Domenica “DEL FARISEO E DEL PUBBLICANO”
Continua anche in questa domenica l’insegnamento sulla preghiera; nella parabola del fariseo e del pubblicano ci sono infatti due modi di dialogare con Dio, per meglio dire di concepire l’uomo e il suo rapporto con Dio. La preghiera del fariseo è un rendimento di grazie a Dio. Solo apparente però. In realtà è un pretesto per lodare se stesso e non Dio, compiacersi di sé per la mancanza di ogni peccato e per il merito delle buone opere, in forza delle quali si ritiene giustificato ed «esige» da Dio la ricompensa. La preghiera del fariseo non è preghiera, anzi è l’opposto.
Il pubblicano invece è «nella verità»: è consapevole della sua colpa e di non avere meriti davanti a Dio. Chiede grazia. La sua è vera preghiera.
Perciò dietro i due personaggi della parabola si può scorgere l’opposizione tra due tipi di giustizia: quella dell’uomo che ritiene di poterla realizzare col compimento perfetto della legge e quella che Dio concede al peccatore che si riconosce tale e che si converte.
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Il tema paolino della giustificazione mediante la fede si trova già delineato in questa parabola. Paolo, l’araldo della giustificazione mediante la fede, è anche il grande testimone della vita nuova che sboccia dalla fede in Cristo. Ormai vecchio, in carcere, in attesa della condanna a morte, riflette sulla sua vita (seconda lettura). La sua esperienza di Cristo si conclude con un fallimento umano: tutti lo hanno abbandonato, nessuno in giudizio lo ha difeso. Ma egli ha «conservato la fede», ha gareggiato per Cristo ed è rimasto fedele fino alla mèta. La sua speranza lo conduce alla certezza della «ricompensa» che riceverà da Cristo per la sua vita di dedizione e di amore sull’esempio di Gesù.
Il cristiano è un uomo realmente giustificato mediante la fede in Gesù Cristo, in colui che è ad un tempo il dono sostanziale dei Padre e quell’uomo fra gli uomini che ha potuto costruire l’unica risposta umana gradita a Dio.
È questo il motivo per cui la fede in Gesù salva. Infatti Gesù inaugura nella sua persona il regno del Padre in cui si compie il destino dell’uomo. Per sé, come per i suoi fratelli, Gesù esige la rinuncia assoluta che implica la fedeltà alla condizione di creatura: la rinuncia è sino alla morte e, se necessario, sino alla morte in croce. È il salvatore del mondo che parla così.
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Come può quest’uomo che ha spinto sino alle ultime conseguenze la rivelazione della condizione umana proclamarsi nello stesso tempo il salvatore dell’umanità? A questa domanda non c’è che una risposta: veramente quest’uomo è il Figlio di Dio; Dio ha tanto amato il mondo da dare per esso il suo Figlio unico; e nello stesso tempo egli è uomo tra gli uomini; la sua fedeltà di creatura è, per identità, una fedeltà filiale. La risposta attiva di questo uomo raggiunge perfettamente l’iniziativa divina a salvezza.
L’unione a Cristo ci rende capaci della stessa «fedeltà filiale» fino alla croce. L’uomo è «giustificato» perché la fede in Cristo gli dà accesso al Padre in qualità di figlio adottivo. La salvezza è dono divino, diventa nell’uomo sorgente di una attività filiale in cui si compie oltre ogni misura la fedeltà alla nuova legge dell’amore.
Oggi, per l’uomo, la sufficienza farisaica non è più l’osservanza di una legge, ma prende altri nomi. In molti c’è la convinzione che l’uomo possa salvarsi come uomo facendo appello unicamente alle sue risorse. L’uomo salva l’uomo mediante la scienza, la politica, l’arte…
È perciò più che mai necessario che i cristiani annuncino al mondo Cristo come Salvatore. La salvezza che egli porta non è antagonista della salvezza umana. Anzi la conduce a pienezza. Con la celebrazione dei sacramenti, in specie dell’Eucaristia, essi testimoniano la necessità dell’intervento divino sulla vita dell’uomo, si mettono sotto l’azione di Dio presente con il suo spirito e fanno l’esperienza privilegiata della giustificazione ottenuta mediante la fede in Gesù Cristo. Devono perciò essere continuamente vigilanti per non partecipare ai sacramenti con spirito farisaico.
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 104,3-4
Gioisca il cuore di chi cerca il Signore.
Cercate il Signore e la sua potenza,
cercate sempre il suo volto.
Nell’antifona d’ingresso tratta dal Sal 104,3b-4, genere DSt., il Sapiente, che si fa anche orante, esorta con un imperativo innico il cuore di quanti cercano il Signore, affinché gioisca (v. 3b). Infatti il Signore opera sempre in modo da farsi comunque trovare nella sua Bontà. Più propriamente, trovarlo è impossibile, ma allora trova Lui quanti Lo cercano. L’Orante rivolge tre imperativi all’assemblea dei fedeli, affinché non cessino di cercare il Signore che li attende e così diventino saldi nella fede. Ma in specie debbono cercare «il Volto», la Persona del Signore, da cui irraggia la Luce vivificante per l’eternità, e in questo non debbono mai stancarsi.
Canto all’Evangelo 2 Cor 5,19
Alleluia, alleluia.
Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo,
affidando a noi la parola della riconciliazione.
Alleluia.
Il versetto di 2 Cor 5,19ac, che orienta la proclamazione evangelica, parla del Disegno divino contemplante che è la riconciliazione con il Padre degli uomini peccatori. Il Padre se li è riconciliati mediante il Figlio morto e risorto e per portare l’effetto di questo agli uomini ha posto negli Apostoli la «Parola della riconciliazione», l’Evangelo della Grazia da annunciare agli uomini. Il versetto è stato usato anche nella Domenica «delle parabole della divina misericordia», XXIV del Tempo per l’Anno C; la parabola di oggi appartiene infatti al gruppo delle “parabole della misericordia”.
L’annuncio della “buona notizia” di Gesù, mentre si apre gratuitamente e senza barriere a tutti i popoli, si pone come severo giudizio ma ancora di misericordia anche per quanti credono di avere «la conoscenza del bene e del male». Il giudizio di Dio è Parola che, ieri come oggi, scruta personalmente e comunitariamente, come lama tagliente, in profondità, l’uomo. Dio “giudica” non secondo un metro astratto ed esteriore, ma cogliendo l’uomo in preghiera, ci rivela nella verità del nostro porci innanzi a Lui.
Secondo l’Evangelo non esiste altro autentico porsi innanzi a Dio che come uomo senza parole e senza pretese, nella verità: unicamente come graziato.
Ma allora chi sono i beati? Non coloro nei quali Dio non avrà trovato peccato: infatti ne trova in tutti, «perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rm 3,23)… Rimane allora che sono beati coloro i cui peccati sono stati perdonati, la cui mercede si chiama grazia.
(Commento al sal 31, s. Agostino)
Episodio dopo episodio dalla Domenica XIII alla Domenica XXXI nel continuo che si presenta nel testo lucano, che si conviene di chiamare il «grande inciso», o «salita a Gerusalemme» (Lc 9,51 – 19,28). La missione del Signore Lo porta al «suo esodo che deve consumarsi a Gerusalemme» (Lc 9,31), dove con la Croce e con la Resurrezione deve risalire al Padre. Lungo l’intero itinerario propostogli e accettato, Gesù nello Spirito Santo continua la sua missione, che è il suo ministero di Maestro ed è l’operazione continua delle prodigiose guarigioni.
Il contesto immediato è la perseveranza irremovibile nella preghiera, che da Dio Signore ottiene tutto (Lc 18,1-8), e d’altra parte è l’episodio, non isolato, in cui Gesù, tra i rimbrotti dei discepoli, abbraccia i bambini, impone ad essi le mani, li benedice (18,15-18), poiché solo essi possiedono nella loro innocenza il Regno, e chiunque voglia ricevere il Regno di Dio deve lasciarsi fare di nuovo bambino. Al centro dei due testi, la parabola mostra precisamente:
- la preghiera umile del Pubblicano, che ottiene la propiziazione divina;
- l’attitudine del medesimo, che abbandona la malizia della sua professione e ritorna, semplice come un bambino, nell’innocenza del cuore.
Il Pubblicano, che pur si era perduto dietro al denaro per la sua professione odiosa, ha compreso (forse proprio per l’esperienza acquisita nel suo mestiere) che Dio non è in vendita. L’uomo devoto ha una paura istintiva di Dio, e se gli offre un sacrificio, è continuamente preoccupato di sapere se i riti sono stati ben eseguiti, se la vittima era perfetta, se tutto si è svolto secondo le regole. Ma questo non è in armonia con la fede; non è infatti solo dall’osservanza delle rubriche che Dio giudica il valore di un sacrificio, ma dalla carità fraterna di colui che l’offre. Le parole del Siracide sono anche per noi un invito a verificare lo spessore umano e cristiano delle nostre celebrazioni.
I lettura: Sir 35, 15-17.20-22
Il sapiente d’Israele insegna e ammonisce chi ha la pazienza e la forza di ascoltarlo. La sua dottrina qui ricorda che l’unico Giudice è il Signore (Sal 49,6; 74,8; anche 67,6; 57,12). Davanti a Lui scompare ogni onore umano (Dt 10,17; Gb 34,19; Sap 6,8; Rm 2,11; Gal 2,6; Col 3,25; 1 Pt 1,17), poiché Egli mai ha preferenza verso qualcun uomo a scapito degli altri uomini (v. 15b).
Egli mai accetta che qualcuno osi perseguitare i suoi poveri, anzi esaudisce solo la preghiera di chi è danneggiato (v. 16). Essendo oltretutto pronto a esaudire con ordine chi ha più bisogno, quindi anzitutto l’orfano che prega e la vedova che geme (v. 17; Es 22,22; Sal 67,6; e vedi l’Evangelo della Domenica precedente).
Il Signore, ancora, accetta chi Lo adora con gioia. E allora di tale orante la preghiera salirà fino alle nubi, per raggiungere dove sta il Trono divino della grazia (v. 20). Infatti la preghiera di chi si umilia trapassa inarrestabilmente anche queste nubi, e non si dà pace l’orante finché questo non sia avvenuto, non si ritira finché Dio non riguardi verso di lui (v. 21). Anzi, il Signore stesso non si allontana né si schermisce, bensì entra subito in giudizio per fare giustizia ai “giusti”, che senza loro colpa sono i perenni perseguitati (v. 22a).
Il Salmo 33,2-3,17-18.19 e 23, AGI con il Versetto responsorio: Il povero grida e il Signore lo ascolta, v. 7a, l’assemblea applica a sé il ritornello: Dio esaudisce sempre il povero che grida a Lui la sua preghiera.
Il Salmista dai benefici divini ricevuti dal Signore con abbondanza è mosso a celebrarlo per rendergli grazie. Perciò inizia pronunciando il voto di benedire ininterrottamente il Signore (Sal 43,9; è anche l’esortazione dell’Apostolo, Ef 5,20; 1 Tess 3,17), in modo che la lode di Lui riempia sempre la sua bocca (v. 2). La piena che trabocca dal suo cuore lo porta a reiterare il voto, che investirà la sua stessa anima, la sua esistenza integrale, che si loderà nel Signore (Is 45,26). E lo porta quindi a estendere l’annuncio di tanti benefici che sono venuti alla sua esistenza redenta, ai miti e buoni, chiamati con iussivo innico ad allietarsi, essi che gioia da altra parte non trovano, che non sia in Dio (v. 3).
Infatti nell’azione di grazie l’Orante sa che i benefici ricevuti nella sua vita non gli appartengono come possesso esclusivo, ma essi fanno parte del tesoro di cui deve godere tutto il suo popolo. E tutto il suo popolo deve chiamare a goderne celebrando il Signore.
L’Orante adesso ammonisce che al contrario il Volto del Signore si rivolge minaccioso, per l’inevitabile punizione, verso gli operatori di male (Lv 17,10; Ger 44,11; Am 9,4), e l’effetto sarà di cancellare perfino la loro memoria dai viventi (v. 17; Sal 108,15; Prov 10,7; Sal 20,11). Ma a Lui i giusti gridarono, ossia fecero risuonare alta l’espressione della preghiera intensa di quanti sono sfiduciati dell’aiuto umano, però sono fiduciosi in quello divino, e allora il Signore, come sempre, li esaudì nelle loro richieste, e li estrasse con Mano potente dalle tribolazioni che li opprimevano (v. 18).
Il Signore assicura e rende tranquilli, poiché promette di farsi sempre trovare vicino ai tribolati di cuore (Is 42,3; 57,15; 66,2; anche Sal 144,18; 148,14; Dt 4,7), però salva solo chi è umile nell’anima (v. 19).
L’Orante conclude il suo canto con la riaffermazione che il Signore salva le anime dei suoi servi fedeli, che aderiscono con il cuore sincero alla sua alleanza (Sal 24,22). Così quanti sperano in Lui prosperano e sussistono, non vengono mai meno (v. 23).
Nella pericope di oggi Gesù rivolge il suo insegnamento a quanti hanno eccessiva fiducia in se stessi (16,15; Mt 5,20) perché si ritengono giusti davanti a Dio e davanti agli uomini (Pr 30,12; 2 Cor 1,9), e per di più, sempre con giudizio sommario e squalificante, disprezzano «gli altri», tutti gli altri, perché considerati inferiori sul piano spirituale e morale (Is 65,5).
Domenica scorsa l’inquietante interrogativo sulla fede del v. 8 ha chiuso la pericope evangelica e ha proposto il problema dell’accoglienza del regno che viene. Nove dei lebbrosi purificati non hanno compreso il senso di ciò che è loro «avvenuto». Noè e Lot, invece, avevano saputo riconoscere il giudizio di Dio sugli uomini del loro tempo. Senza una preghiera incessante, la venuta del figlio dell’uomo è una prova che non è possibile superare. Un simile esordio costringe evidentemente a riflettere.
È emersa un’esigenza nuova: di fronte al regno che viene, è richiesto al credente di aprirsi alla venuta universale (17,24), sofferente (17,25), improvvisa (17,30.37) della salvezza di Dio. Al di là di quello che noi possiamo fare, e senza togliere nulla al nostro impegno – non dimentichiamo i cc. 12 e 16! – il Regno è un dono da ricevere. La preghiera di ogni momento deve condurre a questa radicale fede-accoglienza.
Una fede che accetta di vivere lo sconvolgimento della venuta del regno ponendo le vere domande: non «quando» (17,20; cf. At 1,6) e «dove» (17,37), ma «come» (13,18-21; cf. At 1,7-8) viene, e «chi» viene (17,22.24.26.30; 18,8).
Non c’è un taglio netto fra le due parabole, entrambe proprie di Luca, che trattano della preghiera. Quella del fariseo e del pubblicano ha un ruolo di transizione: non è più strettamente collegata all’apocalisse del c. 17, come lo era quella del giudice e della vedova e non entra ancora, come le due scene seguenti, nella dimensione del gesto e dell’incontro. Si riallaccia tuttavia abbastanza chiaramente allo sviluppo che segue. Descrive infatti un atteggiamento chiuso, di fronte ad un atteggiamento di disponibilità. Questo è il tema centrale dei vv. 9-34, dove si parla di accoglienza, di distacco, di apertura alla vita. Peccatori di fronte a Dio o spiritualmente e materialmente ricchi, tutti devono riconoscere che nessuno entra nel Regno se non accoglie la grazia che Gesù-profeta proclama e vive in mezzo agli uomini.
Volendo usare un’immagine la fede è l’architrave della porta d’ingresso nel Regno, gli stipiti che la sostengono sono la preghiera e l’umiltà. Infatti, dopo aver dichiarato la necessità della preghiera, si parla ora sulla sua qualità di fondo: l’umiltà. Il v. 9, quasi una didascalia dell’Evangelista, ci dice che l’insegnamento si rivolge a quanti avevano eccessiva fiducia in se stessi (cfr. 16,15; Mt 5,20) perché si ritenevano giusti (cfr. Prov 30,12; 2 Cor 1,9), e per di più disprezzavano «gli altri », tutti gli altri (cfr. Is 65,5).
In questo dittico abbiamo due modelli di fede e di preghiera; tutti i personaggi di Luca sono riconducibili a queste due figure, che rappresentano l’impossibilità e la possibilità della salvezza.
Il fariseo che si presume giusto è nel rischio di perdersi perché, nello sforzo di osservare le prescrizioni della Legge, trascura il comandamento da cui queste scaturiscono: l’amore di Dio e del prossimo. Il peccatore invece è giustificato.
Questo è il vero scandalo dell’Evangelo, che ci permette di accettare la nostra realtà di peccatori in quella di Dio che ci ama senza condizioni, non per i nostri meriti, ma per il suo amore di Padre. Questo racconto ci aiuta a discernere sulla nostra preghiera. Questa è vera quando, riconoscendoci nel fariseo, facciamo nostra la preghiera del pubblicano. L’unica differenza tra i peccatori e i giusti sta nel fatto che i primi accettano di essere salvati; i secondi non lo vogliono.
Esaminiamo il brano
9 Come è già accaduto Dom. scorsa anche questa volta Luca introduce i destinatari di questo nuovo insegnamento. Per non cadere in interpretazioni arbitrarie, è bene precisare che la parabola non si riferisce a tutti i farisei, condannandone la classe religiosa in blocco; Luca stesso ci dice «per alcuni…».
Spesso, in modo errato, si attribuisce al termine «fariseo» un’accezione negativa, dispregiativa. I farisei invece appartengono ad una classe positiva, che si dedica soprattutto allo studio e all’amore per la Parola del Signore. Paolo stesso, parlando della propria educazione, vanterà l’origine farisaica: «…Fariseo quanto alla Legge… irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge» (Fil 3,5-6). L’errore fondamentale di questo fariseo consiste nel negare la giustizia di Dio, pensando di riconoscere giustizia ed empietà da se stesso. Così viene di fatto rigettata l’affermazione centrale che guida la professione di fede, di Ben Sirach, secondo la quale «Il Signore è giudice» (Sir 35,15).
10 «Due uomini salirono al tempio a pregare»: È tipico della caricatura cogliere un elemento significativo del modello prescelto e metterlo in evidenza esagerandone i tratti. Con un procedimento analogo Gesù descrive i due estremi della società religiosa del suo tempo, presentando due opposti atteggiamenti spirituali. Questo quadretto riguarda da vicino ciascuno di noi. In quale personaggio possiamo riconoscerci? Nel fariseo o nel pubblicano?
Incontriamo in primo luogo il fariseo, con la sua magnifica «eucaristia»: «o Dio, ti ringrazio…». Non chiede nulla per sé, e sicuramente non è un ipocrita: ciò che dice corrisponde a una pratica che egli osserva scrupolosamente. Ma ne è fin troppo consapevole: rivolge una grande attenzione a se stesso, si ascolta pregare. E soprattutto, giudica gli altri. Per quanto riguarda Dio, se ne interessa unicamente poiché non mancherà di riconoscere i suoi meriti eccezionali. Accanto a questo uomo pio tanto sicuro di sé, il pubblicano non improvvisa un’azione di grazie, ma semplicemente si confessa, non perché sente il bisogno di scavare nella propria coscienza (il fariseo l’ha già fatto per lui) o di elencare le proprie colpe, quanto piuttosto per esprimere tutto il dolore che prova. Non trovando nulla che possa dargli sicurezza di fronte al giudice, si affida alla misericordia divina: da essa soltanto spera di ricevere la propria esistenza come un dono, come una grazia. «Questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro». Il cristiano, invece, sa che il giusto è sempre un uomo giustificato, salvato da Dio, al di là di qualsiasi merito. Siamo sufficientemente convinti di questo, quando preghiamo? Il miglior indice rivelatore di ciò che siamo davanti a Dio è ancora la nostra preghiera.
Il luogo per eccellenza della preghiera quotidiana e il tempio, e con tanti altri vi salgono un fariseo ed un pubblicano. Al tempio, com’è noto, «si sale», espressione tipica, perché esso era posto sul colle santo di Sion, che si trova in alto rispetto alla terra e alla stessa Gerusalemme. Con tanti altri devoti fedeli salgono quindi al tempio un fariseo e un pubblicano, che desiderano pregare.
Una scena normale a Gerusalemme è che si salga al tempio per pregare. Ora, il tempio è il luogo per eccellenza della celebrazione sacrificale quotidiana, la mattina e la sera. In queste due occasioni il popolo presente era aiutato dai leviti a pregare, in specie i Salmi, mentre i sacerdoti e gli offerenti procedevano alla complessa operazione del sacrificio, con il rito del sangue e dell’offerta. In genere queste due liturgie erano sempre molto affollate. Con tanti altri, “salgono” (il tempio sta più in alto dell’abitato) in particolare “due uomini”, due tipi ben specificati di uomini, un Fariseo ed un Pubblicano. Due Ebrei.
Del primo abbiamo già parlato, è un pio osservante della Legge santa di Dio; questo accanimento nell’osservanza della Legge ne faceva un popolo distinto e separato dagli altri. La «separazione» dagli altri dava addirittura il nome ai farisei, dall’ebraico «parash» separare, e costituiva un motivo di gratitudine a Dio. Il secondo è anche lui un Ebreo, ma ha accettato di collaborare con l’invasore romano, è dei pubblicani, gli appaltatori che per lucro si incaricavano di taglieggiare il popolo riscuotendo per i Romani i gravosi tributi, così odiati dagli Ebrei, anche perché segno di schiavitù verso i pagani.
Pagare le tasse agli stranieri e pagani era perciò il segno vergognoso di:
- essere recensiti da quelli, fatto abominevole per il popolo “del Signore”, peculiare suo possesso (cf. Es 19,3-6);
- di essere costretti a pagare contro volontà. Era il segno abietto, demoralizzante della schiavitù.
I pubblicani dunque godevano dell’antipatia, e del pubblico disprezzo, ben meritato del resto. Ma Gesù non esiterà a essere ospite delle loro case, a visitare Zaccheo (Lc 19,1-10) e a mangiare con lui, e soprattutto a scegliere tra essi un personaggio decisivo nella Chiesa apostolica, Levi il pubblicano (Lc 5,27), che dai paralleli si sa che è anche Matteo pubblicano (Mt 9,9), abile a leggere, scrivere e a far di conti. Gesù venne per salvare quanto era ormai perduto, come umile ma onnipotente Figlio dell’uomo (cf. Lc 19,10, a proposito di Zaccheo addirittura architelónès, capo del corpo degli esattori; vedi Domenica XXXI T. Ord. C). Egli si dirige verso i malati (anzitutto), non verso i sani (Lc 5,31), da Medico divino dei corpi e delle anime alla fine è comunque vicino a tutti poiché tutti siamo malati e peccatori!
11-12 «Il fariseo sta in piedi e prega tra sé…»: senza bisogno di calcare la mano sull’atteggiamento esteriore la preghiera che egli pronunzia vale da sola a svelarne l’animo. Nel tempio, il Fariseo “sta in piedi”, nell’atrio degli Israeliti, in prospettiva del “santo dei santi” che vede da vicino attraverso la porta che conduce nell’atrio dei sacerdoti dove si svolge il culto. È la classica posizione della preghiera ebraica, che conosce, senza problemi, anche la prostrazione a terra. Tale essa resta nell’uso dei cristiani dell’Oriente. Stare in piedi davanti al Signore indica la dignità dei figli, ai quali il Padre loro che li chiama, lo permette. Egli dunque sta davanti al suo Signore, invisibile Presenza nel santuario, dal quale promette ogni grazia, come parla l’intero Salterio. E prega silenziosamente. Un’azione di grazie, eucharìstò soi, io rendo grazie a Te. È implicata qui la celebrazione sempre pubblica del Signore, nell’assemblea santa, in quanto è Lui, in quanto ha titoli meravigliosi, in quanto ha operato grazie e benefici sempre sorprendenti (cf. qui il tipico Sal 114-115).
L’azione di grazie del fariseo non è una caricatura. Se ne trova un esempio negli scritti rabbinici: «Ti rendo grazie, Signore mio Dio, di avermi posto fra coloro che siedono nella casa del sapere e non fra coloro che siedono a tutti i cantoni. Perché come loro, io mi alzo presto; ma io mi alzo presto per studiare la parola della tua legge, ed essi si alzano presto per occuparsi di cose senza importanza…».[1] La sua preghiera corrisponde a verità, perché la sua osservanza minuziosa, descritta con compiacimento (decima, digiuno bisettimanale), è un dono di Dio, ed egli lo sa. È dunque realmente un «giusto» secondo le categorie bibliche (cf. ad es. Sal 1).
Una preghiera che è comunque “strana”, perché è vera nel contenuto, ma molto inopportuna quanto alla sostanza. Da un punto di vista formale, il fariseo, nella sua preghiera, pone al centro Dio, lodando la sua azione nel proprio modo di agire. Ma il suo atteggiamento, normale in questo tipo di preghiera; denota una buona dose di ostentazione.
Il Fariseo rende grazie per il beneficio impareggiabile della sua fede, della sua fedeltà alla Legge santa ed all’alleanza fedele, poiché si è tenuto nella purezza dei costumi, non ruba, rende giustizia, non è adultero, dunque ha rispettato osservandoli scrupolosamente i comandamenti 7°, 8°, 6°, e se quel giorno è sabato, com’è probabile, anche il 3°.
Non c’è male, 3 comandamenti verso il prossimo, e 1 verso il Signore, ma tenendo conto che il 6° ed il 9° comandamento vanno sempre insieme, ed il 7° con il 10°, si hanno ben 5 comandamenti verso il prossimo e 1 verso il Signore. Si potrebbe arguire dal silenzio del Fariseo che non nomina il 4° comandamento, che i suoi genitori siano defunti; e che non nomina il 5°, fa comprendere che è un buono e pacifico. In pratica, le Due Tavole sono rispettate.
È una dichiarazione di purità sacra, che apre il libero accesso al Signore, permesso dai Sal 14 e 23, “Liturgie”, come “Salmi d’accesso”, al santuario.
Da che deriva questa autopresentazione? Probabilmente proprio dalla pratica della preghiera, poiché molti Salmi autorizzerebbero il Fariseo nella sua dichiarazione. Si guardino i Sal 7; 14 e 23; 18 (in bocca al re stesso); 25, con la dichiarazione d’innocenza proprio nell’”ingresso” al santuario e all’altare; 26; 34; 36; 38… Sono tutte dichiarazioni di innocenza motivata davanti al Signore, accanto ovviamente a Salmi di penitenza. Ancora una volta il Fariseo starebbe a posto con la sua coscienza.
Ma poi aggiunge una clausola brutale: non sono come gli altri uomini – oppure come questo pubblicano. Tutti giudicati e condannati.
Poi aggiunge anche l’autogratificazione compiaciuta: il suo digiuno bisettimanale, che si era fissato al lunedì e giovedì da regole umane. È noto che l’unico digiuno rigorosamente prescritto dalla Legge (cf. Lv 16,29) era quello del «giorno dell’Espiazione», ma gli ebrei fervorosi, e in prima fila i farisei (cfr. Lc 5,33), digiunavano anche il lunedì e il giovedì, giorni nei quali, secondo i rabbini, Mose era salito sul monte Sinai e ne era disceso quando aveva ricevuto da Dio la Legge.
Egli dunque ribadisce la sua religiosità con un’autogratificazione compiaciuta: il digiuno e le decime puntualmente assolti (v. 12). Quanto al digiuno, alcuni giorni erano fissati per alcune grandi celebrazioni nazionali, come il Capo d’anno ed il Kippür, l’Espiazione, al 1o e 10 del mese di Tisrt, con la formula “affliggerete le anime vostre” in segno di penitenza (cf. Lev 16,29). La tradizione poi aveva fissato il digiuno regolare bisettimanale al martedì e giovedì (i cristiani poi avevano spostato polemicamente al mercoledì ed al venerdì, fino ad oggi). Quanto alle decime, esse erano fissate dalla Legge divina e concernevano tutto quello che si possedeva (prodotti dei campi, del bestiame, delle industrie varie), e, come nel caso del Fariseo, qui, quello che si acquistava (któmai); cf. Dt 14,22: «Dovrai prelevare la decima da tutto il frutto della tua semente, che il campo produce ogni anno». Del popolo di Dio, nessuno e nulla doveva sfuggire alle decime (oltre alle primizie), poiché si trattava di conferimenti carichi di santità (v. 12).
Quanto alle decime, esse venivano prelevate a favore dei sacerdoti e dei leviti sugli animali e sui frutti della terra (cf. Dt 14,22), ma i farisei le estendevano per scrupolo anche ad altri prodotti (cf. Lc 11,42; Mt 23,23) o le pagavano anche nei casi, come del grano, del mosto e dell’olio, in cui il pagamento spettava al venditore (Dt 12,17), nel timore che costui non avesse adempiuto al suo dovere, violando la Legge.
13 Negli Evangeli pubblicano è sinonimo di peccatore. In quel tempo, la professione di esattore delle imposte era squalificata sia perché era a servizio dell’autorità pagana occupante sia perché nel suo esercizio si ricorreva a raggiri e frodi per estorcere denaro. Come minimo di un pubblicano si diceva che era senza onore e senza morale.
Sinceramente pentito il nostro pubblicano sta lontano dal santuario, tiene gli occhi bassi per la vergogna, e si batte il petto in segno di dolore, pregando una formula epicletica ridotta all’essenziale: «Dio, sii propizio a me peccatore» (cfr. Sal 50,3; 78,9; Dan 9,19; ricorda i 10 lebbrosi, il cieco nato, ecc.).
Di più non sa dire. E sa che non servirebbe a nulla. Ha fiducia nel Dio che scruta i cuori, e si rimette a Lui solo. Ma la preghiera dell’umile penetra le nubi (la lettura Sir 35,17).
14 «Io parlo a voi»: Gesù trae la conclusione severa. È il giudizio di Dio pronunciato in modo solenne da Gesù, maestro della Legge. Il pubblicano discese dal tempio riammesso alla divina amicizia, la «giustificazione», a differenza dell’altro.
«Quando dunque il fariseo uscì dal tempio aveva perduto la sua giustizia, il pubblicano invece l’aveva ottenuta: le sue parole furono più forti delle opere. Quello nonostante le sue opere, perse la giustizia; questo invece con parole di umiltà la conquistò, benché la sua non fosse propriamente umiltà. Infatti è umiltà quando uno che è grande si fa piccolo; l’atteggiamento del pubblicano non fu umiltà, ma verità: erano vere quelle parole, perché egli era peccatore» (Dalle «Omelie »di San Giovanni Crisostomo, vescovo, Om. 2,4-5).
La situazione è dunque capovolta; giusto risulta colui che si riconosce debitore a Dio del perdono, invocato come un dono immeritato dalla divina pietà.
Che conclusione trae Gesù dalla parabola? Osserviamo prima di tutto che il fariseo non viene condannato (cf. 7,42: «fece grazia ad entrambi»). Ma il suo atteggiamento appare come un vicolo cieco, da cui dovrà tornare indietro. La sua mancanza consiste appunto nel credersi «giusto»: anche se rende grazie a Dio e compie i propri sforzi per Dio, se ne attribuisce il merito e si presenta a Dio con una credenziale.
Il pubblicano, dal canto suo, viene indubbiamente da lontano, ma è sulla buona strada: la sua apertura alla salvezza di Dio, ci dice Gesù, è la sua giustificazione. Gratuitamente egli si trova «giustificato», e non grazie ai propri sforzi.
Dobbiamo pensare che il fariseo venga escluso dalla salvezza, in base alla duplice conclusione del v. 14? Tradurre: «Questi discese giustificato a casa sua, e l’altro no», sarebbe senza dubbio un’esagerazione. In realtà, se il fariseo è «giusto» perché Dio gli fa questa grazia – come egli stesso riconosce – il pubblicano è «giustificato accanto a» lui[2], con una gratuità ancora più evidente, perché non ha compiuto le opere della grazia. Dei due atteggiamenti, quello del pubblicano è in armonia con la salvezza che viene, mentre quello del fariseo ha ancora della strada da fare, ma sono comunque complementari.
Il Fariseo per sé non aveva necessità immediata di “giustificazione”, poiché per sé era “giusto”. Ma disse la piccola bensì sprezzante parola: Non sono rapace, ingiusto, adultero come il resto degli uomini, e fin qui la genericità non offendendo nessuno. Poi però viene a sparare: “o anche come questo Pubblicano” (v. 11b). Così si era messo contro tutto il suo prossimo, lontano ed immediato, nell’”ingiustizia” verso di esso, e dunque anche contro Dio. Poiché Dio aveva detto: “Misericordia voglio, più che sacrifici” (Os 6, 6), e lo aveva confermato per la bocca santa del Figlio: “Andate ed imparate che significa: Misericordia Io voglio, più che sacrificio” (Mt 9,13), ed il Figlio aveva insistito su questa Parola profetica: “Se voi aveste compreso che significa: Misericordia voglio, più che sacrificio” (Mt 12,7a), con la sentenza durissima: “allora non avreste condannato gli innocenti” (Mt 12,7b).
Dove sta il peccato del Fariseo, formalmente? Sta nella condanna del fratello, ma soprattutto nella causa di questa scriteriata condanna: “Chiunque è esaltante (hypsón) se stesso, sarà umiliato (tapeinóō), mentre chi è umiliante (tapeinòn) se stesso sarà esaltato (hypsóō)” (v. 14b). E la stessa parola già usata per i convitati presuntuosi, che occupano i migliori posti (cf. Lc 14,11). I due verbi hypsóō e tapeinóō stanno in forma chiastica, ossia si incrociano: se uno si insuperbisce, ossia si vanta in modo vanaglorioso, Dio lo umilierà (la forma passiva indica Dio senza nominarlo, è un “passivo della Divinità”). Al contrario, occorre umiliare se stesso, allora Dio darà Lui, come sa, la gloria della sua divina amicizia.
Però, chi non esaltò se stesso, ma anzi “svuotò” (kenóō) la sua Divinità nella più abietta umiliazione, quella della Croce? Per cui Dio poi Lo superesaltò (hyperypsóō) al di sopra d’ogni nome, e stabilì che il di Lui Nome fosse adorato per la gloria del Padre? Paolo lo spiega in Fil 2,6-11: Cristo Signore stesso, che si fece schiavo per gli uomini, come l’Adamo Ultimo, assumendosi il carico terrificante di tutte le colpe per distruggerle nella sua carne (cf. Rm 8,3).
Come altrove in Luca, la parabola ha per seconda conclusione una sentenza: «perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» che si ritrova anche in altri contesti cf. Lc 14,11; Mt 18, 4; 23,12.
Cosa che farà con se stesso: essendo Dio si umiliò con il farsi servo, e accettò la morte dello schiavo, la Croce, tuttavia Dio lo superesaltò donando «il nome» divino (cf. Fil 2,6-11).
Il v. 14b non è una pura ripetizione di 14a. Lo si ritrova, del resto, in contesti differenti: in Lc 14,11 a proposito della scelta dei posti a tavola, in Mt 23,12 a proposito dell’ostentazione degli scribi e dei farisei, e in Mt 18,4 per esortare ad assumere l’atteggiamento dei bambini. Se si collegano strettamente le due parabole del c. 18, si vedrà in questa seconda conclusione un’allusione al giudizio: vivendo la gratuità del pubblicano, noi manifestiamo la venuta del regno. Ma si può anche leggerla come un’introduzione, tradotta in stile parabolico, all’apertura e all’accoglienza senza limiti che verranno sottolineate negli incontri che seguono. Questa conclusione, poi, ci mette in guardia da una tentazione sottile: il farisaismo del pubblicano! Si può mettersi in vista anche ostentando la propria umiliazione. Evidentemente non si tratta di questo, ma di imparare a ricevere la salvezza in una totale gratuità, come verrà messo in luce in seguito[3]. La nostra preghiera, confrontata con il nostro agire, ci giudica di fronte alla presenza del regno di Dio.
Il rischio di noi cristiani è quello di dire: «Ti ringrazio che non sono come quel fariseo», e vivere l’ipocrisia di una umiltà solo gestuale. Il fariseo, come abbiamo visto, non è superbo perché sta in piedi dritto davanti a Dio mentre prega, a differenza del pubblicano che sta piegato e lontano, lo è per quello che dice, per il sentimento che ha guidato le sue azioni.
Argutamente alcuni intendono quel «tra sé» come se il fariseo si ascoltasse pregare, compiaciuto di sé e della sua volontà. Non serve stare in fondo alla chiesa durante le celebrazioni per esprimere il proprio disagio davanti a Dio dei peccati fatti, ma subito dopo allontanarci per continuare la nostra vita, con la scusa che «…tanto siamo tutti peccatori»; sarebbe un fariseismo rovescio!
Certo non è questa o quella posizione che in sé abbia importanza, ma il perché viene assunta e se è un segno esterno di qualche verità in cui crediamo.
Il discorso sull’umiltà si fa oggi sempre più raro mentre è l’unico discorso sensato che va fatto in ogni tempo quando si tratta dei nostri rapporti con Dio.
Il brano evangelico nella liturgia bizantina è proclamato nel Periodo del Triòdion (prequaresimale e quaresimale) rimandando tutto questo insegnamento al fedele, che è l’icona battesimale del Signore, e che deve vivere la sua iconicità redenta e santificata nella perfetta assimilazione al Figlio di Dio. Ma il medesimo Periodo rinvia a considerare il centro della parabola, così breve e così decisiva. Tale centro in un certo senso non sta “dentro” la parabola stessa, ma vuole trasmettersi “fuori”, nella vita degli uomini.
Il centro sta dunque fuori.
“Nell’applicazione della santa Dottrina del Signore nostro. Che ciascun fedele, e tutti i fedeli come Comunità, debbono attuare nella loro vita quotidiana, nel “piccolo quotidiano” in cui si costruisce la perfezione dell’esistenza redenta e santificata. Dove quotidianamente si fanno tante professioni false d’umiltà, e poi dovunque si corre qua e là per farsi tributare in ogni campo elogi ed onori esterni, che spesso si regalano a personaggi avidi ed immeritevoli. I fedeli del Signore in realtà stanno davanti a Lui in un Giudizio divino permanente, che sarà riassunto in quello finale (vedi poi la Domenica dell’Apókreos o di Carnevale = domenica in cui si toglie la carne per tutto il tempo di digiuno quaresimale). Nel Giudizio permanente l’assoluzione sarà permanente, ma dipende solo da se stessi, ossia dall’operare nella misericordia. Solo allora si pregherà per la propiziazione divina, ma il Signore già sarà stato propizio, e gli resta solo d’accogliere i figli suoi, lasciatisi fare degni della sua Misericordia.” (T. Federici).
II Colletta:
O Dio, tu non fai preferenze di persone
e ci dai la certezza
che la preghiera dell’umile penetra le nubi;
guarda anche a noi come al pubblicano pentito,
e fa’ che ci apriamo alla confidenza
nella tua misericordia
per essere giustificati nel tuo nome.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
[1] Trattato Berakhot 28 b del Talmud babilonese, citato dai commentatori (ad es. J. Jeremias, Les paraboles de Jésus, o.c, 145/201); per i testi, si veda H.L. Strack – P. Billerbeck, o.c, t. II, 239-249.
[2] La maggior parte degli esegeti moderni prendono l’espressione par’ekeinon (= accanto a esserci comparativo, il che attenua la formula: il pubblicano è giustificato «accanto a quello», cioè «diversamente da», «a differenza di» (J. Jeremias, o.c, sembra troppo esclusivo su questo punto); in realtà, le due preghiere hanno bisogno l’una dell’altra, ciascuna nella prospettiva che le è propria.
[3] Questa gratuità, come vedremo, invita all’azione, a una pratica concreta, ma si andrebbe al di là delle effettive dimensioni della parabola se si volesse vedere in essa un «libello contro le preghiere fatte nel tempio» e un invito a passare «dal raccoglimento religioso alla militanza contro le ingiustizie della città» (L. Simon, a.c nota 35, 1-14).
Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano