DOMENICA «DELLA DIMORA NELLA CARITÀ»
Quando san Giovanni scriveva il suo Evangelo, era uno dei pochi discepoli ancora viventi che avevano conosciuto il Signore. I primi destinatari del IV Evangelo non si trovavano dunque in una situazione diversa dalla nostra: anch’essi dovevano cercare soltanto nella fede la certezza che il Risorto è presente dovunque nel mondo, ma in un modo del tutto particolare, con una «presenza nell’assenza». Dobbiamo confessare che facciamo molta fatica a vivere questa realtà: più o meno consapevolmente, portiamo sempre dentro di noi il vecchio sogno di un regno visibile e ben localizzabile.
Eppure dovremmo sapere che, ritornando al Padre, il Cristo non ha cessato di agire. La morte non ha interrotto l’azione feconda della sua parola nel mondo, che era appena iniziata. Ma bisognava che egli se ne andasse perché questa parola, liberata da ogni limite di tempo e di luogo, si diffondesse su tutta la terra, si acclimatasse sotto ogni cielo, germogliasse e portasse frutto fuori dal suo terreno d’origine, dovunque trovasse un solco pronto ad accoglierla. Si tratta ormai di una parola vivente, animata dallo Spirito che richiede e stimola la nostra iniziativa e ci spinge, non a ripetere senza stancarci, ma a cercare nuovi significati, a sviluppare implicazioni inedite, che verranno alla luce quanto più faremo riferimento all’Evangelo per giudicare le situazioni, per decidere le nostre scelte, per agire.
Il tempo della presenza nell’assenza dunque, è anche quello della nostra responsabilità: senza irrigidirci su posizioni già acquisite, dobbiamo assumere, nella fede e nella speranza, il rischio di dare risposte coraggiose ai problemi sempre nuovi che la vita ci pone. È un rischio che bisogna correre nello Spirito. La nostra condizione è esaltante e meravigliosa: «Abbiamo deciso, lo Spirito santo e noi…» (At 15,28).
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«Senza lo Spirito, non ci sarebbero nella chiesa né pastori né dottori. È lo Spirito che fa gli uni e gli altri. Ancora oggi voi riconoscete qui il suo intervento. In che modo? Se lo Spirito santo non fosse presente in quel povero padre e dottore che io sono, quando poco fa sono salito su questa sacra cattedra e vi ho dato la pace, voi non avreste risposto ad una sola voce: «E con il tuo Spirito». …Le stesse parole voi le ripetete quando io mi accosto a questa sacra mensa. …Prima di toccare le offerte, non comincio sempre con l’implorare su di voi la grazia di Dio? E voi rispondete: «E con il tuo Spirito», ricordando a voi stessi che la persona che vedete davanti a voi conta ben poco, che le offerte deposte sull’altare non sono opera della natura umana, che è la grazia dello Spirito santo, presente ed effusa in mezzo a noi, che compie questo mistico sacrificio. …Se lo Spirito non fosse presente in essa, la Chiesa non sussisterebbe: l’esistenza della Chiesa è dunque un segno evidente della presenza dello Spirito» (S. Giovanni Crisostomo, I Omelia per la Pentecoste).
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Cf Is 48,20
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Con voce di giubilo date il grande annunzio,
fatelo giungere ai confini del mondo:
il Signore ha liberato il suo popolo. Alleluia.
L’Antifona d’ingresso, Is 48,20 (adattato), appartiene al «Secondo Isaia» (Is 40-55) che pronuncia la sua profezia durante l’esilio babilonese (circa 550 a. C.). Il Profeta, come una squilla improvvisa e inattesa di risveglio per il popolo che era prostrato e demoralizzato, fa risuonare la Voce divina dappertutto, per annunciare nella gioia rinnovata (41,8; 44,21; Lc 1,54) che il Signore ha liberato Giacobbe servo suo, il popolo suo, verso cui l’alleanza fedele è indefettibile. Il Profeta si serve del passato profetico, che nella visuale storica vede la realtà annunciata come già avvenuta, in forza della Parola stessa che la proclama. Così la Voce divina della gioia deve diventare anche voce umana di gioia per la redenzione (v. 5; e 42,1). La patria è vicina. Così essa risuona anche in questo tempo dopo la Resurrezione, la Fonte unica del Dono dello Spirito Santo, che è la Redenzione stessa, la Libertà divina donata agli uomini (Gal 5,1; 2 Cor 3,17). Dalla Libertà dello Spirito è creato il popolo redento e santificato, popolo della divina alleanza fedele. E oggi da questo popolo esce la voce del giubilo e lo annuncia al mondo.
Come in passato ancora la stessa voce profetica risuona anche in questo tempo dopo la Resurrezione. Noi che celebriamo il giubilo della libertà divina a noi donata, la libertà dello Spirito che ci ha creato popolo redento e santificato lo annunciamo al mondo. La voce divina della gioia è ora anche la voce umana piena di gioia per la redenzione e la divina dimora che in modo reale e finale diventa l’Immanuel, «Con noi Dio».
Canto all’Evangelo Gv 14,23
Alleluia, alleluia.
Se uno mi ama, osserva la mia parola, dice il Signore,
e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui.
Alleluia.
Il testo fa parte dell’Evangelo di oggi: praticare la Parola che il Signore Gesù ha portato da presso il Padre per donarla agli amati discepoli rivela l’amore verso il Maestro. I discepoli che sono stati visitati dallo Spirito Santo vivono dunque la vita nuova e possono accogliere il Figlio che porta il Padre che li ama. Questa la condizione affinché il Padre con il Figlio nello Spirito Santo pongano la loro divina dimora nei discepoli «al fine che Dio sia del tutto in tutti» come dirà Paolo in 1 Cor 15,28.
II Colletta
O Dio, che hai promesso di stabilire la tua dimora
in quanti ascoltano la tua parola
e la mettono in pratica,
manda il tuo Spirito,
perché richiami al nostro cuore
tutto quello che il Cristo ha fatto e insegnato
e ci renda capaci di testimoniarlo
con le parole e con le opere.
Per il nostro Signore…
Il brano, dell’Evangelo di Giovanni, che la liturgia di questa VI Domenica di Pasqua ci propone, è l’epilogo del primo «discorso di addio» di Gesù dopo la cena. Il contesto è quello di domenica scorsa e va tenuto sempre presente per una migliore intelligenza delle realtà del testo globale. Il discorso del c. 14 è quello iniziato al v. 31 del c. 13. Il v. 1 all’inizio e il v. 27 verso la fine del capitolo formano un’inclusione: si ripete l’invito a non avere paura.
È il motivo di fondo: tutto il discorso mira ad aiutare i discepoli a riconoscere i motivi della fiducia e del coraggio. È la fede in Dio l’unico mezzo che allontana la paura dal cuore dell’uomo; soltanto Dio è la roccia. «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5 ), abbiamo ascoltato nell’Evangelo proclamato mercoledì scorso; le altre sicurezze deludono!
Il tema centrale del discorso non è la partenza di Gesù, ma la situazione dei discepoli che rimangono. La partenza di Gesù è la cornice; il dipinto, il tema vero e proprio è il suo ritorno (cfr. v. 3.18-19. 23.28). I discepoli non saranno separati da lui:
- egli ritornerà a prenderli (v. 3);
- le loro preghiere saranno esaudite (vv. 12-13);
- il paráclito verrà da loro e colmerà il vuoto lasciato da Gesù (vv. 16-17. 26);
- Gesù stesso ritornerà ( v. 18);
- il Padre e il Figlio dimoreranno nel discepolo (v. 23).
Non si parla del ritorno di Gesù nella parusia, come ci è stato insegnato dalla tradizione, ma anche di un ritorno del Signore oggi, percepibile nell’esperienza della fede:
- nell’amore (v. 21);
- nel dono dello Spirito (vv. 16-17);
- nella preghiera efficace (vv. 13-14);
- nella pace (v. 27).
Gesù promette dunque una presenza intima e rivelante dello Spirito. Al centro del brano odierno sta la domanda di Giuda: «Com’è accaduto che devi rivelarti a noi e non al mondo?» (v. 22). Dopo la promessa della pace, quella che solo Cristo sa dare, viene la promessa dello Spirito (v. 26): essa è una garanzia di assistenza su tutto ciò che la chiesa intraprende: Lo Spirito è dato alla Chiesa, quando essa cerca di amare il suo Signore e ubbidirgli. E nell’ubbidienza d’amore a Cristo, dopo la prova della passione, la Chiesa scopre la gioia (v. 28). D’ora in poi Cristo si manifesta attraverso la Chiesa quando essa ama il Signore nell’obbedienza della fede e quando vive la gioia piena che suscita lo Spirito in lei.
I Lettura: At 15,1-2.22-29
Il Concilio di Gerusalemme. Due problemi all’ordine del giorno in questo primo concilio ecumenico della Chiesa: i pagani, per diventare cristiani, devono accettare la legge di Mose? In caso contrario, come imporre ai cristiani di origine ebraica di rinunciare alla legge e di sedersi a mensa con persone che mangiano tranquillamente carne suina? La buona coscienza degli apostoli risponde: se i pagani sono chiamati alla salvezza, è volontà di Dio; perché allora l’uomo dovrà mettere ostacoli alla loro conversione? I cristiani d’origine ebraica si spoglieranno dunque delle loro tradizioni, puramente umane, per permettere ai pagani di sentirsi a «casa loro» nella Chiesa. D’altra parte, il Concilio chiede ai pagani convertiti di non turbare o ridicolizzare certe tradizioni religiose a cui gli ebrei si sentono ancora legati.
Nella storia della Comunità apostolica la questione era diventata spinosa e apparsa per il momento non risolvibile. All’inizio si era cauti nello spingersi fino ai pagani, i peccatori per definizione, e di fatto corrotti senza rimedio, come sembrava (vedi ad esempio la terrificante pagina paolina di Rom 1,16-32).
Pietro prima (At 10-11), Paolo poi (At 13), per primi e con audacia mirabile e quasi temeraria, poiché presero l’iniziativa senza informare la Comunità Madre di Gerusalemme, avevano diretto la predicazione dell’Evangelo ai pagani, e con enorme frutto di conversioni. Ma il metodo di queste conversioni, il fatto che i pagani entrassero finalmente a far parte integrante del popolo di Dio, l’Israele di Dio, come si considerava del resto a pieno titolo la Comunità originaria, composta solo di Ebrei, non doveva tutto questo portare che anche i pagani si adeguassero pienamente alle leggi ebraiche, e anzitutto alla circoncisione, così ripugnante per il mondo antico, e poi a vivere senza condizioni secondo le prescrizioni della Legge di Mose? Il fatto per sé sembrava evidente agli Ebrei fattisi cristiani. Tuttavia, da esperti missionari, Pietro e Paolo sapevano bene che ai pagani, di cultura totalmente diversa da quella degli Ebrei, non si poteva imporre un carico nuovo, inaudito e tutto sommato non sopportabile. Altrimenti ne sarebbe andata di mezzo la possibilità stessa della diffusione dell’Evangelo della salvezza.
In sostanza, alcuni fratelli, pii Israeliti osservanti che si erano fatti cristiani, insegnavano e imponevano ai pagani, fattisi a loro volta cristiani, di osservare integralmente i costumi ebraici, altrimenti per essi non si sarebbe attuata la salvezza escatologica (v. 1).
Il testo dice che sorsero insieme una grandissima ribellione e uno zelo indiscreto fortissimo. La comunità allora decide di convocare Paolo e Barnaba e altri apostoli missionari, affinché salissero a Gerusalemme per discutere sull’argomento (v. 2). Si convoca e si apre quindi adesso, per la prima volta nella storia della Chiesa, un vero e proprio “concilio” plenario dell’intera Comunità, quello degli Apostoli, a Gerusalemme, forse l’anno 50 o 51.
Dai vv. 3 a 21 Luca dà le linee del dibattito. Anzitutto viene il resoconto degli Apostoli itineranti, i quali erano passati per la Fenicia e la Samaria operando molte conversioni e causando una grande gioia tra i pagani convertiti, e ne avevano fatto resoconto ai Dodici; ma i farisei fattisi cristiani avevano ribadito la posizione giudaizzante (vv. 3-5). Allora si riunisce l’assemblea plenaria (v. 6); espongono i punti di vista simili Pietro (vv. 7-11) e Paolo con Barnaba (v. 12), poi parla equilibratamente Giacomo, riconosciuto come autorevole capo della Chiesa di Gerusalemme per essere parente di Gesù (vv. 13-21), e riconosce l’estensione della Grazia divina anche alle nazioni. Egli quindi chiede solo che tre norme rigorose siano osservate dai pagani convertiti: il rigetto totale della frequentazione dell’idolatria, la purità dei costumi, l’astensione dal mangiare gli animali uccisi per soffocamento (quindi senza farne scorrere il sangue) e dal bere il sangue degli animali stessi.
Al v. 22 è narrata la decisione conciliare: inviare un gruppo di fratelli, Paolo, Barnaba, Giuda Bar-Saba e Sila (v. 23), questi recherebbero un’epistola ai cristiani d’Antiochia, di Siria e di Cilicia, nella quale, sconfessate le turbative suscitate dalla forte polemica in corso (v. 24), si presentava la commissione (v. 25) di uomini fedelissimi (v. 26), di cui si fanno i nomi (v. 27). Viene quindi la decisione finale, con i suoi contenuti (v. 28), la cui clausola d’apertura, mirabile nella forma, resta il modello di ogni decisione della Chiesa convocata nel sinodo permanente della carità: «E fu ritenuto dallo Spirito Santo e da noi». Il contenuto è non porre pesi non necessari alla fede nascente, salvo le tre norme proposte da Giacomo (v. 29).
Così la Comunità apostolica con sovrano equilibrio, con supremo realismo, soprattutto con la mozione della carità fraterna e universale espressa verso i più poveri tra tutti gli uomini, i pagani, fanno uscire la Chiesa da una crisi e da una stasi che le potevano essere fatali. Aprire ai pagani volle in fondo ottemperare il supremo mandato del Signore ai suoi discepoli di allora e a quelli che poi sarebbero venuti in tutti i tempi: portare l’Evangelo della Grazia al mondo intero
Esaminiamo il brano
23 – Gesù risponde a Giuda e Giovanni precisa di quale Giuda si tratti (cf Lc 6,16 e At 1,13 per il fratello di Giacomo; il Taddeo di Mt 10,3 e Mc 3,18.), che gli chiede (v. 22) come mai si manifesti solo ai discepoli e non al mondo. È l’occasione (vedi anche domande di Tommaso v. 5 e di Filippo v. 8) che dà all’autore dell’Evangelo la possibilità di ulteriori spiegazioni, ma che dimostrano anche l’incapacità dell’uomo di comprendere il mistero di Dio.
Giuda ha l’impressione che l’esclusione del mondo dalla manifestazione di Gesù sia qualcosa di deludente; egli pensa ad una grandiosa apparizione divina nella quale Gesù sarà intronizzato come messia (cf At 1,6). È il progetto dei parenti di Gesù (cf Gv 7,3-5) che rivela l’incapacità a comprendere, la mancanza di fede in Lui. La manifestazione di Gesù invece avviene nel privato, è interiore; è una manifestazione che avviene nell’amore. L’amore del discepolo per Gesù si manifesta con la custodia e l’osservanza della sua parola (cf Gv 14,15.21); a questo amore corrisponde quello di Gesù e del Padre che dimorano in lui. Presenza profonda che è spirituale ed individuale, non spettacolare (cf 1 Re 19,11-13).
«prenderemo dimora»: monḗ indica una dimora stabile e con poiéō seguente equivale al nostro fermarsi a vivere, ad abitare con qualcuno. È un antico tema veterotestamentario (cf Es 25,8; 1 Re 8,27-29). Nel periodo post-esilico il profeta Zaccaria parla di una futura dimora di Dio i mezzo al suo popolo, che porterà gioia (Zc 2,14). Ogni credente, che pratica la fede nell’amore, diventa tabernacolo di Dio.
Il tema della dimora (verbo enoikéō) è largamente usato da Paolo: 2 Cor 6,16; Ef 3,17; Rom 5,5 e 8,11 l’ospite è lo Spirito Santo; Col 3,16 l’ospite è la Parola. Finalmente e realmente potrà essere Immanuele «Con noi Dio»; l’allusione di Ct 5,2 e ripresa in Ap 3,20 diventa quella realtà che è compimento di una delle promesse più totali e sublimi (leggi Omelia di Gregorio Magno).
Una chiave di lettura della visione della Gerusalemme celeste (cf II Lettura) è proprio il compimento delle profezie: Ezechiele nei cc. 40-48 descrive dettagliatamente il tempio nuovo che sorgerà nella Gerusalemme escatologica; questa citta avrà un nome emblematico: «Il Signore è là» (YHWH-sâmmâh cfr Ez 48,35). Quanto promesso e annunciato come realtà futura dai profeti, ora Giovanni lo contempla come realtà presente. Questa Gerusalemme rappresenta la nuova umanità redenta, intimamente legata a Gesù Cristo, essendo la sposa dell’Agnello (21,9).
La salvezza di cui gode si apre a tutta l’umanità e a tutto l’universo; tra i vari simbolismi si osservi che le iniziali dei quattro punti cardinali (anatolé, dysis, àrktos, mesemhrìa) formano esattamente il nome Adam, il capostipite di tutta l’umanità.
24 a – Gesù non si manifesta a coloro che non l’amano. È la disponibilità all’amore che differenzia il discepolo dal mondo. Senza l’amore l’uomo rimane carnale, incapace di fare autentica esperienza di Dio; solo chi ama sperimenta che la partenza di Gesù è in realtà il suo ritorno.
24 b – Gesù ha sempre affermato che la “Parola” non è sua in esclusiva, ma del Padre che è la fonte, il principio, l’inviante. Il Padre parla la sua “Parola”, che è il Verbo, il Figlio; lo genera e così il Figlio viene agli uomini come «la Parola-Verbo» del Padre. Si dimostra così come Gesù è «la Parola del Padre»; non come strumento (una specie di altoparlante), ma perché il Padre si riflette in lui con l’amore (cf Gv 15,10).
25 – Il discorso qui ha una svolta. Questa è la rivelazione comunicata nella sua vita terrena cf Lc 24,6 (alla tomba vuota) e Lc 24,44 (nel cenacolo ai discepoli radunati). La rivelazione in sé e per sé è chiusa, ha esaurito tutto il contenuto comunicabile, quello che serve per il disegno salvifico.
26 – Adesso il Signore annuncia la venuta dello Spirito Santo; sì tratta della 2a promessa dello Spirito (cfr 14,16-17 prima, e 15,26; 16,7-11; 16,13-15 dopo), ad ognuna delle promesse escono nuovi particolari. Qui il nome di “Consolatore”, in greco Paràklètos, il «Vocato accanto», viene usato in contesti giuridici per indicare chi viene in aiuto all’imputato: l’Avvocato nel processo finale (cfr Gv 16,7-11) contro il Maligno.
Sul piano religioso ha preso il senso di «intercessore»; qui ha la funzione di assistenza ai credenti e non di avvocato presso Dio. Al di là del contesto letterario (i discorsi di commiato), esiste un contesto esistenziale che ci può interessare maggiormente per i suoi riflessi pratici.
La partenza di Gesù indica il tempo della Chiesa, con i suoi problemi e interrogativi; Chiesa che affronta l’odio del mondo, la persecuzione, l’incredulità. È il nostro tempo, cosa più cosa meno. In questo contesto che caratterizzava allora la vita della comunità di Giovanni, oggi la nostra, si comprendono i due fondamentali compiti dello Spirito nella comunità: l’insegnamento e la testimonianza.
L’insegnamento dello Spirito è ancora quello di Gesù, non è un concorrente, è mandato «nel mio nome».
Compito dello Spirito è il «ricordo», ma non un ricordare ripetitivo: non è un fatto di memoria ma di comprensione. Giovanni ci offre due esempi: 2,17.22; 12,16
Memoria non ripetitiva quindi ma «comprensione nuova». È lui l’impulso divino per il memoriale che facciamo nella celebrazione dei misteri divini (la nostra, eucarestia per intenderci).
Il v. 26 è anche una formulazione precisa del mistero trinitario: il pronome «egli» è di genere maschile, indica cioè una persona; questo evita di fraintendere lo Spirito come una generica forza divina, dato che «Spirito Santo» in greco è di genere neutro.
27 – Insieme con l’invio dello Spirito viene la promessa della Pace divina.
«Vi lascio la pace, vi do la mia pace... » Gesù precisa che lascia la pace «sua», non dona quella che usa dare il mondo, la momentanea non guerra.
Quello «Shalôm» che disperatamente si cerca di far risuonare nella terra degli eventi biblici (Palestina) sconvolta da ormai troppi anni di guerra e nei tanti altri luoghi di violenza e sofferenza. Pensiamo anche alla pace che cerchiamo di mantenere nei nostri rapporti quotidiani.
Il saluto di pace sulle labbra di Gesù è una parola che salva, che va alla radice, all’origine della vera pace.
Gesù guarisce l’emorroissa dicendo «và in pace» Lc 8,48; in Lc 7,50 rimette i peccati alla donna peccatrice. La pace di Gesù nasce dalla vittoria sul peccato e sulle sue conseguenze. È una pace che sconvolge la pace mondana, spesso fondata sulla connivenza. Gesù in questo senso si può dire che ha portato la divisione (Lc 12,51). Mentre i sinottici parlano di pace in contesti diversi, Giovanni ne parla solo due volte nel contesto della passione (14,27 e 16,33) e due volte dopo la resurrezione (20,19-21. 26).
Nel v. 27 l’affermazione di Gesù è solenne; non si tratta di un saluto ma di un dono, dono che viene dall’alto e non dalla decisione dell’uomo.
La pace che Gesù dà è diversa; Gesù sa che i discepoli potrebbero non riconoscerla e dà questa indicazione supplementare: «… non come la dà il mondo …».
Il testo greco ci aiuta con altri preziosi consigli: mentre os (= come) indica una semplice somiglianza, spesso soltanto tale per giudizio soggettivo, kathos (= conformemente a; come) denota una stretta conformità, una esatta corrispondenza e oggettività imparziale. L’autore quindi stabilisce un rapporto esatto di somiglianza oppositiva: in modo esattamente contrario a come la da il mondo (cf Gv 14,31; Mc 14,36; Lc 21,42).
La differenza quindi non è nel verbo didomi che indica un dare usato sia per Gesù che per il mondo (si noti l’uso dell’indicativo presente, è il tempo della realtà che descrive un’azione che si sta svolgendo in questo momento con tendenza a durare verso un immediato futuro).
Anche con le migliori intenzioni, il mondo può solo “augurare” la pace; cioè è in grado di dare solo parole che non sanno produrre nulla di concreto: sono infatti semplici parole di uomini.
Gesù non “augura” ma “lascia” (=aphíēmi) come uno che lascia dei beni concreti (lasciare in eredità può essere infatti una traduzione di aphíēmi anche se non è un verbo giuridico; cf Mc 10,28; 11,16; 15,37). Da notare il tempo al presente: cioè per sempre.
Quindi tutto ciò che il termine ebr. Shalôm in gr. eirene comprende (Salute fisica e intellettuale, tranquillità, prosperità, ricchezza, gioia di vivere sia nello spirito che nel corpo; cf 2 Tim 2,22 concordia; Rm 2,10 prosperità; Ap 6,4 tranquillità pubblica, Lc 2,14 dono messianico) viene dato realmente ora ai suoi discepoli (cf comm. Agostino nelle omelie dei padri). È una pace spesso nascosta nel suo contrario (le persecuzioni); ha una solo caratteristica, è legata alla presenza di Cristo e nella certezza della sua vittoria: «io ho vinto il mondo» (Gv 16,33).
28 – «vado e torno»: espressione famigliare per indicare un’assenza brevissima.
«è più grande di me»: dal gr. mégas (= maggiore) è parola controversa: per gli Ariani denotava una vera inferiorità di natura il che è da escludere. I Padri risposero che la questione poteva essere intesa in diversi modi; ferma l’eguaglianza di natura che è consustanzialità, la frase senza vivisezioni và letta alla luce della missione di Cristo:
- il Figlio parla qui come l’Uomo che entra nella Gloria divina, dopo aver terminato la sua indicibile Economia della carne,
- Il figlio quindi è inferiore in quanto incarnato (cf Fil 2,6); altri dicono il Figlio è inferiore rispetto al Padre che lo genera;
- il Padre è “superiore” perché conduce al fine tutto quanto avviene, compreso l’invio del Figlio e la sua glorificazione (cf Gv 10,29).
29-31 – Questi ultimi vv. sono una specie di appendice, ribadiscono i temi centrali:
- Gesù ritorna dal Padre;
- il Padre è più grande di lui, ecc
Non c’è più molto da aggiungere (v. 30), Gesù è pronto e sembra avere fretta «… alzatevi andiamo via di qui»; è consapevole di essere più forte del principe del mondo «… non ha nessun potere su di me». È ansioso di mostrare al mondo la profondità del suo amore al Padre e la sua completa obbedienza.
«Alzatevi»: l’imperativo presente voluto dal verbo (che esprime un’azione puntuale) è per rendere il comando meno perentorio (delicatezza verso la persona cui ci si rivolge).
È il verbo della resurrezione: egeírō. Nei sinottici (cf Mt 26,46 e Mc 14,42) segna l’inizio della passione. In Giovanni è anticipata e interpretata come segno del suo amore al Padre nell’osservanza del suo comandamento (cf 10,17-18: «Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio”»).
I Colletta
Dio onnipotente,
fa’ che viviamo con rinnovato impegno
questi giorni di letizia in onore del Cristo risorto,
per testimoniare nelle opere
il memoriale della Pasqua
che celebriamo nella fede.
Per il nostro Signore..