Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 24 Luglio 2022

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DOMENICA «DEL PADRE NOSTRO»

«Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Gli apostoli si rivolgono a Gesù come a un maestro di preghiera, perché riveli loro il suo segreto. Noi siamo altrettanto curiosi di conoscerlo, perché «nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8,26). Ascoltiamo dunque che cosa ci dice il Cristo in proposito. «Chiedete… cercate… bussate»: questi verbi sottolineano l’insistenza dell’invito a pregare con la certezza di essere esauditi. Se si persevera un poco, si è sicuri di ottenere, di trovare, di veder aprirsi la porta. Soprattutto, non bisogna scoraggiarsi. La preghiera è in primo luogo una lunga pazienza, che finisce con l’ottenere quello che desidera. Ma non qualsiasi cosa. Se un padre terreno, con tutti i difetti che può avere, dà ai suoi figli soltanto cose buone, a maggior ragione il Padre celeste non mancherà di dare a coloro che glielo chiedono il suo bene più prezioso: lo Spirito santo. Ecco ciò che dobbiamo desiderare, come il gruppo degli apostoli riuniti nel cenacolo dopo l’ascensione.

Illuminandoci sulla risposta che Dio dà alla preghiera, Gesù ci aiuta nello stesso tempo a comprendere meglio la preghiera stessa. Pregare non significa imporre a Dio la nostra volontà, ma chiedergli di renderci, disponibili alla sua, al suo progetto di salvezza per il mondo. Pregare non è pretendere di cambiare Dio, ma chiedergli di cambiarci, di formare in noi uno spirito filiale. Non a caso la seconda domanda del Padre nostro, «Venga il tuo regno», in una variante molto antica suona come segue: «Venga su di noi il tuo Spirito, e ci purifichi». Il segreto della preghiera di Gesù consiste nel parlare delle cose che interessano al Padre, collocandosi nella propria condizione filiale.

Dall’eucologia:

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Antifona d’Ingresso Sal 67,6-7.36

Dio sta nella sua santa dimora;

ai derelitti fa abitare una casa,

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e dà forza e vigore al suo popolo.

Nell’antifona d’ingresso (dal Sal 67,6-7a.36bc, AGC) il salmista ci parla del Signore che regna e guida dal suo santuario, dove abita nella sua invisibile e imperscrutabile Presenza (v. 6b), e da dove raduna il suo popolo, altrimenti disperso, affinché dimori compatto nella sua Casa (v. 7a). Di qui Egli concede la forza (28,11) e la potenza di vivere al popolo della sua alleanza (v. 36bc). In questa situazione il suo popolo oggi Lo celebra.

Canto all’evangelo Rm 8,15

Alleluia, alleluia.

Avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi,

per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!

Alleluia.

Rom 8,15 è il grido e l’invocazione degli iniziati dallo Spirito Santo a Cristo Signore Risorto e al suo Mistero: «Abba – Padre!» (vedi anche in Gal 4,6), che esprime insieme l’amore filiale, la fede, la fiducia e la speranza, nella pazienza. Noi fedeli lo ripetiamo ogni volta che, obbedendo al nostro Signore e Maestro, preghiamo il «Padre nostro».

Come si è visto a partire dalla Dom. XIII, Gesù «sale a Gerusalemme» per il lungo itinerario narrato solo da Luca (9,51-19,28) attuando il suo programma battesimale con lo Spirito Santo. Meta ultima è la Croce, ma anche la Resurrezione.

La pericope della Domenica «del Padre nostro», XVII del Tempo Ordinario C, offre un nuovo scenario con un ricco materiale, che comporta il «Padre nostro» e una ripetuta catechesi sulla preghiera.

L’episodio precedente, l’incontro di Gesù con Marta e Maria, presentava la Parola di Dio come «la parte buona che non sarà più tolta» a chi l’ascolta, l’accetta e la pone in opera. L’episodio che segue immediatamente ha come centro la medesima “Parola” che deve diventare anche preghiera.

Gesù sta pregando. Luca più degli altri evangelisti ci presenta Gesù come il grande e instancabile Orante. I discepoli dopo aver atteso che finisse, gli rivolgono una delle richieste più importanti e decisive di tutta la Scrittura e dell’intera vita di fede: «Signore, insegnaci a pregare».

La preghiera, infatti, dice realmente che tipo di relazione viviamo con Dio e con gli altri:

  1. l’intercessione di Abramo con Dio (I lettura) è una delle pagine più belle e commoventi dell’AT; nel suo ardire Abramo, giusto e retto, svela il suo cuore ed esprime il grande amore per l’umanità anche se corrotta e peccatrice.
  2. nel salmo 137 (azione di grazia comunitaria) il salmista prega esprimendo la sua condizione che è di totale disposizione verso il suo Signore. Nella sua fede e fiducia egli sa che il Signore lo difenderà con efficacia contro i nemici più incombenti e accaniti: «Nel giorno in cui ti ho invocato mi hai risposto» (v. 3a, il versetto responsorio).
  3. nel brano evangelico Gesù esprime la sua relazione-rapporto con Dio chiamandolo Padre; Gesù è venuto a insegnarcelo perché Dio vuole che tutti gli uomini siano rigenerati alla dignità di figli.

Nella I lettura, Gen 18,20-32, Abramo, Padre nostro nella fede, ha ricevuto dal Signore la Promessa della benedizione universale, per sé, per la sua discendenza, per tutti i popoli (Gen 12,1-3). Poi questa unica e irreversibile Promessa gli è confermata, e come sigillata dalle alleanze che il Signore gli rinnova (cap. 15 e 17), e poi dalla visita dei Tre Personaggi (18,1-10; vedi Domenica scorsa). Nel brano di oggi Abramo “visita” lui il misterioso «Signore suo» (v. 22), il Dio della sua alleanza e si assiste in una scena tipicamente orientale a un mercanteggiare, in senso proprio, con la trattativa ripetuta, estenuante per «far scendere il prezzo». Un divino mercato, in quanto il divino Mercante nella sua misericordia vuole che Abramo si faccia mercante, vuole saggiare la sua fede e la sua perseveranza, disposto sempre, come è, a ogni concessione, anche umanamente irragionevole.

Ora, questo singolare mercanteggiare si svolge sulla vita e sulla morte di altri. Il Signore vuole punire l’infamia di Sodoma e Gomorra. Ma vuole per così dire il consenso del suo amico Abramo, e non procederà senza informarlo, perché con la benedizione (12,1-3) lo ha costituito capo e responsabile di tutte le nazioni della terra (vv. 17-18). E conosce Abramo, sa che è giusto e retto, e opera giustizia e rettitudine, e quindi deve ottenere quanto chiede, perché è stato deputato come capo di un popolo che deve agire secondo «giustizia e giudizio», due termini che indicano il primo la carità verso tutti, e il secondo l’intervento soccorritore verso tutti che da essa deve conseguire (v. 19).

Perciò il Signore si premura di informare Abramo che deve scendere ad accertarsi se il grido dell’infamia giunto a Lui dalle città di perdizione sia vero (v. 20-21). I Tre Personaggi vanno (18,16), ma Abramo sta ancora con essi (v. 22). E comincia la trattativa. Essa si estende per i vv. 23-32, ha 6 fasi, numero simbolico di incompletezza; e di fatto, quella trattativa, positiva in sé, solo per colpa delle due città prevaricatrici e ostinate a nulla porterà, nonostante che si siano incontrate e abbiano concordato due buone volontà, del Signore e di Abramo.

Abramo comincia chiedendo al suo Signore che se si trovano in quei posti aborriti e dannati almeno 50 giusti, allora il Signore per amore di quei 50 di certo farà grazia a tutti gli altri, i prevaricatori. Infatti, i 50 giusti sono costituiti automaticamente come il “resto” che per la legge della solidarietà salva la massa. Abramo parte abilmente da 50, che è uno dei numeri che esprime la pienezza. Tuttavia, da buon orientale, diffida della validità della sua proposta, conoscendo la malvagità e la corruzione delle due città, e così si garantisce. Via via prolunga l’estenuante trattativa «scendendo di prezzo». Chiede che il Signore usi misericordia anche se in fondo troverà 45 giusti, o anche 40, oppure 30, e sia pure 20. Ogni volta ottiene l’assenso del Signore. Ma Abramo ancora diffida della consistenza finale della sua proposta, e allora, insistendo per l’ultima volta, chiede che per soli 10 giusti sia fatta misericordia. I numeri sono tutti multipli di 5, e nelle moltiplicazioni successive per 9, per 8, per 6, per 4, per 2, sono tutti multipli di una “pienezza” che dovrebbe trovare qualche spazio, anche se calante, e quindi offrire la speranza alla grande carità e premura del Patriarca. Va poi notato che il numero 10 per gli Ebrei è il minjan, il numero minimo di fedeli adulti e circoncisi per formare una valida assemblea di preghiera davanti al Signore, e ottenerne la grazia.

La vicenda si sa che finisce con zolfo e fuoco su Sodoma e Gomorra (Gen 19,12-25), perché in esse non esiste neppure un giusto. E l’unico ad essere salvato è Lot, il nipote di Abramo, uno straniero (19,26-29). Abramo nella sua preghiera si appella alla giustizia di Dio e degli uomini. La giustizia di Dio salva Lot che si era opposto con la sua giustizia al peccato della città dove viveva, come ci dice il racconto biblico. Sodoma è distrutta per la sua ingiustizia e quello che salva davvero Lot è la misericordia di Dio! Abramo aveva chiesto a Dio giustizia: non era il caso d’invocare invece la misericordia?

Ma l’episodio è emblematico per la fede di Abramo, e per la sua familiarità con il Signore e del Signore con lui, che fonda la totale fiducia del Signore per Abramo, il suo Amico (2 Cron 20,7; Gdt 8,22; Is 41,8; Dan 3,35; Giac 2,23), e la sua totale fiducia dell’Amico per il suo Signore. Questa fede e familiarità e fiducia debbono essere anche quelle dei suoi figli nelle generazioni. Per questa fede Abramo insiste in modo così pertinace, con tanto zelo per il prossimo. E il Signore gli concede quanto egli desidera, come gli ha promesso fin dall’inizio.

La preghiera accorata di Abramo è il tipo, significante ed efficace, di quella che sarà del Figlio suo secondo la carne, Gesù Cristo (Mt 1,1), il Figlio della Promessa (Gal 3,16), il Figlio Monogenito di Dio. Questa preghiera per tutti gli uomini sale al Tribunale della Maestà divina.

Anche la più insistente delle preghiere che il Padre «nel segreto» accetta sempre (Mt 6,6), andrà a effetto solo se l’oggetto umano a favore del quale si prega collaborerà liberamente, e con la grazia donatagli si fa soggetto. In altri termini, le Sodoma e Gomorra di ieri, e di oggi, debbono poter esibire al Signore almeno il fiore puro di 10 giusti, che nell’amicizia con il Signore hanno la potestà di moltiplicare all’infinito la grazia sovrana. Allora lo Spirito Santo, la divina Misericordia, potrà sanare ogni piaga con il suo Fuoco divino purificante, rigenerante, vivificante.

Abramo si arresta al numero 10 e Dio gli da ancora ragione. Non scende più in basso perché l’autore che mette le parole sulle labbra di Abramo è bloccato dal collettivismo e non sa apprezzare, come l’autore del servo di Yahveh, quell’unico giusto che può salvare tutti (Is 53). Tuttavia Abramo è l’uomo che, con un linguaggio coraggioso, si pone davanti a Dio per cercare la benedizione in favore d’una umanità che, col suo peccato, è in condizione di essere maledetta. Abramo agisce secondo la sua vocazione iniziale: «Perchè in te siano benedetti tutti i popoli della terra».

Il Salmo responsoriale (Sal 137,l-2a.2bc-3.6-7ab.7c-8, AGC) è stato usato anche nella Domenica V di questo Tempo. Il versetto responsorio: Nel giorno in cui ti ho invocato mi hai risposto (v. 3a), chiede al Signore che il fedele orante sia sempre esaudito. Il salmista inizia emettendo un voto, l’espressione di fede e fiducia nel Signore: con tutto il suo essere, il cuore, vuole celebrarlo, perché gli è grato, Egli ascolta sempre le parole della sua preghiera (v. 1ab; 9,2; 101,1). Il proponimento è di cantare al Signore i Salmi e non altri pur degni canti (non le canzonette melense che spesso si usano oggi nelle celebrazioni), unendosi da una parte agli Angeli adoranti (v. 1e), dall’altra a tutta l’assemblea del popolo, che si raduna nel santuario della divina Presenza e Santità (v. 2a; 5,8; 27,2).

Il motivo della celebrazione del Nome divino è la misericordia e la fedeltà, la “verità” biblica, poiché il Signore, il Fedele, ha manifestato la Parola sua al di là di ogni parola umana, e da essa ha sempre tratto effetto. Di questo l’Orante gli rende grazie di cuore (v. 2). Per questo si fa ardito per innalzargli un’epiclesi per l’ascolto e l’esaudimento divino, ogni volta che si dirige al suo Signore. Così verrà nell’anima del Salmista forza e vigore (v. 3).

La certezza di questo porta adesso l’Orante ad affermare che l’efficacia della Parola divina è tale, essa ha tale potenza vocazionale missionaria, che perfino i lontani re delle nazioni pagane verranno a celebrare il Signore, divenuti obbedienti al richiamo divino (v. 4). Essi infatti ascoltarono (Is 2,3), talvolta a preferenza dello stesso popolo di Dio (anche Sal 71,11; 101,1,6; 16,22.23). Essi canteranno laudanti «le Vie del Signore», i suoi comportamenti misericordiosi (v. 5a), che Egli non tiene nascosti, ma rivela a chi Lo teme (Sal 102,7), poiché la Gloria divina è grande, visibile, si fa sperimentare (v. 5b).

L’Orante proclama adesso che il Signore è infinitamente eccelso, irraggiungibile, invisibile (Sal 130,1; Pr 3, 34; Lc 1,48; Giac 4,6; anche Sal 112,4-7). Però gli uomini non debbono «fare come se» Egli fosse assente. Poiché dalla sua indicibile Trascendenza il Signore, il Sovrano dell’universo che ha creato, guarda sempre le realtà che ha creato, che ama sempre e che mai abbandona. Appunto per questo, tali realtà, benché infinitamente più in basso di Lui, tuttavia sono oggetto anche della sua continua cura (v. 6a). Non solo, ma nessuna delle realtà più alte gli sfugge. Egli che vive e sussiste nell’infinito, vive e sussiste anche in ogni luogo creato, e conosce ogni realtà già da sempre e da lontano, oltre che dall’infinitamente vicino (Sal 17,28).

Nella sua fede e fiducia, il Salmista manifesta la sua condizione, che è di totale disposizione verso il suo Signore. Egli sa che le tribolazioni lo assalgono da tutte le parti, che ingombrano e appesantiscono il cammino della sua vita. Però sa d’altra parte che il Sovrano della Vita lo scampa comunque dalla morte (Sal 22,4; 70,20) (v. 7a). In particolare, il Signore lo difende con efficacia contro i nemici più incombenti e più accaniti, quelli all’interno della comunità stessa, e come fece esemplarmente all’esodo per tutto Israele (Es 15,5), distenderà sempre la sua Mano potente e salvatrice (v. 7b; Pr 31,20; Is 1,25; Sof 1,4; At 4,30; anche Sal 59,7). Un’altra affermazione di fiducia: come una volta al passaggio del Mar Rosso (Es 15,6), ancora adesso la Mano del Signore salva il suo fedele (v. 7c). Il Disegno divino operante sarà così perfezionato a favore dell’Orante (v. 8a). Ovviamente, questi non si sente solo, se parla della sua esperienza tuttavia desidera renderla partecipabile a tutto il popolo, e legittimamente il popolo potrà far sue queste invocazioni.

L’Orante riafferma poi l’eternità della divina misericordia, la perenne Bontà divina (v. 8b; 135,1). E chiede con l’epiclesi che il Signore non abbandoni mai l’opera delle sue stesse Mani benefiche (Gen 2,7), ossia le sue creature amate, gli uomini (sotto altra prospettiva, Sal 91,5).

Gli Ebrei sono stati sempre grandi oranti; è stato detto anche che «Israele insegnò al mondo a pregare». Se molti conoscono il Salterio come mirabile libro della preghiera, meno noto è il fatto che nell’intera Scrittura dell’A. e del N. T. esiste un ricchissimo patrimonio che consiste in quasi 2.000 testi di altre preghiere, che fanno parte dei generi letterari più diversi. Un vero reticolo vitale nella narrazione biblica. L’appellativo con cui i discepoli si rivolgono al Maestro è «Kyrios, Signore» (v. 1), titolo divino che spesso in Luca anticipa l’evento della Resurrezione. Gesù allora insegna una formula celebre, il «Padre nostro» (vv. 2-4).

Le Chiese in singolare unanimità hanno assunto il «Padre nostro» nella formula lunga di Matteo (6,9-13), per la sua maggiore discorsività, in quanto è più specificatamente catechizzabile. Si discute ancora se la formula originaria sia di Luca o di Matteo; ambedue le formule ritradotte in aramaico presentano lo stesso nucleo di una preghiera quotidiana e solenne della sinagoga: la Qedushah («santificazione» del nome divino. Così si designa nella Mishnah la terza delle Diciotto Benedizioni quotidiane: Dio grande e santo sei tu, Benedetto sii Tu o Signore Dio Santo) il cui esordio nomina il Nome, il Regno, la Volontà (così anche in Matteo).

In Occidente il «Padre nostro» è molto usato; in Oriente lo è di più poiché, oltre che nei divini Misteri, si recita anche negli altri Misteri sacramentali e nelle Ore sante come formula di esordio, replicata come formula anche di chiusura, la tipica inclusione letteraria che indica come omogeneo il contenuto chiuso tra due estremi uguali. In un certo senso, per far credere che è «tutto Padre nostro», che il «Padre nostro» è la Preghiera per eccellenza insieme ai Salmi.

L’insegnamento di Gesù prosegue poi dopo la preghiera del Padre nostro con due «catechesi sulla preghiera»:

  1. la prima (vv. 5-8), con la parabola dell’amico importuno. Insistere, perseverare nella preghiera è il mezzo sommo per ottenere tutto dal Padre buono; tutto quello che realmente serve al bene vero dei suoi figli.
  2. La seconda catechesi (vv. 9-13) è decisiva e culmina con il dono dello Spirito Santo; dono infinito e inconsumabile. Il culmine della preghiera dei fedeli è l’epiclesi (invocazione) per ottenere dal Padre mediante il Figlio lo Spirito Tuttosanto e Buono e Vivificabile.

Non si può pregare senza lo Spirito Santo che è lo Spirito della preghiera, del sacerdozio, dell’offerta sacrificale; Colui «nel quale» si prega il Padre (Rm 8,15; 12,1; Fil 3,3; Giuda 20) e Colui «nel quale» il Padre esaudisce ogni preghiera (Gal 4,6; Rm 8,26-27).

Rivelaci o Padre,

il mistero della preghiera filiale di Cristo,

nostro fratello e salvatore

e donaci il tuo Spirito,

perché invocandoti

con fiducia e perseveranza,

come egli ci ha insegnato,

cresciamo nell’esperienza del tuo amore.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

(nuova colletta per le Dom. del Tempo Ordinario)

Esaminiamo il brano

1 – «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare»: La preghiera è uno dei temi caratteristici di Luca. Il rapporto tra Gesù e il Padre suo è una singolarità irripetibile, unica. Tale rapporto è non è comunicabile se non da rivelazione donata (Lc 10,21). Al lettore in cammino con i discepoli, ha mostrato ripetutamente Gesù in atteggiamento di preghiera. La prima ricorrenza è nel momento del battesimo: Luca non racconta il fatto, ma concentra l’attenzione del proprio lettore sulla preghiera di Gesù: «Mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo… e venne una voce dal cielo…» (3,21-22). Nel racconto lucano la teofania, che manifesta e consacra il Figlio per la missione (4,18), appare come risposta del Padre alla preghiera del Figlio.

In 4,42, al termine della descrizione dell’attività di Gesù in Cafarnao, l’evangelista nota: «sul fare del giorno uscì e si recò in un luogo deserto» (4,42). Il “ritirarsi” nella solitudine di Gesù è ripetutamente segnalato da Luca:

  1. dopo la guarigione del lebbroso (5,15),
  2. prima di costituire i dodici (6,12)
  3. e di porre loro la domanda a riguardo della sua identità (9,18);
  4. sul monte Tabor mentre si appresta a compiere l’esodo verso Gerusalemme (9,28).

Luca non soltanto accenna alla silenziosa preghiera di Gesù, ma talora ne riporta anche le parole: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (10,21-22).

Nel momento della prova la preghiera di Gesù si trasforma in intercessione per i discepoli: «…io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno» (22,31-32).

All’inizio della passione Luca riporta la preghiera forse più drammatica di Gesù: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (22,42); sul Calvario intercede per coloro che lo stanno crocifiggendo: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (23,34) e le sue ultime parole sono un atto di fiducia incondizionata nel Padre: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (23,46).

«quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”»: Gesù prega alla discreta presenza dei suoi discepoli; non sorprende dunque che, osservandolo, i discepoli abbiano percepito la diversità della sua preghiera e abbiano chiesto a Gesù di insegnare loro a pregare. Come giudei osservanti erano sicuramente familiari con la preghiera. La loro richiesta è dunque per una modalità di preghiera che li distingua da altri gruppi giudaici, una preghiera che li identifichi come seguaci di Gesù. La comparazione con Giovanni il Battista, altro severo maestro di disciplina e di preghiera (6,33), serve forse a mascherare la timidezza del richiedente, che parla a nome dei confratelli.

2 – «Quando pregate, dite»: Gesù allora insegna una formula celebre, il «Padre nostro». La forma lucana è più breve di quella liturgica matteana, ma è strutturata attorno agli stessi poli: il “tu” del rapporto con il Padre ed il “noi” dell’appartenenza comunitaria. La preghiera di Gesù inserisce il discepolo in una trama di rapporti: il rapporto con il Padre ed il rapporto con i fratelli. Pregare, dunque, è vivere nella relazione con Dio, come membro di una comunità umana.

«Padre»: Il testo inizia con “Padre”, semplicemente, senza il “nostro, come invece esordisce Mt 6,9. Si sente subito l’Abbà aramaico, che propriamente significa “Papà, titolo intimo e dolce dei bambini al loro Genitore, che in modo fiducioso e confidente sentono come l’unica direzione della loro esistenza, come vita, come protezione e difesa, come soccorso. Lo sentono come il sostentatore, anche come il confidente che mai inganna. La medesima formula, sia pure nella relazione unica di cui si è detto, è l’Abbà di Gesù, usato da Lui abitualmente, ma nel senso più significante nella decisione finale della sua vita, al Getsemani (Mc 14,36) e sulla Croce (Lc 23,34, per il perdono; v. 46 al momento dello spirare; Luca lo riporta in greco per le sue comunità ellenistiche e romane). Paolo spiega che si deve invocare Abbà \ Papà!, in forza della Resurrezione del Figlio e del Dono inconsumabile dello Spirito Santo. In Gal 4,6 e Rom 8,15 Paolo trascrive in greco il termine aramaico Abbà. Il Padre quindi ammette anche gli uomini, che prima erano non-figli, ma adesso dal battesimo resi figli veri (1 Pt 2,9-10). Ma se figli, anche coeredi del Figlio e convitati, e quindi con il Figlio, da Lui ammessi alla Cena, invocanti Abbà nella Cena del Signore. L’esempio viene da Cristo, che nella «Preghiera sacerdotale» (Gv 17,1-26), durante la Cena, invoca ripetutamente “Padre” (in greco nel testo di Giovanni; vedi Evangelo della Domenica VII di Pasqua). Così il «Padre nostro» è preghiera battesimale e preghiera eucaristica, preghiera propriamente universale.

La nota ultima su questo titolo è che l’A. T. conosce l’invocazione del Signore come “Padre” (ad esempio, Dt 32,5), e anche «Padre nostro»: «Abinù, Padre nostro Tu sei, Redentore nostro!» (Is 63,16). Titolo di immenso rispetto e di adorazione, esso tuttavia non potrebbe mai tramutarsi nell’Abbà aramaico, sentito come di intollerabile confidenza, perchè non ci si rivolge al Signore chiamandolo “Papà”, come significa quel termine. Del resto, altrettanto succede nelle nostre assemblee. Infatti noi non diciamo «Abbà, Papà nostro che sei nei cieli», ma il più freddo e severo «Padre nostro». E tuttavia, Gesù ha insegnato ai discepoli proprio a invocare «Papà nostro», e i discepoli si fanno torto e danno a non saperlo e a non usarlo.

«sia santificato il tuo nome»: Le richieste al Padre che Gesù adesso insegna, nella loro sostanza sono invocazioni, epiclesi. La prima epiclesi è per la «santificazione del Nome» che è la massima esigenza del Signore imposta ai suoi fedeli, ed è anche il massimo desiderio dell’Ebreo fedele. Infatti, Il Signore deve essere “santificato”, ossia celebrato e fatto conoscere al mondo, attraverso le opere buone del popolo dell’alleanza come a esso le ha prescritte il Signore, nell’obbedienza alla sua Volontà, e queste portano i pagani a venire a gridare insieme ai fedeli: «Santo è il suo Nome!». Si veda il parallelo esplicito di Mt 5,14-15, la «luce del mondo davanti agli uomini», per cui dalle opere buone dei discepoli gli uomini daranno gloria al Padre. È un tema già dei Salmi (Sal 95; 96; 97). È la dimensione missionaria, fatta propria dal Signore, ad esempio nella «Preghiera sacerdotale» (Gv 17,3.4.6.11.12, e v. 26, la clausola finale).

«venga il tuo regno»: La seconda richiesta epicletica del «Padre nostro» concerne la venuta del Regno (v. 2b). Il Regno è la condizione divinamente donata della salvezza perfetta di tutti gli uomini. Come si è ripetuto, Gesù con parole e fatti annuncia e manifesta che «il Regno di Dio» sono Egli stesso e lo Spirito Santo. Lo dirà esplicitamente, ma simbolicamente in 11,20: «Ma se Io espello i demoni [i principali ostacoli al Regno] con il Dito di Dio, allora il Regno di Dio già giunse tra voi». Il testo per il Dito di Dio da una parte rimanda a Es 8,15, per i prodigi operati da Mose davanti al faraone e ai suoi maghi, che riconoscono che i prodigi avvengono per la potenza del Dito divino; dall’altra, al parallelo Mt 12,28: «Ma se per la potenza dello Spirito Santo Io espello i demoni…». Lo Spirito Santo è il Dito onnipotente del Padre e del Figlio. Infatti, la teologia simbolica spiega che Dito dice Mano potente di Dio, e quindi la sua Presenza e Potenza personale operativa irresistibile. I Padri sapevano bene qui due fatti:

  1. che il Padre ha «Due Mani», Cristo e lo Spirito Santo, con le quali opera tutta la sua Economia salvifica (S. Ireneo);
  2. e che l’epiclesi «venga il Regno tuo» poteva essere sostituita dall’epiclesi «venga lo Spirito Santo e ci santifichi» (così riportavano diversi antichi codici, e così leggevano alcuni Padri del 2° secolo), sapendo bene che per la venuta di Cristo Signore con lo Spirito Santo «il Regno di Dio sta qui in mezzo a noi» (così S. Gregorio il Teologo, S. Gregorio Nisseno, S. Massimo il Confessore).

È il senso teologico esatto, presto perdutosi per un concetto di “Regno” ridotto all’astrazione di un’idea in un certo senso politica, di un regno come dominazione, mentre il fondo teologico autentico era poco sentito.

3 – «dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano»: Seguono nel testo tre epiclesi per le necessità quotidiane degli uomini. La prima, per il «pane nostro quotidiano» (v. 3). Alla lettera «supersostanziale, epìoùsios», termine che faceva difficoltà già ai Padri. Ma alcuni di essi (Origene) spiegavano che indica che il pane chiesto sta al di là delle possibilità umane. Infatti «il pane» nell’Economia della storia è sempre triplice:

  1. è il pane come cibo naturale ovvio del corpo,
  2. è il Pane della Parola,
  3. è il Pane dei Misteri consacrati.

Esso nelle tre componenti indivisibili deve essere assunto come quell’alimento che «giorno per giorno», ossia “quotidianamente” (parafrasi esatta) porti i bambini del Padre verso la Vita eterna. Richieste simili sono conosciute già nell’A. T. (Pr 30,8), e ripetute nel N. T. (1 Tim 6,8).

4 – « perdonaci i nostri peccati…»: La seconda epiclesi di questa parte riguarda il giubileo biblico, la «remissione dei peccati» (vedi anche l’Evangelo della Dom. III del Tempo per l’Anno Lc 1,1-4; 4,14-21). Essa è operata dal Padre nel Figlio in forza del Dono dello Spirito Santo. È efficace per se stessa, tuttavia è soggetta alla dura condizione, che per farsi operante, deve essere preceduta nei fedeli dal perdono dei loro debitori, nei debiti ancora insoluti verso il prossimo che inevitabilmente tutti accumulano in mille modi. Gesù ha portato questo giubileo già nella sua Vita pubblica, ad esempio perdonando la peccatrice (Evangelo della Domenica XI), poi insegnandolo nel «discorso della pianura» di Luca come perfetta assimilazione al Padre Misericordioso (Evangelo della Domenica VII), infine largamente, universalmente perdonando dalla Croce (ancora Lc 23,34). Se il Signore e Maestro lo ha fatto, i suoi veri e fedeli discepoli debbono ormai farlo, e farlo sempre e comunque. Diversamente da Matteo, Luca usa un verbo nella forma presente, presentando il perdono come un’attitudine di vita, non un evento occasionale: non possiamo quindi chiedere il perdono di Dio se non viviamo nella continua disponibilità ad offrire il perdono al fratello.

«non abbandonarci alla tentazione»: La terza epiclesi infine è per «non essere indotti in tentazione» (versione più conosciuta). L’espressione lucana, nella sua concisione, sarebbe ambigua, se, come è buona norma della teologia biblica, non si facesse appello ai paralleli, anzitutto a quello esplicito di Mt 6,13, che completa: «ma liberaci dal Maligno».

L’ultima richiesta è compresa soprattutto alla luce dell’esperienza di Gesù. All’inizio del suo ministero, condotto dallo Spirito nel deserto, Gesù vive l’esperienza della tentazione. Il termine peirasmós, nella luce anticotestamentaria, può essere utilizzato per descrivere due esperienze:

  1. la prova a cui viene sottoposto l’amico di Dio: pensiamo al sacrificio del figlio per Abramo o all’esperienza della malattia per Giobbe;
  2. il momento nel quale la persona si interroga su Dio: «Sei proprio tu o dobbiamo aspettare un altro» (Lc 7,19)?

Si tratta dunque di tentazione in senso radicale, non morale. Gesù nel deserto è dunque «messo alla prova» come Abramo o come Giobbe, come il popolo d’Israele. Gesù sceglie di essere totalmente figlio e di vivere la propria identità messianica in rapporto a questa identità fondamentale.

Ora, il Padre che permette la tentazione satanica contro il Figlio battezzato: «Se sei Figlio di Dio…» (Lc 4,1-13), ripetuta da discepoli, parenti, autorità, e culminante sotto la Croce: «Se questo è il Cristo di Dio, l’Eletto…» (Lc 23,35, e vv. 35-39; Evangelo della Domenica di Cristo Re), tuttavia prima donò a Lui la Potenza del suo Spirito Santo battesimale e trasfigurazionale. Se permette che i figli suoi siano tentati (vedi qui Giac 1,12-16), tuttavia già donò ad essi il medesimo Spirito Santo battesimale, il divino onnipotente Vincente del Maligno e del suo Male personificato, in ogni sua forma. Ma i figli debbono chiedere egualmente così, esplicitando: Tu, Padre, che permetti le tentazioni del Maligno, tuttavia fa che esse non si spingano tanto avanti, che non ne possiamo essere liberati da Te, per la potenza dello Spirito Santo.

5-8 – «Se uno di voi ha un amico…»: Seguono due «catechesi sulla preghiera». La prima con la parabola dell’amico importuno. Questi riesce ad ottenere il pane a lui necessario da un pacifico cittadino che se la dorme con i figli, perché «perseverò picchiando» in modo indiscreto l’uscio di quella casa. Insistere, perseverare nella preghiera è il mezzo sovrano per ottenere tutto dal Padre buono. Tutto quello, però, che realmente serve al bene vero dei suoi figli diletti.

9-10 – «Chiedete e vi sarà dato…»: La seconda catechesi è decisiva. Essa culmina con l’operazione dello Spirito Santo (vv. 9-13). Anzitutto ai vv. 9-10 si esorta tre volte, numero simbolico:

  1. chiedete e vi sarà donato (dal Padre, passivo della Divinità),
  2. cercate, e troverete (presso il Padre);
  3. picchiate, e vi sarà aperto (dal Padre) l’uscio della sua misericordia inesauribile.

La vita di fede è un immenso chiedere, cercare, picchiare, poiché il Padre lo desidera. E non dona se non si vuole avere da Lui nella fede, e se non si chiede a Lui con la fiducia totale che i bambini hanno nel loro Padre.

11-13 – «Quale padre tra voi…»: altre tre immagini, a loro modo sorprendenti. Il Signore avverte che i discepoli come padri ai loro piccoli bambini che chiedono il pane, un pesce e un uovo, tre simboli del cibo buono, quindi della vita, di certo non gli daranno rispettivamente un sasso indigeribile, una serpe velenosa, uno scorpione malefico. La conclusione giunge violenta: voi siete tutti cattivi, costituiti sotto il peccato (Gen 6,1-5; 8,21; Mt 12,34), eppure ai figli vostri sapete donare prodotti buoni. L’argomentazione sale adesso «dal minore al maggiore», secondo il metodo rabbinico: quanto più allora -infinitamente di più! – il Padre Buono dal cielo a quanti glielo chiedono donerà lo Spirito Santo! (v. 13), il Dono infinito e inconsumabile. Il culmine della preghiera dei fedeli perciò è l’epiclesi per ottenere dal Padre loro mediante il Figlio lo Spirito Tuttosanto e Buono e Vivificante.

Ripercorrendo ora, dal basso verso l’alto, il testo analizzato, la pericope mostra che per pregare e per vivere occorre anzitutto chiedere dal Padre Buono lo Spirito Santo. Nello Spirito Santo va invocato il «Padre nostro», articolo per articolo. Poiché «solo lo Spirito Santo rivela Cristo, e solo Cristo a partire da se stesso rivela il Padre, e nello Spirito Santo solo Lui riporta al Padre che attende tutti». Non si può pregare senza lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è lo Spirito della preghiera, del sacerdozio, dell’offerta sacrificale. E Colui «nel quale» si prega il Padre (Rom 8,15; 12,1; Fil 3,3; Giuda 20), e Colui «nel quale» il Padre esaudisce ogni preghiera (Gal 4,6; Rom 8,26-27).

Per questo il Padre con infinita abbondanza dona la grazia dello Spirito Santo, i divini talenti, nell’Iniziazione, quando comincia propriamente l’esistenza redenta. Allora, il Padre li ha fatti veri «figli nel Figlio» (Rom 8,28-30), e i fedeli possono gridare: «Abbà, Papà!» (Rom 8,15). E già prima l’Apostolo aveva rivelato che nei figli veri lo Spirito Santo stesso grida: «Abbà\ Papà!» (Gal 4,6). Ecco dunque la necessità di comprendere bene il significato del battesimo per liberare la fede dalla mercé di tutte le contraffazioni, altrimenti si rischia di ridurla a un’ideologia, a una morale, a una religione (cf II lettura). Si può perfino fare del battesimo un’altra circoncisione: diventa allora un rito o una selezione, che separa gli uni dagli altri per mettere alcuni in una posizione di privilegio. Al contrario, esso è un affondare totalmente nell’esistenza umana. Essere battezzati vuol dire seguire il Cristo nel suo abbandono alla morte, nella sua fede in un Dio capace di mostrarci il rovescio della morte e del male. Non si tratta di porsi al riparo, in modo quasi magico, dai rischi della vita, ma di poggiare l’intera nostra esistenza sulla fede in Cristo Gesù, affidandosi all’amore e al perdono di Dio.

Illuminandoci sulla risposta che Dio dà alla preghiera, Gesù ci aiuta nello stesso tempo a comprendere meglio la preghiera stessa. Pregare non significa imporre a Dio la nostra volontà, ma chiedergli di renderci, disponibili alla sua, al suo progetto di salvezza per il mondo. Pregare non è pretendere di cambiare Dio, ma chiedergli di cambiarci, di formare in noi uno spirito filiale. Non a caso la seconda domanda del Padre nostro, «Venga il tuo regno», in una variante molto antica suona come segue: «Venga su di noi il tuo Spirito, e ci purifichi». Il segreto della preghiera di Gesù consiste nel parlare delle cose che interessano al Padre, collocandosi nella propria condizione filiale.

I Colletta

O Dio, nostra forza e nostra speranza,

senza di te nulla esiste di valido e di santo;

effondi su di noi la tua misericordia

perché, da te sorretti e guidati,

usiamo saggiamente dei beni terreni

nella continua ricerca dei beni eterni.

Per il nostro Signore…

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano