Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 30 Gennaio 2022

1050

DOMENICA «DEL RIGETTO DEL SIGNORE A NAZARETH»

IV del Tempo per l’Anno C

«Oggi si è adempiuta questa scrittura». Quale? «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio… e predicare un anno di grazia del Signore» (cf. Is 61,1-2): l’Evangelista condensa tutto il discorso di Gesù a Nazareth in queste brevi parole. Dobbiamo rassegnarci a non conoscerne più dettagliatamente il contenuto, limitandoci ad osservare la reazione della gente. Dapprima riservati, poi più che reticenti, i concittadini di Gesù avanzano pretese decisamente campanilistiche: perché non ripete nel suo villaggio i prodigi che ha compiuto a Cafarnao? Poi l’atmosfera si surriscalda, al punto che gli ascoltatori tentano di ucciderlo, quando egli si appella ai grandi profeti del passato che hanno concesso i loro miracoli ai pagani per meglio denunciare l’incredulità del loro popolo.

Cerchiamo di non accontentarci di una lettura superficiale di questo brano, che contiene la presentazione di un tema fondamentale, l’abbozzo di una sinfonia che Luca svilupperà nel suo Evangelo e poi nel libro degli Atti. Si tratta già del destino di Gesù e del suo messaggio, della sua tragica fine, ma anche del fuoco che egli è venuto a portare nel mondo, e che dopo la Pasqua si propagherà «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). L’«oggi» di questo Evangelo che si apre su orizzonti universali riguarda dunque anche noi. È come il leggero rullio della nave ancorata nel porto, che la chiama lontano, al di là dei mari, verso isole ancora sconosciute. Non confiniamo Gesù a Nazareth e nel primo secolo della nostra era, mentre la sua parola è per ogni razza, per ogni cultura, per tutto il mondo e per tutte le epoche della storia!

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 105,47

Salvaci, Signore Dio nostro,

e raccoglici da tutti i popoli,

perché proclamiamo il tuo santo nome

e ci gloriamo della tua lode.

L’antifona d’ingresso è dal Sal 105,47, SI. Con due epiclesi, l’Orante a nome dell’intera comunità chiede che il Signore, Dio dell’alleanza, salvi il popolo suo, e nella situazione di dispersione e d’esilio raduni i suoi fedeli di tra i pagani (Dt 30,3; Sal 106,2), fatto a cui il Signore si è impegnato se il suo popolo si converte. Solo allora questo nella pace può celebrare il Nome divino, e trovare la sua unica gloria nella continua lode divina.

Canto all’Evangelo Lc 4,18

Alleluia, alleluia.

Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri

il lieto annuncio,

a proclamare ai prigionieri la liberazione.

Alleluia.

Il Canto all’Evangelo è, come per la III Domenica, tratto dalla pericope odierna orienta la lettura presentando il Messia anzitutto come evangelizzatore dei poveri e liberatore dei prigionieri. Il lezionario liturgico, con la ripresa dell’ultimo versetto dell’Evangelo di Domenica scorsa, ci offre la seconda tavola del dittico sulla visita di Gesù a Nazareth. Lo sfondo è quello della sinagoga dove Gesù si era presentato come il Messia di Dio, venuto ad annunciare l’avvento del tempo della grazia, secondo la profezia del libro di Isaia. La reazione dei nazaretani, come è stata registrata da Luca nella pagina che stiamo per esaminare, ci mette praticamente di fronte non solo a un episodio singolo, ma all’intera vicenda di Cristo e del suo Evangelo.

L’omelia dì Gesù nella sinagoga di Nazareth è il modello dell’omelia cristiana: non tanto esegetica, dottrinale o moralistica, ma profetica.

Profeta è infatti una parola che ritorna insistente nel discorso programmatico di Gesù ai suoi concittadini. Gesù si muove sulla strada indicata dai giganti della profezia dell’AT:

  1. Isaia offre a Gesù le parole per indicare il contenuto essenziale della sua missione e i destinatari privilegiati del suo messaggio.
  2. Elia ed Eliseo servono a prospettare la vera dimensione della sua missione: essa non ha confini, non è circoscritta entro un’appartenenza etnica, il suo ministero è universale.

Gesù dunque è profeta tra i profeti: per dare compimento ad una promessa; ma soprattutto per anticipare la sua missione come buona notizia per tutti i poveri del mondo. L’ombra della passione che sembra lambire gli avvenimenti di Nazareth (Cfr. vv. 28-30) ci rimanda un’impressione di solitudine: Gesù è anche un profeta solo; come i profeti antichi, “uomini contro” e uomini soli.

La prima lettura che ci propone il brano della vocazione di Geremia, ci ricorda proprio che il profeta, “il chiamato”, per il suo rapporto di amore e di fedeltà con Dio, sperimenta nel mondo la solitudine e la paura per le conseguenze di questo dialogo con l’Assoluto.

Nei racconti dei “Padri del deserto” si legge di un giovane, convertito di recente, che chiede a un anziano: «Abba, adesso dovrò rinunciare completamente al mondo?». «Non temere» gli disse l’anziano. «Se la tua vita sarà realmente cristiana, sarà il mondo che rinuncerà subito a te».

Come nella Chiesa, il carisma della profezia deve essere quello di interpretare e attualizzare la Scrittura in un’assemblea concreta, così noi, popolo profetico, chiamato ad annunziare il Cristo morto e risorto per redimere l’umanità, oltre alle difficoltà interiori siamo chiamati a sperimentare anche la paura di dover affrontare il nostro ambiente spesso così lontano e ostile alla Parola di Dio.

Noi che pure siamo attratti dal desiderio di Dio, siamo spesso bloccati dalla paura che la nostra vita cambi troppo. Geremia, desideroso di una vita tranquilla e comune, è costretto a vivere contro il suo temperamento e a porsi nella sua società contro il suo popolo e le classi dirigenti (re-sacerdoti-profeti; Cfr. cc 26, 27 e 28; 11,18-23).

In un momento di avversità (c. 20) il profeta dichiara di essere stato «sedotto da JHWH» e di aver «ceduto alla seduzione» (20,7). Se l’oggi della Parola si realizza in ogni azione liturgica, noi non possiamo stare ad ascoltare dicendo dentro di noi: questo già lo so.

Come leggiamo nell’Evangelo (v. 21) la parola si compie «all‘interno delle orecchie»; cioè, realizza quello che dice. Ascoltare e non ascoltare ha come effetto la vita o la morte. A questo proposito nei “Padri del deserto” si racconta che abba Daniele, noto per la sua dolcezza e misericordia verso i peccatori, un giorno, venuto a confessare un ammalato, e trovatolo un po’ reticente disse: «Io non insisto perché tu ti confessi. Non voglio che la paura ti faccia prendere una decisione affrettata. Dormici sopra, se domattina ti svegli, chiamami». Questa non vuole essere una minaccia o una forzatura; tuttavia davanti a una Chiesa che gli annuncia l’Evangelo, l’uomo è sempre messo davanti ad una decisione esistenziale.

Esaminiamo il brano

21 – «Oggi si è adempiuta…»: Così nel silenzio generale, denso di attese, inizia la predicazione di Gesù secondo Luca, mentre Matteo e Marco ricordano la vicinanza del regno (Mt 4,17; Mc 1,15) Luca ricorda la proclamazione del compimento delle promesse antiche.

Il verbo plēróō (= riempire, compiere, adempiere) è usato al perfetto, che in greco indica proprio il compimento di un evento passato i cui effetti durano fino al presente e tendono al futuro. Il verbo viene ripetuto da Luca nei punti nevralgici della sua opera (Cfr. 9,51 e At 2,1 e 19,21).

L’oggi della salvezza è la presenza stessa di Gesù; presenza che si realizza nella sua Parola nelle nostre orecchie, cioè in chi ascolta e mette in pratica.

22«meravigliati»: non solo il tono, ma il contenuto e le pretese della predicazione di Gesù scatenano una duplice reazione (Cfr. anche Mt 13,54-57 e Mc 6,2-4).

«delle parole di grazia»: per alcuni le sue parole sono piene di grazia; parole cioè che provengono da un dono divino o che annunciano la grazia promessa da Dio. La prima reazione è quindi di ammirazione.

«Non è il figlio di Giuseppe?»: Questo atteggiamento di pieno favore muta all’improvviso, sul filo di una perplessità: non è il figlio di Giuseppe? Ecco come si passa subito alla meraviglia non più della grazia ma dell’invidia e del dubbio.

23«Medico cura te stesso»: Luca pone sulle labbra di Gesù un proverbio ironico che più verosimilmente sarebbe stato detto dai Nazaretani.

«cura»: imperativo aoristo positivo che nel greco ordina di dare inizio ad un’azione nuova. Il senso del detto è ovvio, come lo è quell’altro che lo stesso Gesù oppone ai farisei: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati» (Cfr. Mt 9,12). La figura del medico nella Bibbia è considerata in modo ambiguo. Infatti dominava la concezione che alla base di una malattia ci fosse un peccato, per cui era necessario ricorrere al sacerdote per espiare la colpa che farsi visitare da un medico. Non mancano, nel testo biblico, le tipiche ironie popolari come quella a proposito della cecità di Tobia 2,10 : «Più i medici mi applicavano farmaci, più mi si oscuravano gli occhi finché divenni cieco del tutto».

Ricordiamo anche quella di Mc 5,25-26 nel caso della donna affetta da emorragia. Non bisogna tuttavia essere prevenuti e ostili con coloro che professano l’arte medica, infatti tra gli Evangelisti troviamo Luca, «medico caro» a Paolo (Col 4,14) e nel libro del Siracide (38,1-14), sapiente biblico vissuto nel II secolo a. C. s’incontra un brano che esalta la missione del medico e la funzione della medicina, accostandole alla salvezza che viene offerta dal Creatore. Il detto del medico nel presente contesto fa corpo con quanto segue:

«Quanto abbiamo udito…nella tua patria»: secondo i suoi compaesani Gesù avrebbe dovuto ripetere nel suo paese tutti quei miracoli che aveva operato altrove, in particolare a Cafarnao (si suppone quindi una precedente attività di Gesù: Cfr. Mt: 4,13 e Mc 1,21-45).

«fallo»: (eseguilo) ancora un imperativo aoristo positivo che nel greco ordina di dare inizio ad un’azione nuova. È una pretesa imperdonabile, suggerita più da curiosità che da invidia (i nazaretani non erano così orgogliosi del loro compaesano da essere gelosi di Cafarnao), alla quale Gesù risponde con chiarezza e reagisce con fermezza.

Si sa del resto che come regola assoluta, Gesù opera i «segni» solo in presenza della fede; al demonio, che gli proponeva richieste simili (Cfr. 4,1-13), il Figlio di Dio oppone un rifiuto netto, motivato dalla scrittura, in specie con l’ultima citazione che fa: «non tenterai il Signore Dio tuo» (Dt 6,16; Lc 4,12b).

Come nella preghiera comunque il Signore non lascia inevasa nessuna richiesta dando sempre quello che è necessario così anche in quest’occasione offre il segno più grande e necessario: l’evangelizzazione, l’annuncio della liberazione e della salvezza a tutta l’umanità.

24 – «In verità vi dico nessun profeta…»: Gesù prosegue l’omelia con un altro detto corrente, largamente comprovato dall’ esperienza. Il detto è così importante ai fini dell’accettazione di Cristo, che è ripetuto in un altro contesto, dopo l’incontro con la samaritana e la conversione dei Samaritani, alludendo però al medesimo fatto di Nazareth (Gv 4,44). Gesù delinea quello che sarà il suo destino di profeta inascoltato, emarginato, squalificato; si va prospettando così fin da ora l’indurimento del popolo di Israele che sfocerà nella sua riprovazione e nell’apertura ai pagani della salvezza.

È utile rilevare che questa affermazione di Gesù è la prima delle sei che in Luca è contrassegnata dal solenne inizio «In verità vi dico» (Cfr. anche 4,24; 12,37; 18,17.29; 21,32; 23,43). In tutte e sei le espressioni Gesù sembra riferirsi alla manifestazione del regno di Dio che si realizzerà nei fatti pasquali o nella parusìa.

Il greco amen è la traslitterazione dell’ ebraico amen=certamente, veramente, sinceramente.

Nell’uso del Giudaismo e della Chiesa sì riferisce a ciò che precede (è posta alla fine di un discorso o di una preghiera); nelle parole di Gesù si riferisce sempre a quanto segue (è posta al principio), conferendo solennità alla formula. Con essa Gesù è come se affermasse : «Io vi dico», al contrario dei profeti che usavano le parole; «Dice il Signore». Marco lo usa 12 volte; Matteo 30, Luca 6; Giovanni 25 ma nella forma raddoppiata: «Amen, Amen».

L’insegnamento di Gesù è impartito con autorità e autonomia; Gesù è più che scriba e profeta: non solo spiega la parola di Dio, ma l’attualizza. Quest’attualizzazione non consiste nell’adattare al proprio tempo la parola di Dio, ma proprio nel «renderla attuale» realizzando quanto la Parola dice. Gesù è il compimento di ogni parola, il Figlio obbediente (cf battesimo e tentazioni).

25-27 Con il secondo detto Gesù cita due episodi della vita dei profeti che irriterà al massimo i presenti. L’episodio di Elia è tratto dal 1 Re 17,l ss mentre quello di Eliseo dal 2 Re 5,1-14.

È solo Luca a fare questo riferimento (Cfr. Gc 5,17 ma in altro contesto) con il quale Gesù intende non tanto documentare la sua affermazione del v. 24, quanto mostrare che già gli antichi profeti avevano dato la preferenza agli stranieri e che Dio è libero nei suoi doni e nella sua grazia. Non è legato ad una terra e ad una patria.

«tre anni e sei mesi»: la durata del flagello è, secondo Luca e Giacomo (5,17), di tre anni e mezzo; in realtà l’antico testo non la indica con precisione (1 Re 17,1) e dice soltanto che la pioggia cadde nel terzo anno della carestia: è un caso caratteristico di cifra arrotondata per assumere un valore simbolico.

Tre anni e mezzo è, nella letteratura apocalittica, la classica durata delle persecuzioni e dei castighi escatologici (Dn 7,25; 12,7; Ap 11,2; 12,14; 13,5).

28-30 Le due citazioni non erano certo fatte per svelenire l’atmosfera e placare gli animi; naturalmente, i presenti si sentono colpiti nella loro sensibilità, sentendosi rinfacciare la loro non fede, pur essendo intervenuti per fede alla celebrazione sabatica (v. 28), Dio dunque invia i profeti solo per sollecitare che sorga o risorga la fede del suo popolo.

I nazaretani, che incarnano l’attitudine di coloro che considerano la religione come un possesso e Dio come una realtà disponibile ai propri interessi, dimostrano come avviene il rigetto dei profeti di Dio: espellono Gesù dalla loro città, e cercano di farlo precipitare da una cresta del monte su cui sorgeva l’abitato (v. 29).

Quell’assemblea tanto raccolta e attenta del v. 20 getta ora la maschera; la violenza e l’aggressività rivelano la falsità dell’apparente religiosità che prima era in bella mostra.

La vicenda nazaretana di Gesù, che ripete quella di Geremia (di cui si ha traccia nell’odierna prima lettura) e quella dei profeti, ribadisce un atto di accusa contro la facile, falsa religiosità a cui spesso ci si aggrappa ma che, se è appena perforata in profondità o messa in crisi, rivela il suo vero volto, quello dell’incredulità, dell’egoismo, della superficialità.

I nazaretani rifiutano Gesù che volta le spalle alla sua città; gli evangelisti non conoscono altra visita di Gesù a Nazareth.

«Passando in mezzo a loro se ne andò»: nulla dì miracoloso, solo una indicazione offertaci da Luca: nessuno poteva fargli del male perché non era ancora giunto il tempo della sua morte (Cfr. 9,51).

Gesù attraversa miracolosamente la folla dei nemici in tumulto mostrando una calma sovrana, come se fosse solo, a passeggio. Gesù domina con la potenza della sua serenità lo scoppio di odio improvviso e assurdo; non resta preda della cattiveria e dell’ostilità degli uomini, come non restò intrappolato da satana e non resterà intrappolato dalla morte. È un presagio della resurrezione di colui che continua il suo cammino in mezzo a noi, beneficando e risanando tutti coloro che stanno sotto il potere di satana, perché Dio è con lui (cf At 10,37-38).

 

II Colletta:

 

O Dio, che nel profeta accolto dai pagani

e rifiutato in patria

manifesti il dramma dell’umanità

che accetta o respinge la tua salvezza,

fa che nella tua Chiesa

non venga meno il coraggio

dell’annunzio missionario dell’Evangelo.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…