Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 26 Marzo 2023

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Domenica “di Lazzaro”

V Domenica di Quaresima A

Gv 11,1-45;  Ez 37,12-14 (leggi 37,1-14);  Sal 129;  Rm 8,8-11

I temi delle precedenti domeniche convergono in felice sintesi nell’odierna celebrazione: Gesù, sorgente dell’acqua viva (III dom.) e della luce (IV dom.), è colui che conferisce la vita a chi crede in lui. Le tre letture sottolineano la medesima realtà: solo la forza dello Spirito fa rifiorire la speranza, scioglie i legami della morte e restituisce la vita in pienezza.  La risurrezione di Lazzaro è ancora segno della realizzazione della nuova creazione e della nuova alleanza promessa da Ezechiele: Gesù freme davanti alla prima creazione, piombata nel disordine, nella morte e nella dissoluzione; la sua passione, morte e risurrezione ad opera dello Spirito, lo proclamerà signore della morte e della vita. La lettura pasquale dell’evangelo di oggi è profetica e attuale per noi che misticamente rinasciamo nello Spirito di Cristo e perciò siamo chiamati a vivere secondo lo Spirito una esistenza nuova: morti al peccato, vivi per Dio (seconda lettura).

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Se la civiltà umana, oggi più che mai lotta disperatamente contro la decadenza e la dissoluzione, oggi la speranza cristiana afferma ancora la possibilità di un mondo nuovo perché la potenza di Dio si è rivelata vincitrice in Cristo. L’Eucaristia, che pur non possiamo celebrare a causa del “divieto” nella lotta al virus Covid-19,  è comunque ancora più che mai celebrazione di una Vita fatta dono, diventa forza di risurrezione se il cristiano ne assimila i contenuti spirituali: farsi, come Cristo, pane spezzato per la vita del mondo.

Il Dio dei cristiani, il nostro Dio, non è «il dio dei morti, ma dei vivi», perciò il suo desiderio e tutto il suo piano di salvezza, consisterà in un lento e paziente lavoro, per riportare la vita laddove l’uomo aveva causato la morte. A quest’opera di nuova creazione, anche l’uomo, però, deve contribuire liberamente e fedelmente. Le letture di questa domenica, ci fanno conoscere il graduale realizzarsi di questo progetto divino: dalla promessa di uno spirito nuovo, che farà risorgere i corpi disfatti, alla risurrezione di Lazzaro, che prelude a quella più misteriosa di Cristo, il quale si manifesta, così, come il signore della vita.

In lui, tutti coloro che crederanno e saranno battezzati, riceveranno il suo stesso Spirito, come principio di vita nuova, che li sospingerà a comportarsi da «uomo spirituale» e non da «uomo carnale».

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La condizione umana è una condizione mortale; ma, secondo la bibbia, non è sempre stato così. La morte, infatti, non è voluta da Dio; fu introdotta nel mondo dall’invidia del diavolo (Sap. 2,24; 1,13; Ger 3,3.19; Rom. 5,12); essa è la pena del peccato (Rom. 1,32). L’uomo era stato chiamato a vivere con tutto il suo essere un rapporto, una relazione speciale col suo creatore. Fatto a immagine e somiglianza di Dio (Ger 1, 27), non era destinato a scomparire nel nulla, ma ad essere «per il Signore». E invece, avendo preferito vivere «secondo la carne», introduce la morte: «Se vivete secondo la carne, morrete» (Rom. 8, 13). Così, dal giorno del primo peccato, la morte domina sovrana su ogni carne.

Dall’eucologia: Antifona d’Ingresso Sal 42,1-2

Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa

contro gente senza pietà;

salvami dall’uomo ingiusto e malvagio,

perché tu sei il mio Dio e la mia difesa.

Nel Sal 42,l-2a, SI l’orante esprime il suo desiderio di Dio, e si sottopone volentieri al suo Giudizio misericordioso (v. 1a; 7,9; 21,1; 1 Sam 24,16), poiché sa che solo dal Signore può ricevere l’ascolto esaudiente. Non dai suoi nemici, che stando lontano dalla santità divina, nelle loro opere malefiche possono solo perpetrare iniquità e dolo mortali contro il pio Orante (v. 1ab). L’appello al Signore è motivato. In tutto questo, trattandosi di salvezza, di scampo dai pericoli mortali prodotti dagli uomini, di sottoporsi al divino Giudizio salvifico, l’orante sa che per lui esiste la sola via che lo porti alla vita, il «Dio suo», il Dio dell’alleanza fedele che interviene sempre in favore dell’alleato minore. Egli è la «Forza sua», l’irresistibile Potenza del Signore Unico, che agisce sempre con Bontà (v. 2a; 30,4). Questa è la premessa per la resurrezione del fedele.

Canto all’Evangelo Cf Gv 11,25.26

Lode e onore a te, Signore Gesù!

Io sono la risurrezione e la vita, dice il Signore,

chi crede in me non morirà in eterno.

Lode e onore a te, Signore Gesù!

Tratto dall’Evangelo di oggi, nel testo ritrova il suo contesto naturale. Esso pone in risalto il tema principale, Cristo la Resurrezione e la Vita, che chiede la fede per donare la Vita eterna. Donerà la vita a Lazzaro sulla fede delle sue sorelle. Si tratta di parole solenni, divine, che creano l’ultima realtà salvifica, la resurrezione, il cui nucleo e caparra sta nell’Iniziazione cristiana.

In questa Domenica, la III degli scrutini dei catecumeni, si presenta dunque il 7° ed ultimo «segno» giovanneo prima della Resurrezione del Signore, Lazzaro resuscitato. Ricordiamo i sette segni o miracoli descritti nell’evangelo di Giovanni:

  1. Cana: 2,1-12;
  2. la guarigione del figlio dell’ufficiale regio: 4,46-54;
  3. la guarigione del paralitico alla piscina di Betzaetà: 5,1-9
  4. la moltiplicazione dei pani e dei pesci: 6,1-15;
  5. il cammino sulle acque: 6,16-21;
  6. la guarigione del cieco nato: 9,1-41;
  7. la resurrezione di Lazzaro: 11,1-45

Si nota a colpo d’occhio che solo due sono in comune con i sinottici:

  1. la moltiplicazione dei pani e dei pesci;
  2. il cammino sulle acque.

Il richiamo che appare evidente è il fatto che la Resurrezione è il nucleo vero, esclusivo del N.T. L’«Evangelo di Dio» è Evangelo della Resurrezione. Si comprende così il grande grido di Paolo: «Se Cristo non fosse stato resuscitato…» (1 Cor 15,14-17), che termina con la proclamazione più alta di tutta la scrittura:«Ma fu resuscitato!» (v. 20).

Da questo, tutti gli altri «segni », e gli stessi sacramenti della Chiesa, derivano e giungono a noi. In tale contesto grandioso va osservato a fondo e compreso il fatto di Lazzaro. In tutto il N.T. si narra di resurrezioni solo 3 volte:

  1. la figlia di Giairo, il capo della sinagoga: Mc 5,21-24 e 35-43; Mt 9,18-19 e 23-26; Lc 8,40-42 e 49-56;
  2. il figlio della vedova di Nain (solo Lc 7,11-17);
  3.  Lazzaro (solo Gv 11,1-45).

Il N.T. vede poi altre resurrezioni, una operata da Pietro (cf. At 9, 36-43), una da Paolo (At 20,7-12). È la promessa esplicita del Signore nel “discorso di missione” “…resuscitate i morti…” (Mt 10,8): anche qui i discepoli proseguono l’opera del Signore.

In effetti, la resurrezione è la più completa teofania del Regno che viene, poiché recupera al Regno gli uomini che al Regno appartengono, e di cui la Morte — dietro cui sta “il Male”, “il Maligno”, “il Nemico”, “l’Inferno”, unica personificazione — tenta di fare la preda sua” (T. Federici).

Ora, la Resurrezione del Signore è il centro dell’Evangelo. Quella di Lazzaro ne è la conseguenza, ma prolettica, anticipata, poiché la Resurrezione, operata dallo Spirito, ottiene l’intera Grazia dello Spirito- il quale spira dove vuole (cf. Gv 3,8), anche già nell’A.T.

I personaggi sulla scena costituiscono un elemento letterario importante per determinare la composizione di questo brano drammatico (Gesù con i discepoli, Gesù con Marta e poi con Maria, compaiono i giudei, la resurrezione di Lazzaro).

Ecco una possibile struttura letteraria e tematica di Gv 11,1-54

A. La resurrezione di Lazzaro

I. La malattia di Lazzaro (11,1-6):

  1. La notizia della malattia e la reazione di Gesù:

a) situazione e presentazione dei protagonisti, 11,1-2;

b) informazione sulla malattia di Lazzaro e dichiarazione programmatica di Gesù, 11,3-4;

c) rapporto di Gesù con la famiglia di Lazzaro e la sua assenza da Betania, 11,56.

II. La morte di Lazzaro (11,7-16):

  • Il dialogo di Gesù con i discepoli (11,7-16):

a) invito di Gesù ad andare in Giudea e reazione dei discepoli, 11,7-8;

b) le ore del giorno e il cammino nella luce, 11,9-10;

c) annuncio della morte di Lazzaro e reazione di Tommaso, 11,11-16.

3. L’arrivo di Gesù nei pressi di Betania e l’incontro con Marta (11,17-27):

a) arrivo di Gesù e reazione delle due sorelle di Betania, 11,17-20;

b) lamento di Marta e promessa di Gesù, 11,21-24;

c) autopresentazione di Gesù e professione di fede di Marta, 11,25-27.

4. L’incontro di Gesù con Maria e i giudei (11,28-37):

a) chiamata di Maria e reazione dei giudei, 11,28-31;

b) incontro e lamento di Maria con Gesù, 11,32;

c) sconvolgimento di Gesù e diverse reazioni dei giudei, 11,33-37.

III. La risurrezione di Lazzaro (11,38-44):

5. L’arrivo di Gesù al sepolcro e la risurrezione di Lazzaro (11,38-44):

a) ordine di Gesù di togliere la pietra e dialogo con Marta, 11,38-4la;

b) preghiera di Gesù al Padre, 1 l,41b-42;

c) chiamata di Lazzaro e ordine di liberarlo, 11,43-44.

B. La condanna a morte di Gesù (Gv 11,45-54)

1. La duplice reazione dei giudei, 11,45-46;

2. La convocazione e decisione del sinedrio, 11,47-53;

3. Il ritiro di Gesù nella città di Efraim, 11,54.57

La presenza di Gesù dall’inizio alla fine dà unità all’episodio, mentre, la varietà degli attori nelle diverse scene conferisce vivacità all’azione drammatica.

I luoghi dove si svolgono i fatti narrati sono utili anch’essi per delimitare i diversi brani che compongono la pericope in esame. La grande inclusione tematica dei vv. 4 e 40, insinua la luce nella quale interpretare il miracolo della resurrezione di Lazzaro; esso è un segno che manifesta la gloria di Dio.

Tutta la pericope sembra racchiusa dal riferimento di questo segno alla gloria di Dio.

Gv 11,4                                               Gv 11,40

Questa malattia non è per la morte,                            Se credi,

ma per la gloria di Dio.                                              vedrai la gloria di Dio.

Con questo prodigio Gesù rivela di essere la Resurrezione e la Vita, non solo proclamando questa verità (v. 25), ma richiamando dai morti l’amico che giaceva nella tomba già da quattro giorni.

Per quanto riguarda il “tempo” in cui è collocato questo segno, si è nell’intervallo tra la festa della Dedicazione (cf Gv 10,22) e la Pasqua giudaica. Ricordiamo che proprio in occasione della festa della Dedicazione Gesù si è presentato come il “buon pastore” che dà la vita per le pecore e non permette che esse siano rapite dalla sua mano, perché gli sono state affidate dal Padre (cf Gv 10,29). Il segno che compirà ora non fa che evidenziare come nessun nemico possa strappare i suoi dalla sua mano, neppure la morte. Nella risurrezione di Lazzaro si mostra la fedeltà del Padre manifestata in Gesù.

I lettura: Ez 37,1-14

Con la conquista e la distruzione di Gerusalemme, compiuta da Nabucodònosor, re di Babilonia, tutte le speranze degli israeliti sono ormai sfumate. La città santa è distrutta, il tempio della gloria di Dio incendiato, la casa di Davide deportata, assieme alla popolazione, in esilio. Tutto è ormai finito.

Su questo desolato quadro, la voce della «sentinella d’Israele» si fa ancora sentire, ma con ben altri toni, ed altri motivi. Il Signore stesso, come un pastore, andrà in cerca dei figli d’Israele dispersi, e lì stabilirà di nuovo sui monti, donde erano stati deportati. Da quegli avanzi del popolo d’Israele, ridotti come ossa senza possibilità di vivere, egli trarrà un popolo nuovo, esuberante di vita.

In questo brano vien messo in evidenza come sia Dio a prendere l’iniziativa, e, dalla morte che Israele si è procurata, farà sorgere miracolosamente la vita. È la sua parola che li farà rivivere. Allora il popolo arriverà a stabilire con Dio una nuova relazione, un rapporto d’amore (Dt. 30,6; Ger. 24,7; 31,31-34). Si tratta di qualcosa di grandioso, somigliante soltanto alla meravigliosa opera della creazione della Genesi. Anch’essa, infatti, sarà compiuta da quello stesso Spirito che «si librava sulle acque» (Gen. 1,2) e che venne infuso nel primo uomo. Ora farà rivivere un popolo intero, un popolo capace di «conoscere» Dio, cioè darà la capacità di orientarsi decisamente verso di lui, per compierne la volontà (cf. Ez. 36,24 ss.).

Per la lunghezza inusuale dell’Evangelo di oggi, la pericope di Ezechiele, che per sé si compone dei vv. 1-14, è stata molto “scorciata”. I versetti mancanti debbono essere inquadrati e riassunti, per comprendere tutto il testo.

Il cap. 36 tratta dunque del recupero del popolo esiliato, non per loro stessi, ma per il solo amore che il Signore ha per il suo Nome. Allora Egli mostrerà la sua Santità tra le nazioni, quando darà un’alleanza nuova al popolo, purificherà il suo cuore con il lavacro mondo, concederà uno spirito nuovo, porrà lo Spirito suo «in mezzo a essi», darà la Legge e la sua osservanza fedele, nella patria, in santità. Il cap. 37 si chiede: come questo avverrà, se il popolo in esilio è un «popolo di morti»? Questo è l’estremo grado d’impurità, che allude al culto degli idoli morti e mortiferi.

Ed ecco la Mano del Signore su Ezechiele, profeta e sacerdote. Lo Spirito del Signore lo porta nella valle piena di ossa aride, che la riempiono, e in essa non si trova alcun vivente (vv. 1-2). E il popolo di morti. Per esso il Signore adesso consegna 5 parole ad Ezechiele.

La prima è una domanda: «Rivivranno queste ossa?» Ezechiele sa che è umanamente impossibile, e risponde: «Tu lo sai» (v. 3). Allora viene la seconda parola: “Profetizza“, e anzitutto così parla: «Ascoltate la Parola del Signore!» (v. 4). Il contenuto è che il Signore porrà lo Spirito suo sulle ossa, e queste riavranno la vita, e conosceranno che Egli solo è il Signore (vv. 5-6). Ezechiele pronuncia la profezia, le ossa si ricompongono con carne, nervi e pelle, ma senza lo Spirito del Signore in esse (vv. 7-8).

Allora il Signore consegna la terza parola. Il Profeta deve pronunciare un’epiclesi a nome del Signore: «Dai quattro venti, vieni, Spirito, e inspira su questi uccisi, e rivivranno!» (v. 9; sul verbo “inspirare”, vedi l’A.T. della Domenica I di Quaresima). Lo Spirito viene, i morti rivivono, e sono un immenso esercito pronto (v. 10). La quarta parola è la dichiarazione di disperazione delle ossa, la casa d’Israele, che non crede più nell’avvenire (v. 11). La quinta parola finalmente è un ordine divino a Ezechiele affinché profetizzi di nuovo quanto il Signore attuerà: Egli aprirà le tombe, come avevano già annunciato i Profeti (Is 26,19; Os 13,14), e ricondurrà i rivissuti in patria (v. 12; 36,24). Da questo essi avranno la conoscenza sperimentale (ebraico jada’ conoscere) che Egli è il Signore. E il segno sarà grandioso. È l’apertura definitiva dei sepolcri e l’estrazione di tutti dalle loro tombe, finalmente come «popolo di Dio» (v. 13). Ma insieme è il dono dello Spirito del Signore dentro i rivissuti, la Comunicazione della stessa Vita divina (36,27). E infine, a completamento del segno, avverrà la stabilità nella patria ritrovata, come dono confermato dal Signore. La formula finale dell’oracolo è di nuovo «e allora voi conoscerete che Io sono il Signore», con la chiusa grandiosa: «Io parlai e feci – oracolo del Signore!» (v. 14), che si può tradurre in diversi modi: «quando Io parlo già opero», «Io parlando attuo», «Io attuo con la Parola». Infatti le 5 parole portano il popolo alla resurrezione. Ma 5 è il numero della pienezza.

Il Salmo responsoriale: 129,l-2.3-4.5-7a.7bc-8, SI

Il Versetto responsorio: «Il Signore è bontà e misericordia. » v. 7, si alterna con i versetti cantando la fiducia nell’Abisso divino di Bontà. Un infelice grida verso il Signore: «Signore, chi ti amerà, se non rimarrà nessun superstite? Il tuo amore, più grande delle mie colpe, se vuole mi può salvare. Io vivo di speranza, come il prigioniero o come la sentinella della notte, in attesa dell’aurora». Questi i sentimenti del peccatore desideroso di perdono. Analoghi a questi i sentimenti di Gesù, il giusto, nell’ora drammatica della sua passione

Questo Salmo celebre, il De profundis, è anche uno dei 15 «canti dei gradini», o «delle salite» (Sal 119-133), forse usato mentre i pellegrini nell’ultimo tratto del loro percorso salivano al tempio. L’Orante, che impersona tutta la comunità, dall'”abisso” non risalibile della sua rovina totale ricorda al Signore, il «Dio suo», che già “gridò”, ossia innalzò la sua voce forte e fervorosa a Lui (v. 1), affinché ascoltasse ed esaudisse la sua richiesta urgente, la sua situazione di disastro non ammettendo dilazioni (Sal 68,3; Lam 3,55). Dall’abisso l’Orante invoca l’Abisso divino di Bontà. Chiede che gli orecchi del Signore (Sal 85,6) si tendano, o meglio, che il Signore si faccia vicino e si curi di sentire il grido del suo fedele che implora (v. 2). Il v. 3 è una confessione e un grido di fiducia. L’Orante sa che il Signore per fortuna non è un dio ragioniere, che tenga la contabilità quotidiana delle iniquità degli uomini (Sal 89,8; 142,2; Giob 9,3), altrimenti degli uomini nessuno sussisterebbe, nessuno sarebbe superstite di fronte alla sempre meritata condanna che non ha discolpa (Sal 75,8; 142,2; Na 1,6; Ap 6,17), Il giusto giudizio divino cadrebbe come una folgore annichilatrice. Infatti il Signore trascura le colpe, se ne dimentica, non ne tiene conto, le annulla (Ger 31,34). Il che non è un invito a peccare di più. Al contrario, è un’ammonizione, dato che il peccato fa precipitare di più nell’abisso della condizione umana prevaricatrice, e sempre bisognosa di aiuto divino. L’Orante sa bene che il Signore conosce solo una condizione, quella d’essere e di mostrarsi propizio (Sal 85,15; Is 55,7; Dan 9,9; Rom 6,3), il che avviene quando il fedele ne prende coscienza, convertendosi a Lui (v. 4a). Per questo l’Orante aderisce con il cuore alla santa Legge del Signore, ed è fervido adoratore e annunciatore del suo Signore (Sal 39,2; Is 8,17; 26,7), fedele all’alleanza (v. 4b). Anzi la sua vita intera (l’anima) dipende dalla sua divina Parola (v. 4c; Sal 118,74.81; anche 32,20). Infine, la sola sua speranza è il Signore (v. 5). Tale speranza è estesa a tutto Israele, il quale deve attendersi tutto dal Signore, più della tensione che hanno nel loro turno le sentinelle dell’alba, e fino alla sera (Sal 5,4-5), senza cedimenti, come ha sperimentato tante volte (v. 6; Sal 130,3). Qui il testo ebraico, non compreso per una volta da quello greco e latino, ha un bellissimo gioco di parole: «l’anima mia è tesa nella speranza al Signore, più che gli attendenti l’alba (le sentinelle) siano attendenti l’alba», con un’assonanza splendida: «mi-šomerîm la-boqer šomerîm la-boqer»; molti autori moderni, senza comprendere il semitismo di questa perla, amputano come fosse ripetizione la seconda parte dell’espressione, e le loro versioni sono inespressive e zoppe.

La motivazione della speranza segue al v. 7, che presenta un parallelismo. La Misericordia, che è il contenuto dell’alleanza, sta solo presso il Signore (v. 7a). Presso Lui sta solo redenzione per il suo popolo (v. 7b; Sal 24,22; 110,9; Tob 2,14; Mt 1,21; Lc 1,68), ma questa è sovrabbondante (Is 55,7; Sir 5,6). E dona la redenzione al suo Israele, nonostante le sue iniquità (v. 8). L’abisso della miseria e della morte si è accostato così all’Abisso della Grazia e della Vita, e non è stato respinto. La Misericordia e la Redenzione sono attuate nella Resurrezione del Figlio anche per tutto il popolo di Dio.

Esaminiamo il brano

vv. 1-2 Il brano inizia con un frase di sapore biblico (v. 1) che troviamo frequentemente nell’A.T.[1]

Lazzaro di Betania, Maria e Marta: il rimando obbligatorio è all’unico luogo dove conosciamo le due sorelle (Lc 10,38-42), dove tuttavia Marta appare come capofamiglia, e non si menziona Lazzaro.

«Betania»: si trova a meridione di Gerusalemme, distante circa 15 stadi cioè 3 Km. (v. 18); diverse sono le spiegazioni di questo nome: bèt hînî = casa dei datteri; bèt ‘ànjjà = casa di Anania; il senso di «casa dell’amicizia» è una pura invenzione di pii autori, in riferimento all’amicizia e ospitalità offerta a Gesù da Lazzaro, che vi abitava.

Lazzaro noto solo al quarto evangelista è ricordato anche nei brani immediatamente seguenti (Gv 12,ls. 17.); sicuramente benestante (potè offrire una cena al maestro, Gv 12,lss) e stimato (vedi i giudei venuti per il suo funerale), non può essere identificato con il personaggio della parabola di Lc 16,19-31. Il nome «Lazzaro», forma greca dell`Ebr. Eleazaro (‘el ‘àzàr = Dio aiuta), era abbastanza comune ai tempi del N.T.

«Maria»: ebr. mirjam, aramaico màrjam: di origine incerta; la forma ebr. deriva o dall’egiziano mr’ (essere amato) o da ra’a (= vedere = la veggente); la forma aramaica deriva forse da mara’ (= signora) e significherebbe la signora. «Marta»: dalll’ebr. marta = signora. La figura di Maria primeggia fra le tre, anzitutto è nominata prima di Marta, Lazzaro è detto “suo fratello”, lo stesso evangelista ci rimanda all’episodio dove è protagonista (12,1-11).

v. 3 «Quello che tu ami» (nella vecchia CEI tradotto con il tuo amico): i messi utilizzano il verbo «philéó», che indica «l’amore d’amicizia» o «amore di dilezione». (vedi anche Gv 11,36).

Gesù risponde al V. 5 con un verbo più pregnante «agapàò» che nel N.T. viene usato sovente per indicare l’amore di Dio per gli uomini. È ancora con questo stesso amore che siamo chiamati a corrispondere (cfr Gv 21,15ss).

v. 4 Qui ha inizio il comportamento apparentemente “ambiguo”, “strano” di Gesù; ai messi risponde in modo per loro incomprensibile. L’affermazione solenne di Gesù, simile alla risposta sulla causa della malattia del cieco nato è la chiave teologica ed esegetica del segno.

«ma per la gloria di Dio» non significa semplicemente «perché sia glorificato il Signore», ma per rivelare la potenza salvifica di Dio nel Figlio, affinché egli sia glorificato. La gloria del figlio è infatti la gloria del Padre (cf Gv 5,23; 17,1.4-5).

vv. 5-6  Pur manifestando il suo amore per i tre fratelli (lo comprese anche la folla, v. 36) non si precipita al capezzale di Lazzaro morente, ma “si trattenne” due giorni nel luogo dove si trovava. Il comportamento ha davvero dell’incredibile, ma rivela un motivo superiore[2]; del resto così aveva agito per la festa delle Capanne (7,6.8). Era necessario, come si saprà poi, nel seguito degli eventi.

vv. 7-10 Deciso ora a partire convoca i discepoli, che stupiti gli ricordano timorosi il pericolo cui va incontro. I capi infatti per ben due volte avevano minacciato di lapidarlo (cf Gv 8,59; 10,31 e 39). Gesù coglie l’occasione per ribadire diversi concetti: quello del “giorno” e quello del “sonno”, metafore usate per indicare rispettivamente la vita e la morte. La breve parabola del giorno è analoga a quella che Gesù pronuncia prima della guarigione del cieco nato: Gesù paragona la sua vita terrena ad una giornata di 12 ore (si richiama il computo delle ore nella Palestina al tempo di Gesù).

II detto del v. 10 è facilmente interpretabile se consideriamo Cristo la Luce vera: l’occhio da solo non può vedere; chi si ostina nelle tenebre dell’incredulità inciampa perché la fede non è in lui (cf Mt 6,22-23).

vv. 11-13 I discepoli non comprendono la metafora del “sonno” perciò l’evangelista spiega che Gesù parlava del sonno della morte. Abbiamo qui un ennesimo esempio di equivocità voluta, con la quale è insinuata una verità molto importante nell’economia del racconto: per il Figlio di Dio la morte è un semplice sonno. Il cristo con una parola può svegliare da questo stato e ridonare la vita. Gesù tralascia di spiegare l’equivoco dei discepoli sul sonno-morte poiché saranno essi stessi testimoni dell’evidenza.

vv. 14-16 Gesù ci ripensa e torna sull’argomento senza enigmi annunciando che Lazzaro è proprio morto e che la sua felicità non è per la morte ma per la fede dei discepoli che seguirà alla resurrezione.

Le reazioni dei discepoli sono sempre impetuose; Tommaso intuisce che si tratta di qualcosa di grave, tuttavia si lancia con generosità ed esorta i confratelli, proprio lui che dubiterà della resurrezione del Signore stesso. Ma intanto lì è un generoso; come Pietro (13,37).

vv. 17-20 Gesù giunge a Betania dopo che Lazzaro è ormai morto da ben quattro giorni. L’osservazione del tempo trascorso, dal momento della morte riveste grande importanza nell’economia del segno: la speranza della resurrezione «al terzo giorno», come annunciava la profezia (cf Os 6,1-2), è svanita per sempre. Secondo la mentalità giudaica, nel quarto giorno dalla morte l’anima aveva abbandonato definitivamente il cadavere, mentre si riteneva che nei primi tre giorni aleggiasse attorno al corpo esanime. Nessuno poteva quindi dubitare della morte vera di Lazzaro; il suo cadavere infatti iniziava già a decomporsi (v. 39).

La narrazione adesso si concentra sui due incontri di Gesù con Marta e poi con Maria; Marta è attiva come al solito, Maria sta seduta in casa (è la conferma di Lc 10,38-42).

Da ricordare tuttavia che il costume voleva che le donne tenessero compagnia agli ospiti, in casa, sedendo per terra in segno di lutto; il lamento funebre si svolgeva all’aperto, nel cortile, non dentro casa, dove invece si osservava un completo silenzio.

vv. 21-24 Marta alla presenza di Gesù sfoga il suo dolore; quasi lo aggredisce, sia pure con rispetto; lo chiama infatti Signore e riconosce con fede incrollabile la potenza del Maestro, anche se non osa chiedere il miracolo. Gesù la rassicura, ma la risposta della donna evidenzia l’equivoco giocato dal futuro «risusciterà»: Gesù lo intende come un evento di prossima realizzazione, mentre Marta lo riferisce all’ultimo giorno della storia (coerentemente con quanto dicevano le scritture: cf il già citato Os 6,1-2; Ez 37,1-14 la 1a lett.; Dn 12,2-3).

vv. 25-27 Comprendendo l’errore della donna Gesù proclama esplicitamente: «Io sono la Resurrezione e la Vita…».  L’«Io sono» è la formula della divinità, che rimanda ad Es 3,14. Gesù sollecita la fede, sapendo che Marta risponderà positivamente. È la risposta, puntuale e pronta, è completa: ho creduto e continuo a credere che «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, il Veniente nel mondo».

vv. 28-34 Segue l’incontro con Maria, l’altra sorella e con la folla dei giudei. Qui ancora un equivoco da modo a Gesù di annunziare la salvezza a molta più gente. Marta ha svolto l’ambasciata in gran segreto, perciò i giudei presenti in casa non capirono la ragione vera dell’allontanamento di Maria. Essi pensarono che andasse al sepolcro per piangere sulla tomba del fratello, perciò la seguirono.

Maria come il cieco illuminato, come Giàiro (Mc 5,22), il lebbroso samaritano (Lc 17,16), cade ai piedi di Gesù per adorarlo, perché riconosce in lui una persona divina.

vv. 35-37 Giovanni annota la reazione di Gesù che vede Maria e gli amici nel pianto: «fremè nello Spirito e fu sconvolto»: Il verbo usato per «fremette» il gr embrimáomai esprime ordinariamente indignazione ed ira (vedi anche v. 33 cf Mc 14,5 la donna dei profumi di betania; nelle guarigioni di Mc 1,43 e Mt 9,30); ma contro chi?

È l’incredulità dei giudei (Mc 8,12) o la poca fede di Maria, oppure la realtà della morte a toglierli la serenità? Gesù non è un essere impassibile: dinanzi alla tragedia della morte è sconvolto (cf Gv 12,27; nel Getsemani Mc 14,33 annota «cominciò a sentirsi oppresso dallo spavento e dall’abbattimento»); l’ostinazione nell’incredulità lo irrita (cf Mc 3,5). La partecipazione al dolore delle sorelle e degli amici, ed allo stesso dramma di Lazzaro, travolge per intero il Signore. Il pianto del Signore suscita reazioni contrastanti: alcuni giudei si accorgono dell’amore (con philéó) di Gesù per Lazzaro, altri sarcasticamente rilevano che il guaritore del cieco nato avrebbe dovuto far sì che Lazzaro non morisse.

Interessa a questo punto annotare le 3 volte in cui Gesù è turbato, e piange (vv. 33.35.38). È l’unica narrazione evangelica del pianto del Signore. Ma così Giovanni vuole insegnare ai fedeli che la Vita immortale, la Resurrezione irresistibile e vittoriosa, il Creatore della vita, la Santità immacolata contro cui il morso impuro e maledetto della Morte nulla può, Egli davanti alla morte freme, è sconvolto, piange, ha paura. Un Dio ariano e monofisita sarebbe solo impassibile, immutabile, inattingibile. E questo il Signore nostro e Dio nostro, lo è. Ma è anche incarnato, e la sua Persona divina ormai sussiste tutta e per intero anche nella sua Umanità, la quale sussiste tutta e per intero nella sua propria Divinità, senza confusione, senza mutazione, senza divisióne, senza separazione. Questo Dio vero Uomo vero si trova adesso di fronte alla Morte, all’”ultimo Nemico” che deve essere distrutto (cf. 1 Cor 15,26), ma a costo di una Battaglia dove il Dio incarnato si presenta nella sua disarmante innocenza, offrendosi, la Santità, alla stretta mortale dell’Orrore impuro, contaminante. La letteratura dell’antico Oriente ripete il tratto dell’eroe invincibile, che di fronte al nemico, pur sapendo di vincere perché quello è vulnerabile, trema e vorrebbe ritirarsi. Anche se non esiste derivazione diretta, il terrore della Morte è narrato dai Sinottici nella scena del Getsemani, ed è alluso da Giovanni nell’incontro del Signore con i Greci (cf. Gv 12,27)”

Il N.T., ispirato dallo Spirito Santo, non nasconde il terrore, lo sconvolgimento, il pianto del Signore. Egli che ha detto molte volte al sofferente: “Non piangere”, e al terrorizzato “Non avere paura”. Anche fuori degli Evangeli restano i forti echi di questo, che sottolineano il realismo storico dell’Umanità del Signore nostro, “in tutto tentato come noi, in tutto simile a noi — escluso il peccato” (cf. Ebr 4,15).

Dalle sue indicibili Sofferenze “imparò”, ossia fece la perfetta esperienza di quello che significa l’obbedienza devota totale al Padre, nell’esercizio perfetto del Sacerdozio, la cui pienezza terrena si consuma  nell’ “obbedienza” alla Croce (cf. 1’ “inno dei Filippesi”, Fil 2,6-11).

Il tremare davanti alla morte non deve essere rimosso, sarebbe menzogna, e poi sarebbe impossibile vista anche la presenza nella preghiera liturgica[3]. Là, dove non tremò Adamo davanti all’operazione che gli avrebbe procurato amara morte, tremò l’Adamo Nuovo davanti all’operazione eguale e contraria, che a Lui ed a noi avrebbe procurata la Delizia della Vita divina. Così si esprime un grande Padre orientale, “l’arpa dello Spirito Santo”, S. Efrem il Siro:

Se Adamo morì a causa del peccato (Gen 3,22-23), si doveva che Colui che si caricò del peccato (Is 52,13 – 53,12; Gv 1,29.36) assumesse anche la morte (Fil 2,6-11; Rom 8,3; Gal 3,13; 2 Cor 5,21). Sta scritto: ‘Nel giorno che mangerai, tu morirai’ (Gen 2,17). Ma il giorno che mangiò non morì. Solo, come caparra della sua morte, fu spogliato della sua Gloria (Gen 3,7), espulso dal Paradiso (Gen 3,23-24). E ogni giorno egli pensava alla morte — così anche noi, mangiando la Vita che sta in Cristo (Rom 8,9): il Corpo di lui (1 Cor 11,26) invece dei frutti dell’Albero (Gen 2,16-17), l’Altare di lui invece del giardino dell’Eden (1 Cor 9,13, 10,20-22; Ebr 13,10), e fummo lavati dalla maledizione (Gal 3,13; 1 Cor 6,9-11) dal suo Sangue giusto (Ap 1,6; 7,14; Ebr 9,14; 1 Gv 1,7; cf. Mt 23,35). E noi nella speranza della resurrezione (Rom 8,23-25; At 23,6), attendiamo la Vita futura (1 Tim 4,8), e già adesso nella Vita nuova (Rom 6,4) noi procediamo (Col 3,3-4), poiché quelle Realtà sono Caparra per noi (2 Cor 1,2; 5,5; Efes 1,14) (Ephrem de Nisibe, Commentaire de L’Evangile concordant ou Diatessaron 21,25, in SChr 121, Paris 1966, p. 388 – Trad. Prof. T. Federici).

vv. 38-44 L’osservazione di Marta ottiene lo scopo di sottolineare la grandiosità del miracolo.

«Togliete»: l’imperativo aoristo positivo ordina di dare inizio a un’azione nuova.

«Gesù alzò gli occhi e disse»: è l’azione sacerdotale, cf anche Gv 17,1; Mc 7,34; Mt 14,19, e la preghiera intensa. È un rendimento di grazie, forse strano perché elevato prima che avvenga il fatto; Gesù lo vede come già avvenuto!

È 1’«eucarestia» perché il Padre ascolta sempre il Figlio.

Il Figlio lo sa bene (Mt 26,53).

«gridò a gran voce » Gesù aveva preannunciato che i dormienti nel sepolcro avrebbero ascoltato la voce del Padre, che è il Figlio (cf Gv 5,28-29), adesso uno solo, poi tutti i dormienti.

La voce è così potente che «il morto» esce con ancora avvolte le mani e i piedi da bende e con il sudario sul volto.

«scioglietelo»: l’imperativo aoristo positivo ordina di dare inizio a un’azione nuova. Il «segno» è compiuto, nulla è lasciato di ciò che naturalmente ci aspetteremmo: un saluto o una domanda al resuscitato. Tutto rimane immortalato nella solennità, come di solito accade negli evangeli, il racconto di questo prodigio arriva alla sua pratica conclusione senza cercare minimamente di soddisfare inutili curiosità su dettagli accidentali. Resta solo il Segno che dà senso agli altri 7 «segni», la Resurrezione di Cristo.

v. 45 – «Molti dei Giudei…»: Il testo liturgico si ferma all’immagine di molti che si lasciano interpellare da questo gesto e cominciano ad aprirsi alla fede in Gesù, il testo biblico prosegue indicando che altri, proprio per questo, decidono la morte di Gesù. Qual è la nostra posizione?

Antifona alla Comunione Gv 11,26

«Chiunque vive e crede in me,

non morirà in eterno », dice il Signore.

Dopo la Comunione

Dio onnipotente,

concedi a noi tuoi fedeli

di essere sempre inseriti

come membra vive nel Cristo,

poiché abbiamo comunicato

 al suo corpo e al suo sangue.

Per Cristo nostro Signore.

Nell’antifona alla comunione (Gv 11,26) e nella preghiera del dopo comunione si ricorda che noi, i fedeli, abbiamo ricevuto la vita e la fede nel Signore. Noi siamo strappati via dalla morte eterna. Non più per la morte. Abbiamo ricevuto «oggi qui» la Parola della Vita e della Resurrezione. Abbiamo “celebrato” «oggi qui» alla Mensa della Resurrezione e della Vita. Facciamo parte come membra vive della Chiesa Madre, la Comunità della Vita e della Resurrezione. Così lo Spirito Santo ci pone in comunione con Cristo Risorto, «la Resurrezione e la Vita». Comunione fedele, efficace. Inizio della divinizzazione eterna, il vero statuto costitutivo dei discepoli del Signore.

Il compito del cristiano è tutto qui: una vita vissuta insieme, per andare con il risorto, oltre la morte. Quando si è scoperto che la vita è una sorte affidata a tutti, allora si comincia a vivere assieme, cioè ad amare; e quando si ama, un popolo è già nato. La chiesa è tutta in questa scoperta: la vita ci unisce in un solo destino di risurrezione.

La chiesa è un popolo che si avventura nella vita oltre la morte: la pasqua è la festa dell’unità nello Spirito! E oggi tutto questo come cristiani nella prova dobbiamo viverlo ed annunciarlo a gran voce! Cristo è Risorto! E’ veramente Risorto!

I Colletta

Vieni in nostro aiuto,

Padre misericordioso,

perché possiamo vivere e agire sempre

in quella carità,

che spinse il tuo Figlio

a dare la vita per noi.

Egli è Dio…


[1]          – cf. Gdc 19,1; 1 Sam 1,1; Est 2,5; Gb 1,1

[2]          – Cfr. lett. Patristica per l’Ora dell’Ascolto, tratta dai «Discosi di san Pietro Crislogo, vescovo. Dall’archivio del nostro sito Lettura patristiche V Dom.Quaresima 2011.

[3]          Nuova colletta:

            Eterno Padre, la tua gloria è l’uomo vivente;

            tu che hai manifestato la tua compassione

            nel pianto di Gesù per l’amico Lazzaro,

            guarda oggi l’afflizione della Chiesa

            che piange e prega per i suoi figli morti a causa del peccato,

            e con la forza del tuo Spirito richiamali alla vita nuova.

            Per il nostro Signore Gesù  Cristo…

            Prefazio:

            Vero uomo come noi, egli pianse l’amico Lazzaro;

            Dio e Signore della vita, lo richiamò dal sepolcro;

            oggi estende a tutta l’umanità la sua misericordia,

            e con i suoi sacramenti ci fa passare dalla morte alla vita.

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano