Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 28 Agosto 2022

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Domenica «DELL’ULTIMO POSTO»

I “benestanti” e i saggi al tempo di Gesù si riunivano spesso in banchetti solenni, per discutere insieme di argomenti “seri”, a volte religiosi; ma quanto snobismo, quante parole inutili, nel corso di quei “the mondani e di quei cocktails!” Gesù accetta di partecipare a una di queste riunioni; ma parla di una virtù nuova, ignorata dai presenti e poco in relazione col protocollo: l’umiltà. Tutti quei benpensanti, venuti per assopirsi pacifici nell’ascoltare un’esposizione tranquillizzante, all’improvviso hanno un sussulto: Gesù chiede loro di modificare le loro liste di invitati e di convocare i miserabili, gli straccioni!

Nell’Evangelo di oggi troviamo un linguaggio religioso che suona male alle nostre orecchie di uomini del XXI secolo, il primo secolo del 3° millennio e di cui facciamo fatica a rintracciare l’autentico contenuto. In che senso se ne serve Gesù?

Oggi più di ieri la società si organizza e vive sulla competitività, sulla lotta ad oltranza per i primi posti, sul profitto, considerato come il valore ultimo ed assoluto: concorrenza industriale fino all’eliminazione della ditta avversaria; arrivismo sociale fatto di raccomandazioni e bustarelle, corsa alla macchina nuova o all’abito nuovo come modo di emergere.

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Il giovane oggi si prepara ad inserirsi in questo tipo di società attraverso una educazione familiare e scolastica troppo spesso fondata su una educazione all’agonismo sociale, all’arrivismo. E grave il pericolo di una scuola che diventa luogo di selezione sociale massificando i più, relegandoli alla categoria di «inferiori» e facendo emergere i “meglio-dotati”. Un’educazione cristiana che non punti a fare l’uomo più umano, più capace di vera relazione con l’altro, ma invece più sicuro di sé, più aristocratico, più distaccato finisce per renderlo potenzialmente più egoista e sfruttatore. Per tutti, a qualunque grado della gerarchia sociale si trovino, scegliere l’ultimo posto significa usare il proprio posto per il servizio degli ultimi e non per il dominio su di loro. Se al banchetto della vita non si esita a farsi avanti a gomitate per accaparrarsi i posti migliori, ancora oggi Gesù ci ammonisce: “Nel regno si entra umiliandosi e cercando l’ultimo posto, non il primo”. Umiliarsi non significa però assumere un atteggiamento morboso di odio o di disprezzo di sé, e non significa neppure fuggire i contrasti e avere un comportamento servile per farsi accettare dagli altri. L’aggressività è una forza positiva che bisogna saper mettere a profitto. Non certo per affermare se stessi e dominare gli altri con la forza o con la seduzione: il meglio di noi stessi viene a galla soltanto in un rapporto di amore fatto di accoglienza e di dono.

La verità della parola di Gesù è suffragata dal fatto che egli stesso, con la sua incarnazione, ha lasciato il primo posto per prendere l’ultimo. Per questo «Dio l’ha esaltato al di sopra di ogni cosa» (Fil 2,9). Sconfiggendo il male per mezzo dell’amore, egli è così diventato l’uomo per gli altri, il Dio per gli uomini, il «Dio con noi».

Cristo ci rivela che la vittoria coincide con l’apparente sconfitta e la sua forza è in ciò che gli altri considerano una debolezza. Ci rivela che la vera ricchezza è nella povertà, la vera libertà sta nel rendersi schiavo, la vita si realizza nel perderla.

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Cristo ha voluto rivelare che l’amore si compie quando, come lui, si dona la propria vita per la vita dell’altro, si è nella verità quando si giudica se stessi e la storia non sul metro del successo, ma sulla libertà raggiunta, sul futuro che l’uomo ha realizzato e conquistato, sul nuovo che ha costruito, sull’amore che si è diffuso (Evangelo).

Questa nuova sapienza che viene da Dio e dalla croce raduna gli uomini come ad una sola mensa, in una sola nazione, con una sola capitale; non intendono dominare né servirsi della sapienza umana per realizzare una comunione di valori; essi trovano nell’amore che si mette al servizio dell’uomo la speranza che spinge il mondo verso nuovi e più vasti confini (seconda lettura).

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 85,3.5

Abbi pietà di me, Signore,

perché ti invoco tutto il giorno:

tu sei buono e pronto al perdono,

sei pieno di misericordia con chi ti invoca.

L’antifona d’ingresso, dal Sal 85,3.5 (SI) è una supplica epicletica che l’assemblea, all’inizio della celebrazione, con l’Orante del salmo innalza al Signore chiedendo la sua misericordia, e con richiesta insistente (v. 3; e vv. 5.16; 55,2; 56,2) e piena di gioia, poiché sa che come sempre sarà esaudita. Infatti è un moto di fiducia e d’esultanza l’affermazione motivante che il Signore è per sua essenza «soave e mite» (v. 5; e v. 15; 102,8; 144,8-9), l’unico Misericordioso verso tutti. Solo che accettano questo dono unicamente quanti Lo invocano, nella libertà dei figli di Dio.

Canto all’Evangelo Mt 11,29

Alleluia, alleluia.

Prendete il mio giogo sopra di voi, dice il Signore,

e imparate da me, che sono mite e umile di cuore.

Alleluia.

Il testo fa parte del «giubilo messianico» (cf Mt 11,25-30). L’esortazione finale di tipo sapienziale ci invita ad accettare dal Signore «il giogo», la sottoposizione libera e volontaria alla sua santa Legge (Sir 6,26; 51,34; Lam 3,27), da portare per tutta la vita, giogo liberatorio, leggero e piacevole.

Questa Legge “si impara” da Cristo Signore (Gv 13,15; 1 Pt 2,21), che è la Sapienza divina incarnata, discesa per sola spontanea degnazione dal cielo sulla terra tra gli uomini, figura dell’Amore divino sussistente, il Signore glorioso che si è fatto Uomo nella totale umiltà di cuore e nella mansuetudine che vince il male.

Siamo alla Dom. XXII, la Domenica «dell’ultimo posto», e un insegnamento nuovo e sconvolgente viene proposto dal Signore, che è la Sapienza divina incarnata, discesa dal cielo sulla terra tra gli uomini, figura dell’Amore divino sussistente. «Chi si umilia sarà esaltato»: la vera sapienza per l’uomo sta nel riconoscere che la sorgente della sua dignità non sta nelle sue costruzioni umane, ma nel mistero del suo essere che ha origine in Dio e a lui tende.

In questa Domenica prosegue (dalla XIII alla XXXI) il lungo e complicato itinerario della «salita a Gerusalemme» (Lc 9,51-19,28). Il Signore, battezzato dal Padre con lo Spirito Santo, sta compiendo-attuando fra gli uomini la Divina Liturgia, l’«opera per il popolo» che consiste nell’annuncio dell’Evangelo e nelle opere della Carità del Regno, per preparare un popolo ben disposto nel culto al Padre, la sua Sposa alle nozze eterne.

La narrazione parla di un sabato, giorno sacro del riposo divino (Gen 1-3), come terzo comandamento è il giorno di riposo da dedicare a Dio e ai fratelli (Es 20,8-11). Gesù dopo la liturgia sinagogale del mattino è invitato da un capo dei farisei a mangiare a casa sua. Saltata la lettura del miracolo della guarigione dell’idropico (vv. 2-6) si passa subito al banchetto.

Al tempo di Gesù, come ancora oggi ci si riuniva in solenni banchetti per discutere insieme su di una virtù o su di un gran personaggio.

Le discussioni erano talvolta interessanti ma più spesso piene di snobismo e di inutili discorsi. Gesù accetta di partecipare a uno di questi ricevimenti ma non si attiene al protocollo che regola questo genere di conviti e con la sua Parola dà una scossa ai commensali e al padrone di casa: parla di umiltà (vv. 7-11) e chiede di cambiare la lista degli invitati convocando poveri, storpi, zoppi e ciechi (vv. 12-14). Sussulto e smarrimento per quanti erano invece pronti ad assopirsi ascoltando una dotta ma pacifica e rassicurante riflessione.

La composizione della pericope evangelica è concentrica e ruota intorno al v. 11; le due parabole (7-10 e 12-14) tali non nel significato solito ma perché la situazione rilevata è paradigmatica di ciò che accade sempre ed ovunque, a tavola e nella vita, nella società come nella comunità dell’evangelista, sono parzialmente parallele.

Il termine parabola (parabolḗ) più che una similitudine vuole forse suggerire un senso più alto e metaforico all’insegnamento di galateo. Utilizzando questo termine, Luca intende forse segnalare al proprio lettore la necessità di “scavare” nelle parole di Gesù senza ridurle ad una sorta di “galateo”. C’è un significato più profondo, che chiede di essere svelato. La realtà stessa di Dio è raccontata e svelata in un linguaggio per immagini, che non obbliga il lettore, ma interpella la sua libertà, che invita e coinvolge in profondità. Il lettore alla fine è chiamato a compiere scelte che assumono un carattere di definitività, in quanto poste in un orizzonte escatologico.

A proposito di parabole, nei cc. 14-16 ne troveremo addirittura 10, quasi un «discorso in parabole». Possiamo brevemente sottolineare tre raggruppamenti:

  1. parabole dell’invito divino – nel cap. 14 domina il tema dell’invito di Dio al banchetto escatologico;
  2. parabole della misericordia divina – nel famoso cap. 15, il cuore dell’Evangelo lucano;
  3. parabole della decisione escatologica – nel cap. 16 dove si chiama ogni uomo ad una scelta radicale.

Se a questo trittico aggiungiamo le parabole dell’imminenza escatologica (cc. 12-13) e le parabole del giudizio (cc. 18-19) possiamo forse cogliere il messaggio teologico, complesso ed unitario ad un tempo, che caratterizza la sezione lucana «dell’esodo a Gerusalemme» (9,51-19,28).

I lettura:  Siracide 3,17-18.20.28-29

Il sapiente d’Israele impartisce il suo insegnamento al suo discepolo, che chiama figlio, esortandolo a comportarsi tra gli uomini sempre con mansuetudine, che gli procurerà l’ammirazione e la lode degli uomini (v. 19). Anzi, aggiunge, quanto più si è grandi, tanto più si deve restare sempre e in tutto umili e discreti e sottomessi (Fil 2,3; Giac 4,6.10; 1 Pt 5,5), poiché il Signore precisamente dona la sua grazia solo a quelli che conosce come umili. In realtà, l’unico potente e glorioso è sempre il Signore, che è adorato dagli umili che Lo riconoscono (vv. 20-21).

È un giudizio divino formale, che l’assemblea dei superbi, malata in se stessa, è il terreno propizio dell’albero del peccato, senza che essi forse neppure ne abbiano coscienza. Invece il sapiente è umile, e si conosce dalla sapienza che da lui si esprime riccamente. Infatti l’orecchio buono avrà sempre l’insaziabile desiderio di ascoltare, di assimilare e di mettere in pratica la sapienza che viene dal Signore e dalla vita, mediante i suoi sapienti in mezzo al popolo santo (vv. 30-31).

Il Salmo: Sal 67,4-5ac.6-7ab.l0-ll, AGC

Il Versetto responsorio: «Hai preparato, o Dio, una casa per il povero» (v. 11b adattato) come ritornello litanico fa acclamare il Signore che chiama i poveri suoi al suo Convito.

Questo Salmo è forse il più difficile del Salterio, a causa degli innumerevoli e continui termini e immagini che formano una vera «foresta simbolica». Sembra che l’autore non si curi della successione logica di quanto esprime poeticamente, e che non mostri, almeno a prima vista, di seguire una struttura o un ordine di composizione.

I commenti moderni del Salmo sono per lo più imbarazzati. Alcuni di essi ricorrono a mutazioni del testo che non hanno compreso, a spostamenti, a ricostruzioni o a interpretazioni più o meno ipotetiche.

La realtà testuale del Salmo però è stata individuata ed esplorata da alcuni pochi studiosi, ma di singolare valore (William Foxwell Albright, Eugenio Zolli). Vista da vicino, essa è abbastanza semplice per chi conosce l’antica letteratura orientale, in specie quella ebraica più risalente. Il Salmo infatti non è altro che un catalogo prezioso, miracolosamente salvatosi poiché fu inserito come componimento autonomo nel sacro libro del Salterio. Tale catalogo riporta l’incipit, ossia il versetto o i versetti iniziali, che per gli antichi sono anche il titolo della composizione, di molti antichissimi inni e canti. Il resto di questi purtroppo si è perduto senza rimedio. In sostanza, ogni versetto, o gruppi di 2-3 versetti, sono qui l’inizio di un canto diverso, da interpretare perciò secondo la loro indole più o meno chiara e decifrabile.

I vv. 3 e 4 vanno letti insieme. Vi si parla della punizione divina degli iniqui, mentre i giusti faranno festa gioiosa davanti al loro Signore (Sal 31,11), e da Lui saranno ricevuti nel Convito delle delizie e dell’esultanza (v. 4). Perciò i giusti sono esortati fin d’ora a cantare la gloria del loro Signore, a narrare di Lui cantando i Salmi (Sal 65,4), poiché il Nome suo adorabile è «il Signore», rivelatosi a Mosè (Es 3,14), e poi nella gesta mirabile dell’esodo, al Mar Rosso (Es 15,3, Sal 82,19) (v.5).

Un altro tratto del canto afferma di seguito che il Signore è il Padre unico e amorevole degli orfani ed è il Giudice unico che interviene a rendere giustizia per le vedove (Sal 145,9; Dt 10,18), che Egli ama e riscatta da ogni persecuzione iniqua. Un altro inno che segue canta il Signore perché Egli ama abitare nel santuario suo, a Gerusalemme (v. 6).

Ancora un canto. Dio dispone la sua Dimora per tutti gli abbandonati, che sono isolati dal resto degli uomini (Sal 132,1), ma trovano sempre rifugio nel suo santuario. Egli riconduce gli esiliati per farli abitare di nuovo in fedeltà nella terra promessa, dove fioriscono di nuovo le condizioni paradisiache dell’abbondanza e della prosperità. Questo il Signore operò nella sua potenza irresistibile (v. 7; Sal 106,10.14; 145,7).

Ancora un inno. Il Signore aveva promesso al suo popolo, se avesse obbedito alla sua Legge, che avrebbe inviato sulla terra la pioggia benefica e fecondante due volte l’anno, in primavera ed in autunno (Dt 11,11-14). E così usava concedere al suo popolo, quando questo viveva nelle condizioni ideali di un’esistenza fedele e pia davanti al suo Signore (v. 10a). Questo avverrà anche dopo l’esilio, quando il Signore rigenererà questa sua “eredità” come segno di presenza e di amore (v. 10b). Abiteranno nella terra promessa in pace  (v. 11a) ma soprattutto per il suo povero il Signore preparò dall’eternità la dolcezza del suo Convito di grazia (v. 11b; Sal 64,10; 77,20).

Esaminiamo il brano

1 – «Un sabato»: nell’Evangelo di Luca questo è l’ultimo sabato in cui si parla dell’attività di Gesù che ha ridotto al silenzio tutti i suoi oppositori (cf v. 3). Il sabato successivo è quello di 23,56 dove Gesù è composto nella tomba dalle donne, preda ormai del silenzio della morte. Il sabato è il giorno sacro del riposo del Signore (Gen 1-3) e secondo la Legge, come terzo comandamento, è per gli uomini il giorno del riposo da dedicare al Signore e ai fratelli (Es 20,8-11) In questo giorno gli uomini non lavorano, non cucinano, non camminano, per dedicarsi alla preghiera comunitaria e personale al Signore, ma anche alla cura dei parenti e all’amicizia fraterna.

In questo giorno, più che negli altri, Dio incontra l’uomo, lo istruisce e cura. Sette sono i miracoli operati da Gesù in giorno di sabato, di cui due sono ricordati solo da Giovanni: il paralitico di Betzaetà (5,10) e il cieco nato (9,14). Il miracolo dell’idropico è proprio di Luca ed è il quinto della serie, ultimo di essi da lui narrato:

  1. guarigione di un indemoniato (4,31ss; Mc l,21ss);
  2. guarigione della suocera di Simone (4,38ss);
  3. guarigione dell’uomo dalla mano inaridita (6,6ss; Mt 12,9; Mc 3,1);
  4. guarigione di una donna curva (l3,10ss);
  5. guarigione di un idropico (14,lss).

«per pranzare»: l’evangelista Luca ama presentare Gesù seduto a tavola in contesti diversi, con farisei e con pubblicani (5,29-30), con i suoi discepoli, donne (10,38-42) e uomini (22,14). Oggi, per la terza volta entriamo con Gesù nella casa di un Fariseo, per ascoltare un insegnamento importante.

Alla lettera phageîn árton è “per mangiare il pane”, un ebraismo che richiama l’azione del prendere cibo per pranzare o cenare, dove il pane era l’elemento principale. L’espressione si collega al v. 15 con cui Luca introduce la parabola del banchetto messianico. Se mangiare significa vivere, mangiare di sabato significa partecipare alla vita di Dio; è il banchetto annunciato in Is 55, quello che il Padre imbandisce per la gioia del Figlio perduto e ritrovato (c. 15). È l’adunanza festosa di cui parla l’apostolo nella seconda lettura, dove tutti i cristiani sono invitati alla familiarità con Dio, una convocazione dove gli uomini si aprono a quell’unità che è l’accoglienza del dono del Padre: Gesù di Nazareth, il Figlio suo. È il convito eucaristico, la Divina Liturgia.

«la gente stava ad osservarlo»: la figura di Gesù ha attratto su di sé grandi attenzioni, molto benevola da parte delle folle e con punte di ostilità da parte delle autorità. Gesù non si sottrae ma a tutti si offre e dona la sua Parola.

Il particolare dell’osservazione attenta a cui Gesù è sottoposto, l’improvvisa apparizione dell’ammalato (v. 2) unitamente alla presenza dei dottori della legge e degli scribi (cf 7,30; 11,45s) al v. 3 confermerebbe la tendenziosità dell’incontro. Contrariamente a Mt 12,10 e Lc 6,9 qui è Gesù che invece provoca i suoi avversari e il loro silenzio è forse indice di un desiderio di rivincita contro colui che abbatte la loro intransigenza e la loro ipocrisia (6,42; 12,56).

7«disse loro una parabola»: Gesù non detta regole per stare a proprio agio in società e non ripropone quella buona educazione spicciola che tra persone serie e dignitose rende possibili e migliori i rapporti sociali, senza provocare urti. Quello di Gesù non è un sermone di prammatica! Si tratta di carità; un messaggio di salvezza: cf. ancora l’Alleluia all’Evangelo.

Si tratta di agire con delicatezza verso il prossimo, che è il modo di comportarsi sempre in modo che tutti i fratelli stiano bene e di questo si possa legittimamente gioire. Tutti i benpensanti venuti per assopirsi tranquillamente ascoltando un’esposizione rassicurante, avranno presto un improvviso soprassalto.

8 – «Invitato a nozze»: il pranzo di nozze è scelto probabilmente perché in queste occasioni si cercava di osservare il cerimoniale con rigorosità, per non suscitare critiche e urtare la suscettibilità dei parenti di vario grado, che non avrebbero più dimenticato un affronto o ciò che avesse potuto sembrare tale alla loro permalosa dignità. Oggi tutto questo è superato (…quasi mai!) in quanto i posti a tavola sono assegnati con tanto di cartoncino.

Ricordiamo anche come il banchetto e le nozze sono immagini ricorrenti per descrivere il Regno: esso è comunione con Dio, nostra vita (banchetto) e nostro sposo (nozze). Il tema delle nozze uomo-Dio pervade tutta la Scrittura: alluso in Gen 1-2, trova pieno svolgimento in Osea e nel Cantico (cf anche Ez 16) per terminare nella visione grandiosa dell’Apocalisse (cap. 21).

«non metterti al primo posto»: per prima cosa viene messo in luce che tutti, gli invitati come anche il padrone di casa sono pieni di pregiudizi egoistici, di banali arrivismi, di preoccupazioni gerarchiche. Al v. 7 il verbo scegliere è tradotto in greco con un medio indicativo imperfetto plurale:

  1. la forma media sottolinea un’azione che si svolge per interesse personale (sceglievano per sè);
  2. l’imperfetto descrive un’azione del passato non ancora finita (imperfetta) mentre si sta svolgendo nella sua durata;
  3. la terza persona plurale ci dice che nessuno era immune da questa preoccupazione.

A parte la questione delle precedenze, imposte dal galateo e dalla tradizione giudaica, si tratta, oltre che di non cadere nel ridicolo, come già la riflessione sapienziale ricordava (Pr 25,6-7; Sir 31,16.21), di un richiamo all’umiltà e come vedremo in seguito alla Sua sequela.

10 – «va a metterti all’ultimo posto»: attivo imperativo aoristo 2 singolare. L’aoristo indica l’azione nuova che ognuno, personalmente, è chiamato a compiere. È il capovolgimento del pensiero dell’uomo, già cantato nel Magnificat. Cerchiamo l’ultimo posto, perché ciò che conta è la vicinanza a Dio. Gesù si è fatto ultimo, il più piccolo del Regno dei cieli, colui che non trovò posto, se non in una mangiatoia (2,7) e giunse sulla croce, per la condanna a morte degli ultimi (23,33). Iniziò con le bestie e terminò con i malfattori. Per essere con Lui dobbiamo avvicinarci all’ultimo perché il nostro Signore si è fatto vicino agli ultimi (Gc 2,1ss e Mt 25,31ss). Occorre sapere come Dio è per divenire simile a Lui. La salvezza è vedere il Dio vero, nell’umiltà del Figlio Gesù (Gv 17,3).

11 – «Perché chiunque si esalta… »: Gesù con carità semplice ma ferma, capovolge tutti i criteri di valutazione e di scelta del comportamento umano affinché tutti i fratelli stiano bene e di questo si possa gioire. Il detto che si ispira a Ez 21,31, ricorre ancora in 18,14 e richiama 16,15.

Non sono solo parole, perché Gesù offrirà personalmente questo esempio, nella sua passione-morte e Paolo fisserà questo insegnamento nel famoso inno di Fil 2,5-11.

«sarà umiliato… sarà esaltato»: passivo indicativo futuro singolare. Il futuro nella Scrittura è spesso usato per indicare la sicurezza e la fiducia che l’uomo di fede ha nel vedere realizzata l’azione indicata. La forma passiva e l’impersonale tanto in tapeinōthḗsetai (umiliare) quanto in hypsōthḗsetai (esaltare) serve ad evitare di pronunciare il nome di Dio (passivo teologico) la cui azione è chiaramente indicata in questi due comportamenti così opposti alla mentalità umana.

Fu la superbia a rovinare Adamo (fatto di humus, terra) il Figlio di Dio, sceso dall’alto, dopo essersi svuotato per essere come Adamo, si umiliò e «tapinizzò», in obbedienza al Padre, fino alla morte. Per questo fu innalzato (Fil 2,5-11).

Come con Maria, vera arca dell’alleanza (cf Evangelo della Festa dell’Assunzione o Dormizione della Madre di Dio, Lc 1,39-56), Dio fissa la sua dimora nell’umile, verso il quale volge il suo sguardo (Lc 1,48; cf. Is 66,ls).

12 – «Disse poi a colui che l’aveva invitato»: Mentre il discorso precedente era rivolto agli invitati, questo è rivolto a chi invita, a questo e a qualunque altro padrone di casa. A quelli Gesù diceva di scegliere l’ultimo posto, a questi dice di scegliere gli ultimi. Anche qui si tratta di un fatto preso dalla vita ordinaria, osservato con attenzione, interpretato in modo simbolico e trasportato in campo religioso.

«quando offri un pranzo o una cena…»: anche nel gesto apparentemente generoso, di chi distribuisce inviti si può nascondere un sentimento di egoismo, quando ad esempio la scelta degli invitali è suggerita da motivi di obbligo, di simpatia, di tornaconto.

«non invitare»: mḕ phṓnei, attivo imperativo presente 2singolare. L’imperativo presente negativo ordina di non continuare un’azione già iniziata. Il nostro rapporto con i fratelli deve rispecchiare quello di Gesù, che ci chiama a comportarci con gli altri come Lui si è comportato con noi.

«amici, fratelli, parenti, ricchi»: con gli amici c’è la ricompensa di un amore corrisposto. Con i fratelli e i parenti non si esce dall’interesse per la propria carne. Con i vicini ricchi c’è la speranza del contraccambio.

«perché non ti invitino a loro volta»: Reale o sperata la reciprocità fa venir meno quel carattere che è di Dio: la gratuità (6,32-38). Sappiamo quanto valga un buon pranzetto al momento opportuno per combinare un affare che in altra sede è meno trattabile. La carità vuole ben altro; essa esige che tutti godano in specie quelli che non possono. La ricerca del contraccambio uccide l’amore!

13 – «poveri, storpi, zoppi, ciechi»: sotto varie vesti è sempre la povertà che emerge; emarginati dalla società, sono anche impediti nell’esercizio del culto (cf Lv 21,16-23). Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare ciò che era perduto (19,10); medico è venuto a guarire i malati (5,31s); la cura che ha è il suo segno messianico (7,20ss).

Da notare come alla quadruplice categoria di preferiti degli uomini (amici, fratelli, parenti, ricchi) si contrappongono quattro categorie di preferiti divini; il numero quattro nella scrittura indica universalità (cf quattro punti cardinali).

14 – «sarai beato…»: quante beatitudini negli Evangeli; vi è anche quella di chi impara ad agire con disinteresse. Ancora l’agire di Dio. Abbiamo ricordato la misericordia divina di 6,32-35, ma c’è anche la frase di At 20,35 (non reperibile negli Evangeli): c’è più gioia nel dare che nel ricevere.

«Riceverai»: passivo indicativo futuro. L’originale greco antapodídōmi (ti verrà retribuito) richiama come già certa la ricompensa dalle mani di Dio (cf passivo teologico).

«la tua ricompensa alla resurrezione dei giusti»: Questa istruzione sulla gratuità del banchetto tocca il centro della vita cristiana, che trova nel dono dell’Eucaristia il suo alimento; chi la osserva appartiene al mondo dei risorti assieme al Figlio. La chiamata degli esclusi è insieme la salvezza messianica (cf 4,16ss) e l’anticipo della realtà definitiva: il nostro essere deificati. I poveri sono presentati come gli intercessori idonei della salvezza dei fratelli.

L’opera di Dio in mezzo al suo popolo, l’opera della sua convocazione alla festa comune non avviene in modo automatico, essa diviene efficace solo quando «tutti ci riconosciamo fratelli intorno alla Sua mensa».

Così recita la II Colletta:

O Dio, che chiami i poveri e i peccatori

alla festosa assemblea della nuova alleanza,

fa che la tua Chiesa

onori la presenza del Signore

negli umili e nei sofferenti,

e tutti ci riconosciamo fratelli

intorno alla tua mensa.

Per il nostro Signore...

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano