomini.
I temi del regno di Dio e della Chiesa appaiono strettamente legati, ma non indicano la stessa realtà. Nella prospettiva del suo compimento finale, la Chiesa coincide veramente con il regno; ma nella sua realtà storica e sociologica sulla terra, la Chiesa è soltanto il terreno privilegiato — e sempre ambiguo a causa del peccato — in cui il regno lentamente si edifica; questo non si lascia imprigionare in nessuna realtà sociologica, neppure di carattere religioso, va sempre al di là di ogni realizzazione concreta in cui si manifesta. Il regno di Dio è già presente, come un seme, ma è necessario che cresca; instaurato da Gesù esso è certamente il compimento dell’antica speranza, ma è anche una realtà che deve edificarsi progressivamente su tutta la faccia della terra.
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È compito dei cristiani essere gli artefici di questa costruzione sotto l’impulso dello Spirito; essi, come Chiesa, sono prima di tutto a servizio del regno. Dopo i primi tempi la Chiesa ha capito che il regno non è oggetto di attesa passiva, ma che per diventare la realtà definitiva, di cui si possiede la caparra, esige l’impegno costante ed attivo di tutti. Nel regno di Dio tutto è già compiuto, ma tutto deve ancora compiersi e si compie ogni giorno con l’intervento congiunto, in Cristo Gesù, di Dio e degli uomini. Che meraviglia scoprire un tesoro, per un colpo di fortuna o dopo un’ostinata ricerca! Che cosa non si farebbe per trovare l’isola del tesoro, o più semplicemente per vincere il primo premio di una lotteria?
La fortuna di ogni vita, l’occasione insperata, è la scoperta, in Gesù, del regno dei cieli. Per possederlo bisogna fare come l’uomo della parabola: vendere tutto quello che si ha, per acquistare il bene a cui si aspira, anche se molti chiamano follia quella che in fondo non è che saggezza, capacità di apprezzare e di cercare ciò che veramente ha valore. Diceva il Card. Newman: «Chiedetevi se dovreste cambiare qualcosa nella vostra vita, nell’ipotesi che il regno scomparisse; se non trovate niente da cambiare, significa che non avete giocato la vostra vita sul Cristo e sul Regno». Il rischio di un’esistenza che punta tutto sul Cristo e sul Regno: è l’esigenza stessa della vita cristiana, la sua caratteristica peculiare rispetto a tutti gli altri modi di vivere.
In campo sociale, professionale, e anche familiare, bisogna mantenere sempre una certa misura, ma non nella vita cristiana. Non ammette divisioni la passione per il Cristo, la cui onda potente deve sommergere ogni cosa. Chi vuole seguire il Cristo deve «vendere tutto», senza mercanteggiare, senza scendere a compromessi. Questo non significa rinunciare alla propria libertà. Come parlare ancora di sacrificio, quando il distacco non è che l’altra faccia dell’unione con Gesù, in cui sono tutti i tesori della sapienza e della scienza? Gesù non può che suscitare la gioia, tutta la gioia del mondo: la gioia di scoprire un senso per la propria vita, la gioia di sentirla impegnata nell’avventura della santità. Davvero, tutta la gioia del mondo!
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Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 67,6-7.36
Dio sta nella sua santa dimora;
ai derelitti fa abitare una casa,
e dà forza e vigore al suo popolo
Nell’antifona d’ingresso, Sal 67,6b-7a.36bc, AGC, oggi la Chiesa, la Sposa, celebra il suo Signore che concede la forza (28,11) e la potenza di vivere la vita del Regno. Come per il salmista, il Signore regna e guida dal suo santuario, dove abita nella sua invisibile e imperscrutabile Presenza (v. 6b), e da dove raduna il suo popolo, altrimenti disperso, affinché dimori compatto nella sua Casa (v. 7a), oggi la Chiesa riceve e possiede il suo Tesoro, la Sapienza divina, poiché [la Sapienza] per gli uomini è il Tesoro inesauribile, e quanti la usano diventano amici di Dio (Sap 7,14).
Canto all’Evangelo Cf Mt 11,25
Alleluia, alleluia.
Ti rendo lode, Padre,
Signore del cielo e della terra,
perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno.
Alleluia.
L’alleluia all’Evangelo è ancora Mt 11,25, adattato e già usato all’Evangelo della Domenica XIV e XVI. Si ripete il motivo-chiave, per sottolineare il dono della rivelazione, ovvero della “comprensione” che distingue i discepoli dagli altri: «Benedetto sei tu, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli» (cfr. Mt 11,25).
Con questa pericope evangelica termina il «discorso di parabole», che ha occupato per intero il cap. 13; Matteo ha comunque altre parabole, variamente collocate. Le tre parabole che si presentano adesso appaiono esigue come estensione; tuttavia come sempre un testo breve e denso è per sua natura diffìcile e ricco. Le prime due parabole, che sono parallele e complementari costituiscono, con quella della rete che segue, il gruppo della seconda terna delle parabole del Regno; esse sono proprie di Matteo. Per il contesto si veda le Dom. XV e XVI. Mentre le altre parabole parlano del regno e dei suoi membri in quanto gruppo, quelle del tesoro e della perla sono indirizzate alle singole persone. In entrambe, l’uomo vende tutto quello che possiede; una significativa somiglianza si riscontra nel racconto del giovane ricco chiamato da Gesù al discepolato (19,21). Il Regno esige una completa rinuncia (cfr. 6,24; 8,18-22; 10,37-39).
Nelle prime due parabole l’accento è posto più che sulla rinuncia in sé sul valore supremo del Regno; la rinuncia ha il suo premio. Nella prima parabola viene inoltre sottolineata la gioia della scoperta fatta dal bracciante, motivo sottinteso nella seconda. I due racconti sono una implicita provocazione rivolta agli ascoltatori perché giudichino la scelta del contadino e del mercante. Ogni persona di buon senso non può che approvarli e trovare saggia la loro decisione di non lasciarsi sfuggire l’occasione propizia e di gettare sul piatto della bilancia tutto quanto posseggono. Gesù vuol compromettere chi lo ascolta, spingerlo a prendere posizione nei confronti del regno da lui annunciato come realtà che batte alla porta dell’esistenza umana. Sapendo che le parabole non sono allegorie, rinunciamo a cercare i corrispondenti simbolici per ogni oggetto o azione descritta; fermiamo invece l’attenzione sull’elemento principale del racconto, quello che ci permette di rispondere alla domanda: «Perché Gesù ha raccontato questa parabola?».
Ora, dal momento che ogni parabola mira a coinvolgere l’ascoltatore, perché egli formuli un giudizio sulla vicenda raccontata e così si comprometta con un giudizio anche sulla propria vita, possiamo domandarci: qual è il giudizio che Gesù vuol far pronunciare ai suoi ascoltatori? Con ogni probabilità si tratta di un giudizio di stima e di apprezzamento. Il tesoro e la perla sono stati scoperti: il Regno è stato rivelato agli uomini: ora si impone la decisione di non lasciar sterile la scoperta fatta, ma di abbandonare tutto per poterlo accogliere. Ne vale la pena, nessun prezzo è troppo alto; ogni sacrificio trova piena giustificazione. Sia il contadino sia il mercante sono stati certamente saggi, perché, avendo trovato qualcosa che vale moltissimo, non se lo sono lasciati scappare; hanno fatto bene a vendere quello che avevano, perché l’acquisto che hanno fatto è ben superiore alle proprietà precedenti.
Di fronte a questo evento, conosciuto e giudicato, Gesù interpella i suoi discepoli, che già conoscono il grande valore del Regno: dopo averlo desiderato e cercato, ora l’avete trovato: non vale forse la pena lasciare tutto il resto che ostacola l’accoglienza di Dio? La risposta è certamente affermativa. L’attenzione però non è da porre sul «vendere», bensì sull’ultimo verbo, «comprare»: la fine non è rimaner con le mani vuote, ma ottenere la ricchezza che supera ogni altra ricchezza. Per accogliere il Regno è dunque necessaria una decisione sapiente, una scelta intelligente dei beni, un uso appropriato dei mezzi necessari per giungere al fine tanto importante. Questa decisione poi, compiuta con la consapevolezza dell’acquisto prospettato, non opprime l’uomo ma lo riempie di gioia (v. 44): fuori parabola, si tratta della decisione dei discepoli che hanno lasciato tutto per seguirlo (4,20.22: III Domenica Tempo Ord.) e, al contrario, della triste indecisione del giovane ricco (19,21-22) che non vuole lasciare nulla.
La parabola della rete, ossia la separazione dei malvagi dai giusti alla fine del mondo, è molto simile alla parabola della zizania con cui fa da inclusione a tutto il presente discorso. Non vi è imbarazzo nella scelta perché la Chiesa non ha da scegliere gli uomini; sono gli uomini che devono scegliere la loro strada. La rete raccoglie tutto ciò che trova: la cernita compete solo a Dio. Gli uni si batteranno per la fedeltà alla tradizione, gli altri per la creatività; i responsabili vegliano su questo conflitto, sorgente indispensabile di progresso. L’uomo che sceglie, accetta di perdere ciò che viene escluso dalla sua scelta: la Chiesa, che punta tutto sull’Evangelo, accetta il rischio della defezione.
I lettura: 1 Re 3,5.7-12
A chi è destinata la sapienza. Si può ben gridare e contendere per ottenere un regno; si può essere trascinatori di folle o rivestirsi di maestà o fare gli spavaldi; quando però ci si ritrova soli, nel momento in cui non si ha che se stessi come, interlocutori, ci si accorge di essere assai meschini. Quel minuto di sincerità è allora il minuto della grazia. Si riconoscono infatti le proprie lacune: si scopre ciò che si tiene nascosto agli altri, e spesso anche a se stessi. Allora Dio è presente, più fedele a noi di noi stessi, disposto a dare la sapienza a chi riconosce umilmente di averne bisogno.
Salomone è da poco re. Nel primo periodo del suo lungo e fastoso regno, che per i suoi eccessi e anche per forme di culto idololatrico causò in seguito lo sciagurato scisma tra Israele e Giuda, si comportò bene, «amò il Signore seguendo i decreti di David il padre suo» (1 Re 3,3). Tuttavia sta qui già qui l’allusione a quanto poi sarebbe avvenuto, perché il versetto termina così: «però offriva sacrifici e incenso sugli alti luoghi», contro la legge dell’unità del santuario, e quindi con un primo incentivo all’idololatria. E proprio in uno di questi santuari osa andare a chiedere al Signore l’aiuto necessario (v. 4). Il Signore allora in Gabaon gli appare di notte in sogno (9,2; 11,9). Così fu per Abramo, per Giacobbe, per Giuseppe, per Daniele. Il Signore privilegia talvolta questo mezzo di rivelazione, poiché rende profeti e sapienti anche con sogni (Giob 33,14-18). E l’avvertì anche una volta per sempre parlando ad Aronne e a Mirjam nel deserto:«Ascoltate bene le mie parole, voi! Se esiste un profeta del Signore, Io mi faccio conoscere a lui in visione, Io parlo con lui in sogno» (Num 12,6). Anche nel N. T. Giuseppe riceve nel sonno la rivelazione sul Figlio di Dio e sulla Madre sua (Mt 1,20; 2,13.19).
Adesso a Salomone il Signore chiede di domandargli quanto desidera il suo cuore (v. 5). Salomone, che è molto accorto, prima espone al Signore l’anamnesi dei fatti. Il Signore fu buono e generoso con Davide, il padre suo, che si era comportato irreprensibilmente davanti a Lui (2,4; 9,4; Sal 14,2), e per colmo di benevolenza gli donò un figlio secondo la promessa (2 Sam 7,5-16), e quindi un regno che deve proseguire (v. 6; 1,48). Salomone ricorda al Signore altresì che è stato fatto re da Lui (1 Cron 28,5) come successore del padre (v. 7a). Adesso entra nel vivo della questione e per primo fatto espone al Signore che è ancora troppo giovane (1 Cron 29,1), e che non sa «uscire ed entrare»; con tale espressione, che si compone di due estremità, si indica tutto il comportamento umano; in pratica, Salomone non sa che cosa fare e non fare, non sa regnare (v. 7b; Num 27,17), tanto più che ha un popolo numeroso, il popolo scelto, secondo la promessa fatta ad Abramo (v. 8; 4,20, e Gen 13,16, 15,5).
A questo punto, dopo la captatìo benevolentìae, il re può avanzare la sua richiesta: desidera la sapienza che solo il Signore può donare (Pr 2,6,9; Gìac 1,5), con cui governare con giusti giudizi (così il Re messianico, Sal 71,1-2), distinguere il bene e il male in favore del suo popolo (Is 7,15; 2 Sam 14,17, Ebr 5,14. con la Parola) (v. 9). Al Signore la richiesta piace (v.10), e manifesta il suo compiacimento, perché Salomone non chiese vita lunga, ricchezze, vittorie, ma l’intelligenza della giustizia (v. 11). Perciò adesso eseguirà la sua parola, con il dono di tale intelligenza, che mai più sarà eguagliata (v. 12; 4,29-31; 5,12; 10,23-24; Sir 1,16; Pr 2,3-6).
Il Salmo responsoriale: 118,57 e 72.76-77.127-128.129-130, Dsap
Il Versetto responsorio: «Quanto amo la tua legge, Signore!» (v. 97a, dalla stanza XII) fa ripetere insistentemente l’amore dei fedeli per la Legge santa del Signore (vv. 113.140.159. 162; 1,2; Rom 7,22). Per l’inquadramento del salmo, riportiamo quanto detto nella Domenica VI di questo Tempo: «Il più esteso Salmo del Salterio è il più splendido «elogio della Parola» divina dell’intera Scrittura (vedi qui i Sal 1 e 18), ed è anche la più intensa sua contemplazione. Va detto che l’elogio della Parola si trova presente a tratti anche in molti altri Salmi. Una caratteristica del Sal 118 è che procede per via delle lettere dell’alfabeto. Come si sa, le lettere dell’alfabeto ebraico sono 22; ora, ogni lettera qui è usata in modo che una stanza o strofa di 8 versetti cominci sempre con quella, e così fino alla fine. Inoltre, gli 8 versetti riportano a loro volta quasi di regola 8 sinonimi per Parola o Legge, ossia 7+1, la pienezza; essi sono (non tenendo conto delle varianti delle traduzioni moderne): Legge, testimonianze, vie, comandi, statuti, precetti, decreti, Parola.
Ora, se con 8 si indica la pienezza, anche con 22 viene fuori questo concetto. Il ragionamento del Salmista (anche negli altri Salmi «alfabetici», molto più concisi) è questo: io vorrei, Signore, esprimere davanti a Te tutto quello che sento; ma il mio vocabolario è esiguo e inespressivo per un compito così grande. Allora io Ti dono tutta la mia lingua, che è la combinazione dell’alfabeto, e Te la presento nel simbolo delle 22 lettere. Il resto, devi compierlo Tu. I presenti versetti sono desunti dalle «stanze» del Salmo, ordinate secondo le 22 lettere dell’alfabeto ebraico. E così il v. 57 dall’VIII stanza, lettera Het; il v. 72 dalla IX, Tet; i vv. 76-77 dalla X, Iod; i vv. 127-128 dalla XVI, ʻAjin; i vv. 129-130 dalla XVII, Pe. Come si sa, il Sal 118 è contemplazione che si fa «elogio della Parola». L’Orante afferma la sua ferma fede, rivendicando che la sua sorte, il lotto ereditario (15,5), è custodire la Legge divina, meditandola e osservandola (v. 57). Essa per lui è il Tesoro, che vale più di 1000 pezzi d’oro e d’argento, un numero sterminato (v. 72; e vv. 14.127; 18,11; Pr 8,10-11).
Ma contestualmente prega che secondo la promessa divina per i fedeli, il Signore gli manifesti la sua Misericordia, l’unica consolazione della sua povera esistenza (v. 76; 108,21). Dalla meditazione della Legge, che riempie la sua esistenza, sa che può chiedere le divine misericordie, che sono vivificazione per lui (v. 77; Lam 3,22). Quindi afferma di nuovo che ama i precetti divini più dell’oro e del topazio prezioso (v. 127; vv. 14.72; 18,11; Pr 8,10-11), e che la sua esistenza è stata sempre diretta verso tutti i comandamenti che il Signore ha fatto conoscere, mentre ha odiato sempre la “via” o comportamento, dell’iniquità (v. 128; e v. 104). Di fronte alle testimonianze rivelate del Signore, l’Orante si è ritrovato sempre in rinnovata sorpresa, essendo esse «fatti mirabili» (vv. 18.27), e così non ha fatto altro che darsi alla loro contemplazione (v. 129). Non solo, ma è stato illuminato dall’esposizione delle Parole divine (v. 105; 18,9). Da tale dottrina i “piccoli” come lui, gli umili e devoti, ricevono dal Signore l’intelligenza per comprendere tutti i suoi Disegni (v. 130; 18,8; Pr 1,4; Sap 10,21). Così avviene il rimando all’Evangelo di oggi, e al «giubilo messianico» di Mt 11,25.
Esaminiamo il brano
v. 44 – «simile a un tesoro nascosto nel campo»: Anche in questo caso, il regno è paragonato all’intero quadro che segue. Le due parabole (del tesoro e della perla) probabilmente circolavano in coppia. Sono state incluse nel «giorno delle parabole» di Matteo a causa della parola di richiamo «campo» usata nella prima parabola. Data l’instabilità politica della Palestina e la continua minaccia di invasioni, nascondere sotto terra i propri preziosi era il mezzo migliore per proteggerli. In Oriente il ritrovamento fortuito di un deposito di monete o di altri oggetti preziosi non è cosa immaginaria, come le moderne scoperte archeologiche confermano largamente. In un mondo non ancora assestato e in cui il pericolo di invasioni nemiche o di briganti era ininterrottamente presente, numerosi capifamiglia sotterravano i loro piccoli risparmi nella speranza di un ritorno che poi non si avverava mai. Qui si suppone che l’attuale padrone del campo non sia a conoscenza di ciò che vi è nascosto. I rabbini discutevano proprio su questo punto: se chi acquista un campo ha diritto al tesoro che vi può trovare. La parabola presuppone che poteva farlo.
«lo nasconde di nuovo»: nel genere letterario delle parabole non viene preso in considerazione l’aspetto morale delle azioni descritte; così nel caso classico del fattore infedele (Lc 16,8). Gesù non pronuncia alcun giudizio sull’etica dello scopritore, ma utilizza la sua avarizia come un esempio dello zelo con il quale il credente deve accaparrarsi il regno, a qualsiasi prezzo.
«e compra quel campo»: L’enfasi di questa parabola (e di quella della perla) è posta sul grande valore di ciò che uno trova (= il regno) e sulla incondizionata reazione che dovrebbe sollecitare. Notare lo stato d’animo: «pieno di gioia». L’accento è posto sul grande valore di ciò che si trova, non su ciò a cui si deve rinunciare per venirne in possesso.
«pieno di gioia»: è la gioia ben comprensibile dell’inatteso possesso di una favolosa ricchezza, gioia che accompagna il sacrificio, pur doloroso, di tutti i propri averi. Il tema della gioia, caratteristico del terzo Evangelo (cfr. Lc 1,47; 2,10; 24,52), fa la sua comparsa anche in questo di Matteo (cfr. 2,10).
vv. 45-46 «simile a un mercante … perle preziose»: La ricerca delle perle preziose presenta una dinamica diversa dalla parabola del tesoro. In quest’ultima l’oggetto prezioso era una sorpresa, mentre qui è il risultato di una ricerca fatta di proposito. Per gli altri aspetti l’enfasi è la stessa: il grande valore di ciò che uno trova (= il regno) e la ferma volontà di possederlo.
«va in cerca»: Lo sforzo della ricerca è l’insegnamento proprio della parabola della perla che integra quello del tesoro; è una condizione indispensabile perché uno possa «trovare» i beni non visibili del Regno (cfr. Mt 7,7: «chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto»).
vv. 47 – 50 – Parabola della rete, ossia la separazione dei malvagi dai giusti alla fine del mondo; simile alla parabola della zizania, il tema della presenza di entrambi i buoni e i cattivi nella Chiesa è qui ancora più chiaro e la soluzione escatologica è identica.
«simile a una rete gettata nel mare»: Si tratta di una «grande rete da pesca», che viene tirata da due barche, oppure stesa con una sola barca e poi tirata a riva con due lunghe cime. La dinamica di questa parabola è la stessa di quella del grano e della zizzania (Mt 13,24-30); le due parabole formano una coppia. Per comprendere la parabola di Gesù occorre comunque fermarsi un pò sulla classificazione biblica dei pesci a uso commestibile. È noto che esistono nella Bibbia prescrizioni, spesso di origine locale e folcloristica, che regolano le scelte alimentari orientandole in chiave sacrale. È il caso dei pesci, che sono commestibili solo se dotati di squame e pinne. Così si legge, infatti, nel libro del Lv 11,9-12. Ecco allora la spiegazione del dato simbolico centrale della parabola: i pescatori «raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi». Questa prassi, codificata dalla legge biblica, per Gesù rappresenta simbolicamente il giudizio finale; allora gli angeli di Dio «separeranno dai buoni i cattivi» che per ora, come il grano e la zizania, vivono insieme nel mondo, e getteranno i perversi “nella fornace ardente” del giudizio divino. Mentre è ribadita la sorte dei malvagi, è taciuta, perché anticipata (v. 43), la sorte dei buoni.
v. 48 «Quando è piena»: Come il grano e la zizzania devono giungere a maturazione, così la rete deve essere riempita prima che possa avvenire la cernita. Il termine «piena» è affine al «numero pieno» applicato a «tutte le genti» in Rm 11,25. Qui però non c’è nessuna distinzione tra Giudei e pagani, ma piuttosto tra i giusti e i malvagi (ossia, tra coloro che ascoltano la parola di Gesù e coloro che non l’ascoltano).
«i cattivi»: Il termine sapra si riferisce:
1) agli animali marini non commestibili
2) ai pesci impuri (vedi Lv 11,10-12) che non hanno «né pinne né squame».
Come nella parabola del grano e della zizzania, il momento della separazione dei buoni dai cattivi verrà quando sarà raggiunta una certa pienezza. I «cattivi» vengono buttati via, non ributtati in mare.
La comunità cristiana sta vivendo al presente il momento della pesca: i discepoli hanno lasciato le loro barche e le loro reti, per diventare al seguito di Gesù pescatori di uomini. Alla Chiesa compete la missione, non il giudizio: questo è lasciato nelle mani di Dio per il tempo della fine, quando sarà chiaro chi ha fatto le scelte sagge e chi invece ha stupidamente preso decisioni sbagliate.
v. 49 – «Così sarà alla fine del mondo»: La spiegazione è simile a quella del grano e della zizzania (vedi Mt 13,36-43); anche questa probabilmente è opera dello stesso Matteo. L’idea degli angeli che operano la separazione è espressa anche in Mt 13,41. In entrambi i casi il loro ruolo è stato probabilmente suggerito dalla pluralità dei mietitori e dei pescatori.
v. 50 «nella fornace ardente»: Questa espressione e quella che segue («pianto e stridore di denti») sono già state usate in Mt 13,42. Anche in questo caso l’idea della tolleranza e della paziente attesa implicita nella parabola ha ceduto il posto ai temi del giudizio e della punizione.
vv. 51-52 – Questo brevissimo brano è la conclusione del discorso parabolico; in questi versetti, propri di Matteo, l’evangelista probabilmente dà un’idea della sua qualità di «scriba» cristiano.
«Sì»: la risposta pronta e risoluta dei discepoli contrasta in qualche modo con la lentezza, rilevata spesso nell’Evangelo di Marco, con cui essi apprendevano l’insegnamento di Gesù. A Matteo preme mettere in risalto la fondamentale differenza tra l’atteggiamento restio o addirittura ostile di molti e quello di pronta accettazione dei discepoli.
«Avete capito…?»: Qui «tutte queste cose» si riferisce agli insegnamenti di Gesù sul regno così come sono espressi nelle parabole. Questi comprendono la presenza del regno, i suoi umili inizi, le diverse reazioni, la straordinaria pienezza del regno e il giudizio che alla fine si avrà.
v. 52 «ogni scriba, divenuto discepolo»: Alcuni interpretano l’espressione come un autoritratto dell’evangelista. Originariamente incaricati di redigere documenti legali, gli scribi sono diventati esperti in questioni legali e nell’interpretazione della Torah. Il verbo mathéteutheis («che è divenuto discepolo» o «che è stato addestrato») ha perfino il suono del nome «Matteo». Sia che l’espressione alluda a Matteo o meno, l’applicazione più comune riguarda il cristiano matteano il quale fa tesoro delle cose nuove (ciò che è avvenuto in e per mezzo di Gesù) e delle cose antiche (l’eredità ebraica). È probabile che il paragone si riferisca ad un preciso ricordo storico del Signore che tuttavia non deve aver avuto alcun riferimento alle parabole nel loro contesto originale.
«simile a un padrone di casa»: Lo scriba è paragonato a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. Sia il nuovo che l’antico ha grande valore; il nuovo non rende il vecchio inutile.
I discepoli a differenza della folla, hanno compreso la parola di Gesù, rivelatrice della realtà segreta del regno di Dio. Per questo possono essere definiti nuovi maestri della Legge: nuovi perché discepoli di Cristo e come tali partecipi della rivelazione ultima del Padre da lui fatta.
Nel detto l’accento cade sulla combinazione del nuovo e del vecchio: in pratica i discepoli di Gesù, ammaestrati nei segreti del Regno, sono in grado di insegnare la novità del messaggio cristiano e di mostrarne la continuità con l’AT.
Questo accadrà per quei maestri della Legge che si convertiranno all’annuncio evangelico, integrando così la conoscenza dell’AT con la novità della conoscenza dei segreti del Regno di Dio. Nessuno dei due è sufficiente senza l’altro: l’Evangelo infatti è la pienezza, il compimento della Legge.
Il messaggio della tolleranza paziente e del lasciare a Dio la regolazione dei conti è valido anche oggi. In un mondo in cui assistiamo a innumerevoli conflitti in nome della religione, della razza, dell’identità etnica, e così via, questo è un consiglio quanto mai attuale.
Mentre cristiani ed Ebrei cercano di operare per un rapporto più positivo e di reciproca fiducia, il messaggio di Matteo rappresenta almeno un primo, benché minimo, passo sulla strada del ricupero della più completa e più adeguata soluzione presentata da Paolo in Romani 11:
«Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l`indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto:
Da Sion uscirà il liberatore,
egli toglierà le empietà da Giacobbe.
Sarà questa la mia alleanza con loro
quando distruggerò i loro peccati.
Quanto all’evangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia per la loro disobbedienza, così anch`essi ora sono diventati disobbedienti in vista della misericordia usata verso di voi, perché anch`essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia! (11,25-32)».
E ovviamente va ricordata ai lettori di qualsiasi generazione la stupenda promessa e l’inestimabile valore del regno di Dio che sono così chiaramente abbozzati nelle due coppie di brevi parabole.
II Colletta
O Padre, fonte di sapienza,
che ci hai rivelato in Cristo
il tesoro nascosto e la perla preziosa,
concedi a noi il discernimento dello Spirito,
perché sappiamo apprezzare
fra le cose del mondo
il valore inestimabile del tuo regno,
pronti ad ogni rinunzia
per l’acquisto del tuo dono.
Per il nostro Signore…
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano