Comunità di Pulsano – Commento al Vangelo di domenica 22 Gennaio 2023

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DOMENICA «DELLA PRIMA PREDICAZIONE DI GESù»

III del Tempo per l’Anno A

Mt 4,12-23 (leggi 4,12-25); Is 8,23b-9,3; Sal 26; 1 Cor 1,10-13.17 (1,10-17)

Tutto inizia alle frontiere. La Galilea è la frontiera, geograficamente e teologicamente; la sua popolazione è estremamente eterogenea, quasi pagana; è considerata come la periferia della terra promessa, e i suoi abitanti sono ritenuti come i marginali del popolo di Dio. Ma è qui che Gesù inizia il suo ministero; egli viene a cancellare le frontiere e a confondere le nostre carte. La Chiesa sarà quello strano popolo che non vive a suo agio se non nella zona di frontiera: là dove incontra il mondo sino al punto di correre il rischio di confondersi con esso, ma per drizzarvi i segni della liberazione concreta degli uomini.

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I testi odierni puntualizzano in modo evidente l’universalità della salvezza. «I popoli immersi nelle tenebre», la «Galilea delle genti», vedono sorgere su di loro la grande Luce. Terre occupate, terre avvilite, terre oggetto di maledizione finché restavano nemiche, o anche soltanto limitrofe del popolo eletto. Ora per la salvezza, per il messaggio di Cristo, i confini non esistono più, non vi sono più stranieri: tutti, Zàbulon, Nèftali, distretto dei gentili, diventano «popolo che Dio si è acquistato, sacerdozio regale, nazione santa» (1 Pt. 2,9); non solo: diventano via, luogo di passaggio, verso il mare, un al di là, sempre più avanti, superamento senza fine.

«Coloro che pensano poter ottenere, personalmente o senza intermediari, la piena e definitiva rivelazione di Cristo, non sono maturi per questa rivelazione: prendono per il Cristo i fantasmi della loro immaginazione. Dobbiamo cercare la pienezza di Cristo non nella nostra sfera individuale, ma nella sua sfera, quella di Cristo, che è universale, nella chiesa. Santificati nella chiesa, senza che i nostri peccati la maculino in quanto chiesa, dobbiamo accettare per essa di perdere la nostra anima: vale a dire di perdere l’isolamento del nostro io umano, per ritrovare la nostra anima dall’unione con Dio»

 (Soloviev[1], Lezioni sull’Umanità-Dio).

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L’evangelo di questa domenica dunque ci presenta una predicazione proclamata ai quattro venti, davanti a una folla vivace e interessata, il cui carattere composito favorirà la diffusione della buona notizia. L’annuncio avviene in una zona di frontiera, dove si mescolano persone di provenienze molto diverse: è una situazione ideale perché esso prenda il volo, sorretto dal vento dello Spirito.

Una pagina è stata girata, e si tratta di scrivere una pagina nuova. Il tempo della profezia si è concluso con l’arresto del Battista: bisognava che egli diminuisse perché l’Altro crescesse. Le porte della prigione si sono rinchiuse sulla grande voce del precursore, e Gesù ha quasi sempre taciuto fino a questo momento. Ora è tempo che parli, che proclami il regno presente in quella terra di frontiera, in quel «crocevia dei pagani» che è la Galilea. La gente del luogo, fra cui si trovano molti emarginati e stranieri, gode di cattiva fama presso i giudei: di là non potrà mai venire niente di buono. Eppure già il profeta Isaia aveva annunciato proprio a loro la luce messianica dell’Emmanuele. E a loro si rivolge anche Gesù, «il messaggero di lieti annunzi che annunzia la salvezza, che dice alla città santa: Regna il tuo Dio! (Is 52,7). È tempo di convertirsi, perché davvero il regno è vicino. Sembra che il messia cominci in questo momento ad avere alcuni fedeli occasionali. In ogni caso, il ricordo della loro adesione definitiva alla sua persona rimarrà legato alla Galilea dei pagani, dove fu pronunciata la parola: «pescatori di uomini!» Pescatori nel grande mare dell’umanità, in vista del regno.

Dll’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 95,1.6

Cantate al Signore un canto nuovo,

cantate al Signore da tutta la terra;

splendore e maestà dinanzi a lui,

potenza e bellezza nel suo santuario.

L’orante del Sal 95,1.6, (salmo della regalità divina) con due imperativi innici, esorta il popolo d’Israele, e oggi noi, a cantare al Signore il «cantico nuovo» (v. lb; e 32,3; 39,4; 97,1; 149,1), ossia il «cantico del Mar Rosso» (Es15,1-18), che celebra l’irresistibile vittoria divina sui nemici e l’inizio del suo esodo verso la patria. Ora, l’esodo forma una tipologia, essendo essenzialmente l’unico evento di salvezza, il passaggio dalla morte alla vita, che si dovrà ripetere nella vita d’Israele. Quando il Signore salva, «fa fare esodo», e così i Profeti annunciano il nuovo esodo dall’esilio, fino all’ultimo esodo, quello di Cristo al Padre nella gloria della Resurrezione. Perciò il «canto dell’esodo» è sempre il medesimo, ma sempre nuovo per la novità della vita che suppone già avvenuta. Per questo è invitata l’intera terra ad unirsi alla gioia dell’acquisita salvezza. La lode al Signore prosegue poi nel presentare la sua Manifestazione sovrana, poiché davanti a Lui si svolge un’immensa celebrazione, nel cielo e sulla terra, e il suo santuario celeste e terrestre appare un’indicibile e magnificante gloria (v. 6; Is 60,13), la quale attrae i fedeli nella gioia e nella santificazione.

Canto all’Evangelo Cf Mt 4,23

Alleluia, alleluia.

Gesù predicava il vangelo del Regno

e guariva ogni sorta di infermità nel popolo

Alleluia.

L’Alleluia, che orienta la proclamazione della pericope evangelica, accentua oggi due poli costitutivi del ministero battesimale messianico del Signore, l’annuncio dell’Evangelo e le opere del Regno, qui le guarigioni.

L’evangelista Matteo, come anche gli altri, fa iniziare la vita pubblica del Signore dal suo Battesimo. Gesù, unto di Spirito Santo e di Potenza è consacrato per la Divina Liturgia (= opera per il popolo). Domenica scorsa Giovanni Battista ha rivelato a tutti la vera identità di Gesù come il Cristo annunciato da tutti i profeti. Manifestato agli uomini come il «Messia», «Colui che doveva venire» cammina ora in mezzo al popolo annunciando l’Evangelo del Regno, compiendo le opere della Carità del Regno per riportare tutti al culto salvifico del Padre.

Questa è la vita del Signore battezzato tra gli uomini che viene ora contemplata episodio dopo episodio fino al culmine che è la morte di Croce. La Croce è il supremo atto di annuncio evangelico del Regno, la suprema opera di carità del Regno, il supremo atto di culto al Padre. La Resurrezione e la Gloria sono il divino sigillo dello Spirito che il Padre imprime in eterno nell’umanità glorificata del Figlio suo, il Signore nostro (At 2,32-33).

Il tempo per l’Anno offre la contemplazione di tutto questo nel continuo narrativo dell’Evangelo: qui sempre il Padre nel Figlio con lo Spirito Santo chiama gli uomini per farli diventare suoi figli veri. Se il Battista è arrestato per aver puntato il dito contro Erode per la sua condotta immorale e di lì a poco verrà messo a tecere per sempre, ecco che Gesù compare fra le gente per annunziare a tutti che il Regno di Dio è vicino ed è perciò necessario convertirsi. A Dio non si può impedire di parlare.

La preghiera di colletta in cui si chiede a Dio che le comunità cristiane, illuminate dalla sua parola e unite dal vincolo del suo amore «diventino segno di salvezza e di speranza per tutti coloro che dalle tenebre anelano alla luce» suggerisce il tema dell’universalità della salvezza.

Sul simbolo della «luce», identificata con la liberazione e la salvezza, fa perno anche la prima lettura tratta dal libro di Isaia; essa prepara la proclamazione dell’Evangelo di Matteo che riprende il testo profetico per interpretare l’inizio della missione evangelizzante di Gesù in Galilea.

I lettura: Is 8,23b – 9,3

Il testo profetico, che forma perfetto accordo con la pericope evangelica, fa parte del «libretto dell’Immanuele» (Is 6,1 – 12,6).

In un tempo incerto per l’esistenza stessa di Giuda e di Gerusalemme, il Signore fa giungere al suo popolo mediante il Profeta le parole certe di intervento efficace. La situazione è cupa, eppure è annunciata per questa povera terra in angoscia un improvviso balenare luminoso (8,23a). In realtà il Signore stesso un tempo aveva punito le regioni di Zàbulon e di Neftali, per mano della potenza assira, come narra 2 Re 15,29: «Al tempo di Peqah, re d’Israele, venne Tiglatpileser, re d’Assiria, e conquistò… la Galilea e tutta la terra di Neftali, e ne deportò la popolazione in Assiria»; questi deportati si persero nel tempo, ma quanti restarono si trovavano nell’attesa continua della redenzione. Isaia presenta proprio la redenzione messianica: «il tempo che viene darà onore alla via del mare, al di là del Giordano, la terra dei pagani» (v. 8,23b).

Questo popolo dei poveri Ebrei, considerati a metà pagani, è descritto nel suo futuro evento salvifico come fosse ormai avvenuto. Dalle tenebre in cui procedevano, dalla terra buia, quasi come negli inferi dei morti, essi videro la Luce grande, poiché in effetti questa si pose a risplendere su loro (v. 9,1; e Gb 3,5; Lc 1,79; Ef 5,8.14). Tutto questo si presenta con i segni dell’epoca messianica. Il Signore rende moltiplicata la gioia degli oppressi (26,15), la riduplica di giubilo, e quelli esultano riconoscenti davanti a Lui, tributandogli accoglienze festose come durante un abbondante raccolto stagionale. Anzi di più, come quando nella gioia selvaggia ci si divide la preda del nemico vinto (v. 9,2). Anche nel N. T. il Signore invita a gioire per la messe abbondante del raccolto finale (Gv 4,36). La divisione del bottino fu descritta già nell’A. T. (Gdc 5,30), e così le vittorie (1 Sam 30,16; Sal 118,162). Ma adesso è infinitamente di più. È festa nel Signore.

Il Profeta traccia ora il bollettino della vittoria divina. Il Signore stesso infranse imperiosamente il giogo che opprimeva il suo popolo (10,27; 14,25), lo scettro straniero, che imponeva un dominio iniquo e indegno, idololatra (10,524; 14,5; 30,31; Nah 1,13). Egli rinnovò così le gesta antiche, che rimbalzano nelle cronache d’Israele, oggetto del canto festoso di questo popolo. Mediante Gedeone il Signore si scelse le schiere sue, con una drastica selezione di 32.000 guerrieri convenuti da Manasse, Aser, Zàbulon, Neftali (Gdc 6,35); prima li ridusse a 10.000, poi a soli 300 (Gdc 7,1-8), affinché la vittoria fosse attribuita solo al Braccio del Signore. Con questi 300, armati solo di trombe e di orcioli con dentro una fiaccola, Gedeone assaltò l’immenso accampamento dei Madianiti nella valle di Iezreel, e al grido di guerra: «Per il Signore e per Gedeone!» lo pose in scompiglio generale e ne fece strage (Gdc 7,16-25), e nel successivo inseguimento ne fece sterminio (Gdc 8,4-21).

Isaia ripropone con questo esempio la teologia del «resto d’Israele», con il quale il Signore rinnoverà le gesta di Madian e le gesta del Mar Rosso (Is 10,20-27, spec. v. 26), e spezzerà il giogo che opprime il suo popolo (v. 27). Poi dopo pochi versetti annuncia l’avvento del Messia con lo Spirito del Signore su lui (10,33 – 11,10).

Quando Israele si troverà ancora oppresso, con una «supplica comunitaria» chiederà al Signore di ripetere la gesta contro Madian (Sal 82,12a). Così la grande gesta viene a chiamarsi il «giorno di Madian», giorno di vittoria e di gioia e di luce (v. 9, 3).

Questo Giorno grande con la Luce abbagliante dell’Evangelo è ormai venuto con Cristo che comincia la sua predicazione. Il nuovo Madian sono adesso i terribili nemici degli uomini, il regno delle tenebre, che il santo «Resto d’Israele» saprà sconfiggere totalmente nel tempo stabilito con la sua Croce.

Il Salmo responsoriale: 26,1.4.13-14, SFI

Il Versetto responsorio, v. 1a, fa contemplare il Signore che quale Luce divina viene ad annunciare l’Evangelo, e così è acclamato come unica Luce e Salvezza dei suoi fedeli che Lo celebrano. Il ritornello del Sal 26, che introduce la risposta dell’assemblea alla prima proclamazione della parola di Dio, identifica apertamente la «luce» con la salvezza, nella persona del Signore: Il Signore è mia luce e mia salvezza.

L’irremovibile fiducia dell’Orante è espressa dall’esordio, una dichiarazione ferma davanti all’ambiente che sembra tremolare sempre: «Il Signore, Luce mia, Salvezza mia!», ossia Vita divina che si comunica, che viene a suo tempo su Gerusalemme (Is 60,1), la Sposa che a sua volta è sicura, dopo la caduta, di ricevere di nuovo la Luce divina (Mich 7,8). Il Salmista sa che questa Luce si comunica attraverso i comandamenti divini, che illuminano il cuore (Sal 18,9). Con questa certezza, con fierezza e senza iattanza, il Salmista ricusa ogni timore da parte di chiunque (v. la; 22,4; 55,5.11; 117,6). Anche i Profeti dichiarano lo stesso (Is 12,2; 51,12). Paolo codificherà questo nell’esclamazione fondata, di totale fede e fiducia: «Se Dio è per noi, chi è contro di noi?» (Rom 8,31b; II lett. della Domenica XVII).

Nel parallelismo del versetto, l’Orante riafferma con altrettanta forza che il Signore è la Fortezza inespugnabile, per cui non avrà mai paura di nessuno (v, 1b). Gli assalti dei nemici comunque sono inevitabili, tumultuosi e tremendi, ma l’Orante non sarà mai scosso (vv. 2-3, oggi non cantati).

Perciò il Salmista fa l’anamnesi della sua preghiera passata, la quale resta tesa e permanente (25,8; 83,2-3.11; Lv 10,42), nel desiderio di porre la sua dimora perenne nella Casa del Signore (14,1; 22,6; 41,5; 60,5; 64,5), come poi farà Gesù ancora ragazzo (Lc 2,49). Una dimora che segni perciò l’esistenza dell’Orante «per tutti i giorni della sua vita», senza termine davanti al Signore. Lo scopo dichiarato è provare e gustare le Delizie del Signore nel suo tempio (v. 4). Come si è detto, nel santuario, convocati dal Signore, i fedeli ascoltano la Parola divina e la sua spiegazione sacerdotale in vista dell’attuazione concreta della divina Volontà; inoltre, essi partecipano al sacrificio di comunione, forma molto densa di adesione al Signore e ai fratelli. L’Orante sa che la Mano del Signore è ricca di queste divine Delizie, atraverso le quali mostra il suo Volto di Bontà. Egli si esprime altrove con questo poema mirabile:

Signore, la Misericordia tua giunge ai cieli,

la Fedeltà tua fino al firmamento,

la Giustizia tua come i monti divini,

i Giudizi tuoi come l’abisso sterminato:

gli uomini e gli animali Tu benefichi, Signore.

Quanto moltiplicasti la Misericordia tua, Dio,

i figli degli uomini sperano sotto la protezione delle tue ali.

Saranno inebriati dell’ubertà della Casa tua,

e con il torrente della Delizia Tu li disseti,

poiché presso Te sta la Fonte della Vita,

e nella Luce tua noi vedremo la Luce.

Estendi la Misericordia tua a quanti Ti conoscono,

e la Giustizia tua ai retti di cuore (Sal 35,6-11).

Per questo il Salmista è certo di sperimentare sempre i Beni del Signore nella sua esistenza santificata (v. 13; 34,11).

Tutta questa fiducia il Salmista rivolge adesso nel finale come esortazione a se stesso, che vale anche per tutti i fedeli. In 4 momenti (v. 14). Anzitutto, la tensione rivolta sempre al Signore (51,7; 114,9; 141,6; Gb 28,13; Is 38,11), l’unico riferimento della vita fedele. Il Signore va cercato sempre (Es 20,20; 33,7), ed Egli stesso trova quanti Lo cercano. Poi il fedele deve comportarsi con il coraggio e la forza che gli provengono dal Signore stesso (36,34; 51,7; 114,9; Pr 20,22), come Egli esortò Giosuè quando venne a morire Mose, e il nuovo capo ebbe il compito di condurre il popolo nella patria (Giosuè 1,9). Poiché il Signore sta sempre con i suoi. Il cuore del fedele, in terza istanza, dovrà essere totalmente rassicurato da questo. Infine, l’Orante è esortato da se stesso a stare sempre dalla parte del Signore (Pr 20,22; Sal 30,25), come fu esortato Israele stesso (Dt 31,7), e di nuovo Giosuè (Giosuè 1,6; 9,18). Con questa fiducia, l’Orante vuole vivere per sempre.

Dopo il suo battesimo nello Spirito, dallo Spirito il Signore è condotto nel deserto (Mt 4,1) per essere provato nella sua costanza battesimale; orribilmente tentato dal demonio (vv. 2-11; cf Dom. I di quaresima), lo supera nell’amore totale al Padre e nella fedeltà alla Parola dell’A.T.

Quindi è pronto per la sua missione messianica tra gli uomini.

L’inizio del ministero di Gesù, che la tradizione sinottica fa coincidere con l’imprigionamento del Battista, ha luogo in Galilea ed ha per epicentro Cafarnao. Il richiamo al vaticinio di Isaia (vv. 14-16) è proprio di Matteo.

Il brano evangelico si ferma inspiegabilmente nella lettura liturgica al v. 23, senza includere anche i vv. 24-25, che sottolineano l’intervento di Gesù a favore del popolo e il forte richiamo esercitato, secondo Matteo, dalla sua figura sulle folle. L’intervento redazionale dell’evangelista è più rilevante in questi ultimi tre versetti (23-25), dove propone un resoconto sintetico dell’attività di Gesù. Gli stessi termini generici riassuntivi torneranno poi al v. 9,35, dopo il ciclo dei miracoli (8,1-9,34) e prima della serie dei discorsi di Gesù (9,36-11,1; 13,1-52), divisi tra loro dal primo scontro ufficiale con i suoi connazionali (11,2-12,50). Questa prima parte riguardante il ministero di Galilea si conclude con l’episodio dei nazareni che respingono Gesù (13,53-58).

Esaminiamo il brano

v. 12 – «Avendo saputo… si ritirò»: per Matteo lo spostamento di Gesù dalla Giudea alla Galilea sembra sia avvenuto immediatamente dopo il suo battesimo e il digiuno quaresimale. I tre sinottici (e Giovanni a suo modo) affermano concordemente che Gesù non iniziò il suo ministero se non dopo che Giovanni era stato imprigionato da Erode Antipa. Tutti e tre i sinottici sono pure d’accordo nel riferire che Gesù tornò in Galilea, sua patria, per annunziare il regno.

Il quarto evangelo, tuttavia, riferisce vari episodi riguardanti l’attività di Gesù in Giudea anteriori all’imprigionamento del Battista (cfr. Gv 1,19-3,36 e 3,24).

«era stato arrestato»: giunge una notizia tragica, la cattura di Gv il Battista da parte di Erode Antipa, che prelude al martirio; i particolari di tale fatto criminoso sono narrati in Mt 14,1-12.

Sia Matteo sia Marco (1,14) ci tengono a precisare che l’impegno evangelizzatore di Gesù e del battista non fù contemporaneo, né in concorrenza. Matteo sottolinea l’evento dal punto di vista di Gesù, il quale «sente la notizia» relativa al Battista e di conseguenza si muove. Il verbo greco, tradotto con «arrestare», è para-didómi (= consegnare; in latino: tradere) che designa l’importante concetto della “consegna”: è lo stesso verbo con cui Gesù stesso annuncerà il proprio destino di morte, in quanto «si consegnerà/verrà consegnato» nelle mani degli uomini. La sorte del Precursore fin dall’inizio preannuncia la prospettiva che attende pure il Cristo.

«Gesù si ritirò nella Galilea»: il verbo adoperato (ana-chóréó) dà origine al vocabolo “anacoreta”, per indicare uno che si ritira dal mondo nella solitudine orante. In realtà nel caso di Gesù non fu una fuga dal mondo, ma anzi proprio il contrario: si allontanò dalla regione desertica del Giordano, dove aveva ricevuto l’immersione penitenziale e dove aveva trascorso i giorni austeri del discernimento nel deserto. Avendo fatto la sua scelta, conforme allo stile e al progetto del Padre, Gesù inizia decisamente la sua opera: non torna a Nazaret, dove era stato allevato, ma sceglie come residenza la cittadina di Cafarnao, posta sulla riva del mare di Galilea.

«Galilea»: Davvero strano che la Galilea sia il luogo principale dell’attività messianica e il punto di partenza della sua rivelazione. Questa provincia periferica era marginale nella storia del popolo: occupata da genti pagane, finì per essere abitata da una popolazione ibrida e dopo l’esìlio restò fuori dall’area sacra che ruotava intorno a Gerusalemme. Quella regione settentrionale venne definita appunto «Galilea delle genti»: in ebraico infatti ghelìl significa «distretto, provincia, circondario». Galilea dunque era in origine un nome comune, per designare quella parte dì territorio che era stata occupata da popoli stranieri (= goyyim). Nella logica giudaica la manifestazione del Messia è attesa nella città santa, non in periferia e tanto meno in un ambiente abitato anche da pagani.

v. 13 – «Nazaret»: dall’ebr. nasreth = vedetta, guardia. Gesù torna in Galilea, luogo della sua partenza per la missione, e da Nazaret comincia il suo itinerario; è un itinerario teologico, il cui fine è Gerusalemme.

«Cafàrnào»: dall’ebr. Ke far nahùm = villaggio di Nahum (?), oppure villaggio del conforto. La prima stazione è Cafarnao, luogo di mirabili episodi (vedi Mt 11,23: si pensi solo al «discorso eucaristico», Gv 6,22-59; ai miracoli: la tassa per il tempio 17,24-27; la guarigione di un indemoniato Mc 1,21-28; di un paralitico Mc 2,1-12; ecc). La città, oggi identificata con le rovine di Tell Hum, ubicata a 4 Km a ovest della foce del Giordano nel mare di Galilea, era un posto di grande commercio (era sulla “via del Mare”, una delle grandi strade della Palestina che da Damasco conduceva al Mar Mediterraneo e quindi in Egitto) e sede di dogana perché si trovava sul confine degli Stati dei tetrarchi Erode e Filippo. Era, inoltre, sede di una guarnigione romana (cfr. episodio della guarigione del servo del centurione di Mt 8,5).

«Zàbulon»: dall’ebr. ze bulòn = principe.

«Nèftali»: dall’ebr. naf tali = campione.

Matteo nota che Cafarnao si trova nel vecchio territorio tribale di Zàbulon e Nèftali (divisioni tribali secondo il libro di Giosuè nei capitoli 13-19; in particolare 19,10-16.32-39); ciò gli dà lo spunto per citare Is 8,23-9,1, distinguendosi così dalla linea marciana da cui Matteo dipende.

v. 14 – «ciò che era stato detto…»: la profezia di Isaia, con la quale Matteo sottolinea in modo solenne l’inaugurazione dell’era messianica, fu occasionata dalla devastazione operata dall’esercito assiro nella Palestina settentrionale, nel 734 a.C. dal re Tiglat-Piléser III (cfr. 2 Re 15,29), con la successiva deportazione e trasformazione del territorio in una provincia assira.

L’inizio della missione di Gesù non poteva non rientrare nello schema teologico, caro a Matteo di promessa profetica-realizzazione.

La parte d’Israele che fu la prima a sperimentare l’ira distruttrice di Jahvé sarà la prima a udire il messaggio della sua salvezza. Questo popolo che giaceva nello squallore delle tenebre, all’ombra della morte della fede, avrebbe visto la Grande Luce divina; nella venuta di Gesù si compie la promessa: la liberazione preannunciata diventa avvenimento.

«Il Signore è mia Luce e mia Salvezza» recita il v. responsoriale; «per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte» (Lc 1,79 il Benedictus); «Io sono la luce del mondo, chi segue me, non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).

Ma chi sono gli interessati? L’attenzione sembra cadere sull’ambiente: si tratta della Galilea dei pagani, una regione abitata da una popolazione mista di pagani e di ebrei. L’evangelista Matteo vuol dire che Cristo porta la salvezza a tutti, anche ai pagani (ricordiamo che Matteo scrive ad una chiesa giudeo-cristiana spesso restia, se non contraria, all’apertura universalista del messaggio cristiano).

vv. 15-16 – Il testo profetico proviene dallo stesso contesto della profezia dell’Emmanuele; esso suona così nell’ebraico: «Come in un primo tempo (Dio) umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, in un secondo tempo rimise in onore la via del mare, l’Oltre-Giordano, la Galilea (meglio: il distretto) delle genti».

L’evangelista riconosce nel testo profetico un significativo nesso con la predicazione stessa di Gesù: l’ascesa al trono del re è paragonata da Isaia al sorgere della luce, fonte di speranza per chi abita in una terra di morte sotto la pesante dominazione straniera. L’antico profeta sperava che il nuovo re liberasse le popolazioni della Galilea dal gravoso giogo assiro e dal bastone dell’aguzzino che l’opprimeva; ma nella mente di Dio quell’oracolo doveva avere una portata ben più grande e profonda. Matteo cerca appunto di chiarire la portata della profezia: il nuovo re è Dio stesso che inaugura il Regno con la presenza e l’opera di Gesù. L’intervento finale di Dio per regnare sull’umanità è dunque l’intervento luminoso della liberazione che alla gente di Galilea è offerta dalla predicazione dì Gesù, dall’annuncio di questa buona notizia, dalla guarigione di ogni sorta di infermità nel popolo.

Così l’evangelista ribadisce con insistenza che Gesù, il Cristo, realizza il piano divino testimoniato dalle Scritture e mostra con abilità letteraria e teologica che non si tratta solo di conferme accidentali, bensì di un compimento sostanziale: egli è «il di più» che porta finalmente a pienezza l’originale progetto di Dio.

«sulla via del mare»: vuol dire probabilmente «regione marittima», cioè la striscia di terra che corre lungo il mare. Ma mentre nel testo profetico si intende la costa mediterranea che insieme agli altri territori della Palestina settentrionale divennero provincia assira con l’invasione guidata da Tiglat-Pilèser, nel nostro evangelo è ravvisata la costa nord-occidentale del mare di Galilea, cioè del lago di Tiberiade (cfr. v. 18).

«al di là del Giordano»: è la Transgiordania che, con il nome di Perea, faceva parte della tetrarchia di Erode Antipa; ma l’evangelista intende includere anche le regioni più a nord e cioè la decapoli e la tetrarchia di Filippo, regioni toccate da Gesù nel suo ministero.

«Galilea delle genti»: (o dei gentili) la Galilea, come già abbiamo avuto modo di dire, per la sua popolazione mista di ebrei e di pagani, già al tempo di Isaia è chiamata “distretto delle genti” (cfr. 1 Mac 5,15). “Gentili ” erano chiamati infatti le genti pagane, che non appartenevano alla razza e religione ebraica.

v. 17 – «Cominciò a predicare…»: il contenuto della predicazione di Gesù è sintetico ed essenziale: la conversione perché il Regno dei cieli sta qui. E il Regno sono lui e lo Spirito (cfr. Mt 12,28).

La formula di 4,17 è tipicamente redazionale e con essa Matteo segna la struttura della sua opera: «Da allora Gesù cominciò a predicare…».

Una formula simile ritorna in 16,21, per dare inizio alla seconda parte del racconto: «Da allora Gesù cominciò a dire chiaramente ai suoi discepoli che egli doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto…».

Ci sono, per così dire, due inizi che caratterizzano due fasi distinte del ministero pubblico di Gesù. La prima è caratterizzata dal verbo “predicare” (keryssein), mentre la seconda è contrassegnata dal verbo “rivelare” (deikeyein). In una prima fase dunque – secondo la ricostruzione e l’interpretazione dell’evangelista Matteo – Gesù si impegnò nella predicazione pubblica, nell’annuncio del Regno e nella proclamazione dell’irruzione di Dio nella storia umana. In un secondo momento invece Gesù passò ad approfondire con i suoi discepoli il senso di tale intervento divino e rivelò il mistero della croce come snodo decisivo dell’opera salvifica.

Matteo condensa il sommario marciano della proclamazione di Gesù, usando la frase dell’evangelista Marco (la usa anche per sintetizzare la predicazione di Giovanni, Mt 3,1) senza l’allusione al «tempo» (Kairòs) e senza l’invito alla fede. Gesù si inserisce volutamente nella tradizione inaugurata dal suo Precursore.

«Convertitevi»: (metanoèite = mutate pensiero) l’imperativo presente positivo usato nella versione greca ci dice che si tratta di un invito a continuare un’azione già iniziata. Al primo posto Matteo mette l’esigenza che ognuno cambi la propria mentalità, cioè la metànoia: infatti il verbo «metanoèite» (tradotto: «convertitevi») esprime il cambiamento di mentalità, cioè un radicale capovolgimento del proprio modo di pensare e di vedere la realtà. Il punto decisivo da cambiare è il pensiero dell’autosufficienza: chi pensa di essere capace da sé e di salvarsi con le proprie forze, non riesce a cogliere la bellezza dell’intervento divino e non è pronto ad accoglierlo. Cambiando invece la mentalità orgogliosa dell’Adamo disobbediente, ognuno può fidarsi dell’evangelo di Dio, cioè della sua proposta di salvezza e accoglierla concretamente nella persona di Gesù. L’evento fondamentale dunque da accogliere con mente rinnovata è il regno dei cieli che si è avvicinato: con formulazione tipicamente semitica Matteo adopera “cieli” al posto di “Dio” per evitare il nome divino, ma il senso è proprio lo stesso.

«il regno dei cieli»: a differenza di Marco e di Luca che hanno sempre “regno di Dio”, Matteo parla costantemente di regno dei cieli; l’espressione, una metafora, rispecchia probabilmente l’originale aramaico, in cui il nome di Dio è sostituito, per riverenza, con quello dei «cieli».

Il regno quindi non è da prendere in senso locale (= regno territoriale) ma piuttosto in senso di dominio, cioè quella condizione del mondo e dei singoli uomini nella quale Dio regna pienamente su di loro. Si tratta di una metonimia (= nominare il contenente per il contenuto), con la quale viene indicato Dio stesso, senza però nominarlo.

«è vicino»: La forma verbale «si è avvicinato» (énghiken) non significa che è un po’ più vicino di prima, ma afferma che è proprio qui, è arrivato, ci siamo! Dunque Gesù dice che «il regno di Dio è qui!»: finalmente Dio interviene per prendere in mano la sorte del mondo e cambiarla. E nella persona stessa di Gesù Dio è all’opera per cambiare il mondo. Una parola tremenda è qui, le illusioni sono finite per gli uomini. La Realtà è già qui (cfr. scena del battesimo), ma occorre che sia accolto con il cuore convertito e aperto alla grazia.

vv. 18-22 – La chiamata dei primi collaboratori (vv. 18-22) è ricordata da Matteo, che segue passo passo lo schema di Marco, fra i primi gesti del ministero di Gesù. L’evangelista Luca, attingendo forse a una fonte esclusiva, ha dato una relazione più estesa del racconto ed ha aggiunto l’episodio della pesca miracolosa. Giovanni (1,35-42) ha una narrazione completamente diversa.

L’idea centrale del racconto in Matteo e Marco è che i quattro seguirono immediatamente Gesù pur non conoscendolo; essi «lasciarono cadere» le loro reti da pesca, lasciarono le loro famiglie, e divennero discepoli. Essi lasciano barca e Padre, dunque lavoro e famiglia, uno strappo improvviso e certo doloroso, e seguirono il Maestro. Perfetto esempio di obbedienza vocazionale, irreversibile ed immediato. Possiamo notare la tecnica tipica della vocazione del Signore, che avviene con tre verbi: passò – guardò – chiamò.

v. 18 – «due fratelli»: i primi oggetti di questa vocazione sono i due fratelli Simone ed Andrea, che la Chiesa orientale chiamerà per sempre, con grande onore, i Pròtòklètoi, i primi chiamati.

Simone, che in ebraico significa «docile all’ascolto», riceverà il nome nuovo, Kèfà, Pietra, Pietro (cfr. Gv 1,42), sul quale, insieme con gli undici e con la Comunità, il Signore fonderà la sua Chiesa (16,16-18). Andrea deriva dal gr. Andréas = virile, maschio.

Tre di questi primi quattro – Pietro, Giacomo e Giovanni – formarono una piccola cerchia di tre intimi che furono testimoni oculari di eventi a cui non furono presenti gli altri discepoli (la trasfigurazione Mt 17,1; al Getsemani Mt 26,37; resurrezione della figlia di Giàiro Mc 5,37).

In seguito (Mt 10,1-3) il Maestro, nella sua insindacabile selezione, sceglie tra i discepoli, molto numerosi, i Dodici, che saranno il nucleo apostolico della Chiesa. Un’urgenza analoga è espressa nella vocazione di Levi (Mt 9,9).

v. 19 – «vi farò pescatori di uomini»: è una formula stilizzata di vocazione nella quale riecheggia il rapporto che lega il maestro al discepolo presso gli ebrei. Il discepolo segue il maestro e viene istruito lungo il cammino. La promessa di fare di loro dei «pescatori di uomini» è un’indicazione del loro ufficio apostolico; fuori di immagine, significa che dovranno fare altri discepoli, oppure essere loro stessi un giorno maestri.

v. 21 – «vide altri due fratelli»: con i suoi due discepoli Gesù continua a camminare lungo il lago; vede altri due pescatori che riassettano le reti con il loro padre e li chiama. Non è necessario dire altro; abbandonando i legami familiari e il lavoro (sequela piena, senza condizioni) anche questi due fratelli seguono Gesù. Va tuttavia ricordato che ci troviamo di fronte a un racconto fortemente stilizzato e non davanti a una descrizione particolareggiata di fatti così come sono accaduti.

«Giacomo»: dall’ebr. ja’àkob = (Dio) protegga; per etimologia popolare di Gen 25,25 = soppiantatore, che prende il calcagno.

«Zebedeo»: forma greca del nome ebraico zabdi’el = Dio ha donato.

«Giovanni»: dall’ebr. je hòhanan = Jóhanan = Jahvè è  misericordia  opp. misericordioso.

«li chiamò»: come già detto è un termine tecnico usato per indicare la vocazione del discepolo; ma è interessante notare che in gr. kaléō= traduce chiamare, ma anche “dare il nome”. Dare il nome a qualcuno nel linguaggio biblico è prenderne possesso (cfr. ad es. i primi cc. della Genesi; ecc.).

vv. 23-25 Fra la chiamata dei primi discepoli e l’ampia sezione dottrinale costituita dal «discorso della Montagna» dei cc. 5-7, Matteo inserisce un sommario resoconto della dell’attività apostolica di Gesù in Galilea, che si riassume in due parole: insegnare e guarire.

v. 23 – «nelle loro sinagoghe»: com’era suo costume (Lc 4,16), insegna nelle sinagoghe, di sabato, alla liturgia solenne festiva, dove si proclama la Legge con i Profeti. A questo il Signore vi aggiunge l’annuncio dell’Evangelo del Regno, sempre la «prima carità», e le opere del medesimo Regno, per ora le guarigioni. Questi due poli concreti della sua missione saranno permanenti (cfr. Mt 9,35).

Da notare come Matteo scriva «loro sinagoghe», un chiaro indizio che già all’epoca della stesura dell’evangelo matteano (70? 80? d.C), la separazione fra giudaismo e cristianesimo era ormai un fatto compiuto.

«ogni sorta di malattia e di infermità»: viene rievocata, come sarà scritto più esplicitamente in 8,17, l’immagine del Servo di Jahvé che «ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie» (cfr. Is 53,4).

v. 24 – «per tutta la Siria»: è la provincia romana, formata con i territori conquistati da Pompeo nel 64 a.C: abbracciava la Siria propriamente detta, la Fenicia e la Cilicia orientale. È forse, questo accenno, un’anticipazione della grande importanza che detta regione ebbe nell’espansione del cristianesimo fuori della Palestina (cfr. At 11,20-26; 15,23).

v. 25 – «Decapoli»: il termine gr. Dekápolis (da déka = «dieci» e pòlis = «città») vuol dire letteralmente: regione delle dieci città. Si tratta della confederazione, istituita da Pompeo, di una decina di città ellenistiche, situate per la maggior parte al di là del Giordano, a nord e a est della Perea. Sebbene sotto l’alta sovranità romana, le città godevano di un’ampia autonomia interna.

II Colletta

O Dio,

che hai fondato la tua Chiesa

sulla fede degli Apostoli,

fa’ che le nostre comunità,

illuminate dalla tua parola

e unite nel vincolo del tuo amore,

diventino segno di salvezza e di speranza

per tutti coloro che dalle tenebre anelano alla luce.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…


[1]  Vladimir Sergeevič Solov’ëv (in russo: Владимир Сергеевич Соловьёв?, pronuncia: Vladìmir Salaviòf; Mosca, 16 gennaio 1853Uzkoe, 31 luglio 1900) è stato un filosofo, teologo, poeta e critico letterario russo. Il poeta russo Aleksandr Blok lo definì il “cavaliere monaco”, e infatti l’insieme della sua esistenza delinea i contorni inconsueti di un mistico asceta, che visse in semplicità e generosa gratuità ogni istante della sua vita. Il vescovo cattolico Strossmayer, che per un certo periodo frequentò assiduamente il filosofo, si spinse fino a definirlo “anima candida, pia ac vere sancta est”. Soloviev si presenta con le caratteristiche tipicamente russe del vero “pellegrino dello spirito”, e come ha giustamente osservato uno dei suoi primi biografi e suo discepolo, il principe filosofo Evgenij Trubeckoj: “con la sua immagine spirituale, ed anche fisica, ricordava il tipo del pellegrino che cerca la Gerusalemme celeste e per questo erra per tutta l’immensa vastità della terra, venera e visita tutti i luoghi sacri, ma non si ferma a lungo in nessuna dimora terrena”. Egli infatti non aveva una vera e propria casa, viveva ora in albergo, ora in monasteri o presso amici, distribuendo sempre ogni suo avere. Dal 1876 Vladimir Solov’ëv insegna all’università di Mosca, per poi passare al ministero dell’educazione a Pietroburgo; nel 1881 tuttavia è sospeso dall’incarico per motivi politici. In quello stesso anno pubblica Lezioni sulla divina umanità, in cui difende il “simbolo” cristologico espresso durante il concilio di Calcedonia, nel 451, che definisce l’esistenza in Cristo di due nature perfette: divina e umana. Un altro aspetto fondamentale del pensiero di Solov’v riguarda la cosiddetta “teosofia“, che individua nella Sapienza Divina il tramite tra Dio e gli uomini; questa sapienza, che si rivela pienamente in Cristo, si attua nella Chiesa, che è “l’eterna amica”, “l’essere reale e femminile: la vera e pura e intera umanità”. Nella sua dimensione materiale, la Chiesa assumerà il suo aspetto perfetto allorché realizzerà l’unione delle diverse denominazioni cristiane e la convergenza fra Chiesa e Stato. Tra le altre opere di Solov’ëv occorre ricordare I fondamenti spirituali della vita (1884) e Sulla giustificazione del bene (1897).

La divinità è concepita come unitotalità di bellezza e bene, mente ordinatrice che si ravvisa non nella generalità dei singoli enti ma nella gerarchia delle idee, amore che è principio unico non relazionale che precede l’essere, e lo crea quale al contempo aspirazione all’essere che materializza le idee per possederle nel mondo esteriore. La filosofia è intesa come ricerca della verità e l’etica come complementare ricerca della felicità. La bellezza è reciproca unione di infinito e finito, specchio della verità delle idee calata nel reale. La concezione è radicalmente diversa da Hegel che concepì la bellezza come una proprietà delle idee e dell’infinito, un momento temporaneo di unione di queste idee col reale e il finito, per fuggire poi altrove.

Fu critico feroce di Puškin, poeta-profeta romantico, perché la sua arte non era posta al servizio della verità ma di un egocentrismo giunto a perdere la vita in un duello d’onore.

Fu critico di Tolstoj per la sua interpretazione del pacifismo come forma di non violenza, intesa come rinuncia al diritto e alla non prevaricazione dei più deboli, e fallimentare tentativo di conciliazione esteriore di contraddizioni interne. Inoltre gli rimproverava di predicare un Cristianesimo fasullo, senza Cristo e senza risurrezione (per Tolstoj Gesù era un semplice uomo, che predicava una dottrina etica e non metafisica).

Pure negli ultimi scritti, particolarmente sul simbolismo dell’Anticristo, criticò la visione del progresso come società prospera, felicità pacifica e comodità. Vide nel nascente ‘900 un secolo di guerre, il fallimento delle ideologie, che i progressi della scienza e della psicologia non avrebbero risolto le domande di fondo della vita, la scristianizzazione dell’Occidente e un montante agnosticismo.

Per una motivazione fortemente teologica, avvertì l’urgenza di superare la scissione fra Chiesa cattolica e ortodossa, che si proclamavano entrambe unico Corpo col Cristo, e la necessità di un ecumenismo dottrinale, non fondato su un’unione di primati e particolarismi storici delle Chiese (primato temporale del cattolicesimo, tradizione agli ortodossi, esclusiva protestante dell’esegesi biblica).

Qualche critico ha sostenuto che Fëdor Dostoevskij si ispirasse a Solov’ëv per la figura di Alëša ne I fratelli Karamazov.

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano